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Libri – Un mondo di rifugiati. Migrazioni forzate e campi profughi

Viviamo in un mondo di rifugiati. Almeno quaranta milioni sarebbero le persone costrette a lasciarsi tutto alle spalle perché vittime di conflitti interni o internazionali, perseguitati per motivi politici o religiosi, per le proprie idee o i propri orientamenti sessuali. L’Europa e gli altri paesi occidentali portano meno del 10% del peso mondiale delle persone sradicate di cui si fanno carico soprattutto i paesi del sud del mondo. In Italia, unico paese europeo ancora senza una legge organica sull’asilo, i rifugiati sono poco più di 12.000.

Il libro cerca di sottolineare la continuità tra l’erosione del diritto d’asilo in Europa, la diffusione dei centri chiusi (dai nostri Centri di Permanenza Temporanea alle “zones d’attente” d’Oltralpe), l’istituzione dei campi profughi in Africa e l’innalzamento ai nostri confini di barriere che ricacciano sempre più a sud migranti e rifugiati che si affacciano su un Mediterraneo che si presenta oggi più che mai come un cimitero di senza-nome. Ecco perché parliamo di migrazioni forzate e delle nuove forme, più o meno dissimulate, di “refoulement” (ovvero di respingimento forzato).

Un mondo di rifugiati. Migrazioni forzate e campi profughi
di Chiara Marchetti
Editrice Missionaria Italiana
ISBN 88-307-1572-7
pp. 288
Anno 2006
€ 14,00


UN MONDO DI RIFUGIATI
Prefazione
Ampliare lo sguardo sul mondo
di Marco Deriu

Finché non si sarà compresa e messa bene a fuoco la questione dei rifugiati, non si potrà dire di conoscere il mondo in cui viviamo. Quella dei rifugiati non è affatto una questione marginale che può essere delegata solo ad alcune istituzioni e al personale specializzato.

È chiaro infatti che la realtà di un mondo dove si registrano oltre 40 milioni di migranti forzati non può essere affrontata con le categorie retoriche e operative dell’”emergenza”. Il fenomeno globale dei rifugiati non può essere trattato alla stregua di eventi naturali come quelli occasionati dai terremoti, dai nubifragi, dagli tsunami. La questione dei rifugiati in realtà è al cuore dei processi politici, economici e sociali della nostra modernità. È espressione di questi processi, ma assieme contribuisce a illuminarli e a svelarne il significato e l’impianto ideologico implicito e nascosto.

Siamo contenti perciò di pubblicare questo libro nella collana Alfazeta Observer. Intanto perché rappresenta un’ideale continuazione e approfondimento delle riflessioni che abbiamo proposto con precedenti pubblicazioni sui temi degli aiuti umanitari e delle guerre. Secondariamente perché il lavoro di Chiara Marchetti ha il merito indiscusso di riuscire a raccontare in maniera appassionata e intelligente, in tutta la sua ampiezza e profondità, la realtà di questo mondo di rifugiati nel quale viviamo, senza peraltro esserne minimamente consapevoli. E non si tratta solamente di dare le informazioni fondamentali e descrivere analiticamente lo stato della situazione – cosa che il volume fa sistematicamente, anche grazie all’ausilio di un importante apparato di schede, approfondimenti e un’antologia dei documenti fondamentali -, ma anche di offrire un’analisi critica della realtà capace di restituire il significato politico delle questioni e delle sfide che ci troviamo di fronte quando parliamo di rifugiati.

In particolare questo lavoro ha il pregio di mettere a fuoco molto bene e con grande chiarezza tre questioni, che corrispondono poi alle tre parti in cui è diviso il libro: i danni dell’ideologia impolitica dell’assistenza umanitaria, la logica concentrazionaria implicita nella forma del campo profughi, le nuove politiche di refoulement preventivo verso cui stanno andando i Paesi occidentali e le istituzioni internazionali.

Chiara Marchetti mostra con grande dovizia di esempi e particolari come nel caso dei rifugiati – ma il problema è senz’altro più generale – l’ideologia dell’impolitico propugnata dalle agenzie umanitarie e dalle stesse Ong nasconda in realtà una cattiva politica, dei cui guasti fatichiamo a prendere atto. Vengono così descritti le politiche dei numeri, le forme di controllo, la contrazione delle forme di protezione, le dinamiche di vittimizzazione e gli atteggiamenti paternalistici, la creazione di forme di dipendenza e l’emergere di molteplici forme di violenza anche nel quadro delle cosiddette iniziative “umanitarie”. Insomma, si offre finalmente una valutazione critica e puntuale delle politiche di assistenza di agenzie e Ong. La politicità delle forme di assistenza verso i rifugiati è facilmente rilevabile nella palese doppiezza di atteggiamento verso i diversi profughi. Governi e istituzioni internazionali mostrano una implicita intesa nell’imporre i campi profughi o l’esilio come soluzione permanente a coloro che vorrebbero fare ritorno alla propria terra, come i palestinesi, e nell’imporre il rimpatrio forzato a coloro che vorrebbero invece ricostruirsi un futuro nei Paesi europei. In entrambi i casi il criterio non è la tutela dei diritti di scelta e di autodeterminazione dei rifugiati, ma la gestione degli interessi e dei costi politici dei Paesi occidentali.

Il libro richiede dunque uno sforzo di criticità, poiché c’è certamente nel cittadino medio occidentale una certa ingenuità di lettura di questi problemi, per cui si collega immediatamente l’idea di assistenza e il nome delle istituzioni umanitarie alla rappresentazione del bene e del giusto, rinunciando così fin da subito al tentativo di osservare criticamente l’adeguatezza delle nostre risposte e la pertinenza delle attuali forme di solidarietà. Anche negli ambienti più sensibili e impegnati, va detto, non c’è l’abitudine ad interrogarsi sul significato e sulla responsabilità politica delle forme di solidarietà, a livello nazionale e internazionale. In effetti la logica organizzativa ed economica delle istituzioni internazionali e delle Ong è spesso profondamente in contraddizione con la ricerca di soluzioni sensate e di ampio respiro a questi problemi. L’obiettivo non può essere quello di aumentare le capacità di assistenza delle organizzazioni umanitarie ingigantendole e mettendo sotto la loro tutela sempre più persone. In questo modo si rischia semplicemente di aumentare la nostra assuefazione alla realtà dello sradicamento e delle migrazioni forzate, senza intervenire sulle premesse. Si finisce insomma, come ho notato altrove – richiamando una formula di Gregory Bateson -, per curare il sintomo in modo da rendere il mondo confortevole per la patologia. Si tratta viceversa di intervenire sui meccanismi politici ed economici che negli ultimi decenni hanno fatto esplodere la questione dei rifugiati, in modo da contrastare il fenomeno alle radici.

Da questo punto di vista, l’analisi di Chiara Marchetti decostruisce analiticamente e radicalmente la realtà del campo profughi descrivendolo non come una realtà naturale, ovvia e inevitabile, ma al contrario come la proiezione nel mondo dell’assistenza internazionale dei pregiudizi su di noi e sulle nostre alterità ancora diffusi e radicati nelle mentalità della gente comune e degli stessi terzomondisti o dei rappresentanti delle istituzioni europee e internazionali.

Lungi dall’essere la soluzione ideale o inevitabile per garantire i bisogni dei profughi, la forma campo rappresenta invece il dispositivo ideale per garantire i governi contro le aspirazioni e gli stessi diritti dei rifugiati. Il campo non è solo una forma fisica ma una forma politica e sociale, nella quale vengono rinchiuse persone alle quali, con la scusa dell’assistenza, viene impedito di muoversi e di prendere delle decisioni, ovvero di scegliersi un futuro diverso.

Come nota giustamente la Marchetti, la spinta verso il “concentramento” cui sono sottoposti profughi e rifugiati non è solamente fisica o territoriale ma soprattutto mentale e psicologica ed è legata allo sradicamento sociale, all’isolamento politico, alla dipendenza materiale e simbolica, alla mancanza di prospettive di qualsiasi genere. In altre parole il campo profughi non è la risposta d’emergenza alla crisi umanitaria in attesa della definitiva soluzione politica, ma la definitiva soluzione umanitaria per prevenire l’emergere di una risposta politica alla crisi.

Nell’epoca della globalizzazione, il campo profughi si presenta come lo spazio fisico connaturato alle logiche parallele d’integrazione economica nel mercato mondiale (di una minoranza) e di esclusione politica (della maggioranza). La crescita dei rifugiati e il diffondersi dei campi profughi raccontano evidentemente della crisi e del fallimento degli assetti politici, istituzionali ed economici nei Paesi del Sud del mondo. Lo sfaldamento dei sistemi statali coloniali e postcoloniali, la disillusione verso le virtù salvifiche dello sviluppo economico, la frattura tra le élite occidentalizzate e arricchite e la gran parte della popolazione, il fallimento delle politiche di modernizzazione e occidentalizzazione e contemporaneamente l’impossibilità di ritornare senza mediazione alle forme di organizzazione sociale tradizionale. Come ha notato Serge Latouche, “integrando le varie parti del mondo nel mercato mondiale l’Occidente ha fatto qualcosa di più che modificarne i modi di produzione: ha distrutto il senso del sistema sociale, cui tali modi erano strettamente connessi”. In queste condizioni le guerre “locali” ridefiniscono le strutture di potere e di autorità non più su base nazionale o istituzionale ma in relazione a forme inedite di organizzazione reticolare, clientelistica, mafiosa. Contemporaneamente le forme di violenza costruiscono e impongono nuovi rapporti di scambio tra attori locali e soggetti internazionali, garantendo una connessione tra diffusione della violenza, economia di guerra, gestione delle risorse e integrazione di traffici lucrosi nei flussi e nei mercati globali.

Nei fatti i rifugiati sono causati dalla violenza della guerra, ma più profondamente sono il risultato di un disfacimento politico, economico e sociale. I rifugiati, i profughi di oggi sono l’eccedenza di cui il mercato globale e il sistema politico non hanno più bisogno se non nel ruolo loro assegnato di vittime. Sono persone bandite che non hanno più accesso non solo a un sistema politico ma nemmeno a una comunità, a un’appartenenza sociale, ad una integrazione socio-economica.

I rifugiati dunque richiedono non tanto di tematizzare i diritti individuali quanto di impegnarsi per la difficile ricostruzione di comunità politiche e sociali su basi diverse da quelle del passato, mettendo in discussione le stesse formule e ricette propagandate non solo dalle istituzioni economiche ma dagli stessi governi e dalle agenzie umanitarie. Perché qui è il punto: l’impegno e le forme dell’assistenza sono utili principalmente per mantenere lo status quo e per non mettere in discussione gli interessi delle élite corrotte e contemporaneamente dei governi e dei soggetti economici occidentali.

Gli effetti di quella che la Marchetti chiama “trasfusione umanitaria” sono infatti quelli prevedibili della vittimizzazione, della passivizzazione, dell’aumento della dipendenza e del controllo dall’esterno. I campi da questo punto di vista sono analizzati anzitutto come self-reinforcing institutions, come istituzioni concentrazionarie che “amministrano” i profughi secondo gli interessi e le necessità dei governi finanziatori e delle stesse agenzie umanitarie.

Ma non ci sono solo interessi reconditi a supportare forme di intervento paradossali e perverse. Forse ancora di più andrebbe registrata una “stupidità istituzionale” che propone soluzioni standard solo apparentemente razionali e inevitabili. La stupidità istituzionale previene e ostacola – anziché supportare – la creatività, le forme spontanee e autorganizzate di solidarietà locale. Avendo come presupposto l’incapacità e la dipendenza dei soggetti locali, non prevede alcuna forma di ascolto, di scambio, di confronto, di supporto alle forme di autodeterminazione.

Come difendersi allora dai propri soccorritori? Come proteggersi dalla violenza umanitaria? Come impedire che attraverso l’imposizione acritica delle proprie categorie culturali e politiche gli operatori umanitari occidentali portino a termine nella maniera più subdola e raffinata il processo di colonizzazione verso altri popoli?

In effetti l’aspetto difficile da comprendere – e che invece emerge bene dal libro di Chiara Marchetti – è la continuità ideologica e pratica tra le politiche istituzionali verso i rifugiati promosse dagli stessi organismi internazionali, dai governi e perfino dalle agenzie delle Nazioni Unite e le politiche apparentemente più lontane dalla nostra idea di solidarietà come quelle di reclusione dei Centri di permanenza temporanea (Cpt) verso cui si è in questi anni rivolta la protesta delle organizzazioni di base. In realtà tra le due politiche non solo non c’è opposizione, ma anzi nella loro comune logica sottostante si richiamano e si rafforzano le une con le altre.

Nel quadro che emerge da queste pagine si ripercorre punto per punto la deludente deriva delle istituzioni da garanti del diritto (e rappresentanti di questo presso le sedi nazionali e internazionali) a organismi umanitari che, anziché difendere i diritti e le libertà di autodeterminazione dei rifugiati, congelano e cristallizzano le relazioni di potere che hanno prodotto quei profughi espellendo masse di persone dalle proprie case e dai propri Paesi.

È particolarmente interessante e meritevole l’analisi delle politiche europee ed occidentali verso i profughi. L’ipocrisia europea verso i diritti dei rifugiati, la politica del “refoulement preventivo” dietro alla quale sembra nascondersi anche un’istituzione come l’Unhcr. Di fronte ai dati mostrati da Chiara Marchetti, l’ipocrisia istituzionale emerge chiaramente nei discorsi dei governi che sostengono di non poter accogliere troppi profughi, ma che al contempo ritengono che Paesi terzi del Sud del mondo che già sostengono gran parte della pressione migratoria possano senz’altro accoglierli al posto loro, in cambio di qualche forma di pagamento e riconoscimento.

Si procede così nel rilevare come elementi di un unico disegno piuttosto coerente da parte dei governi occidentali la militarizzazione dei mari e dei confini, la criminalizzazione dell’immigrazione, la restrizione del diritto di asilo, la politica dei campi, gli accordi di riammissione e gli aiuti vincolati, la deportazione forzata in Paesi terzi, l’esternalizzazione dell’asilo ecc. Questo insieme di prassi costituisce un tentativo di aggiramento del proprio sistema di diritto, dei propri valori, perfino della propria coscienza. Registriamo così sempre più la rimozione della realtà del rifugiato dalla coscienza europea.

Il fatto preoccupante è osservare che le politiche europee sui profughi non stanno offrendo né soluzioni e neppure palliativi. Esse determinano al contrario l’aumento della disperazione tra i profughi e il ricorso a comportamenti eclatanti, la crescita del racket di esseri umani, la progressiva militarizzazione dei confini e delle società, una crescente ostilità da parte delle popolazioni locali, l’aumento dell’isolamento e della diffidenza.

In effetti, oggi, l’unica cosa che sembra accomunare i governi europei di destra e di sinistra è la criminalizzazione e la militarizzazione della questione dei migranti e dei rifugiati. Nell’Europa di oggi perfino il governo Zapatero, così avanzato sui diritti civili, dimostra una totale inciviltà nel gestire la realtà dei migranti clandestini alle sue frontiere o nei suoi mari.

Con questo non vogliamo certo sottovalutare l’ampiezza e la problematicità del fenomeno in questione. Si può intuire e comprendere il timore che queste persone, gli espulsi dalla vecchia trinità stato-popolo-territorio, possano costituire solamente “l’inizio di un movimento crescente, il primo rivoletto di una riserva inesauribile”. Tuttavia, proprio cercando di registrarne la dimensione strutturale e non occasionale, vogliamo sottolineare che la questione dei rifugiati non può più essere affrontata solamente nei termini di assistenza e protezione semplicemente individuale. Da questo punto di vista, se si vuole arrestare il progressivo arretramento “nei fatti” del diritto di asilo in Europa, bisogna avere il coraggio di uscire dalla retorica dei diritti umani e dall’illusione degli aiuti umanitari, per cominciare ad affrontare i nodi politici ed economici locali e internazionali che stanno al fondo di questi fenomeni e che ci porteranno necessariamente a ripensare e a ridefinire radicalmente il senso e le forme della cittadinanza nei Paesi del Sud del mondo e nella stessa Europa.

Da dove ripartire dunque? Molte sono le cose da fare e il libro di Chiara Marchetti propone già diverse e stimolanti piste di lavoro. A queste posso forse aggiungere un aspetto. La necessità di mutare lo sguardo verso quella folla indistinta con la quale ora identifichiamo i profughi e i rifugiati. Il profugo, il migrante forzato, l’esule, il rifugiato sono figure centrali dell’ultimo secolo in termini politici, culturali, sociali. Sarebbe importante dunque anche un lavoro culturale per ricordare l’importanza cruciale che rifugiati ed esuli hanno avuto nella costruzione della cultura moderna e dei paesi occidentali in particolare. Scienziati come Albert Einstein ed Enrico Fermi, poeti e letterati come Nazim Hikmet, Josif Brodskij, Pablo Neruda, Bertolt Brecht, Rafael Alberti, Predrag Matvejevic’, Nuruddin Farah, filosofi e intellettuali come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Hannah Arendt, María Zambrano, Tzvetan Todorov, Edward Said, artisti come Fernando Solanas, Chico Buarque de Hollanda o Cheb Khaled, personalità religiose come il Dalai Lama hanno vissuto l’esperienza dei profughi. La stessa storia e cultura italiana sono intessute delle vite e delle vicende di un numeroso gruppo di esuli: Giuseppe Rensi, Gaetano Salvemini, Filippo Turati, Guido Picelli, Carlo Rosselli, Arturo Toscanini, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, Antonio Terracini, Palmiro Togliatti, Luigi Sturzo, Luigi Einaudi e tanti altri. Occorrerebbe ricordare che tutte queste persone hanno versato una caparra per costruire una società e una mentalità più umane e accoglienti nel futuro. Creare l’occasione per riflettere sull’esperienza passata e attuale dei rifugiati significa dunque allo stesso tempo pagare un debito con le figure del passato e illuminare la condizione di uomini e donne del presente, accrescendo la sensibilità culturale e politica verso questa condizione e le sue problematiche. Introducendo l’idea che la presenza dei rifugiati rappresenta per la comunità che li ospita anzitutto l’occasione di un incontro umano, politico e culturale. Un’occasione dunque da non sprecare.

Marco Deriu