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Lo spettro di Idomeni

di Francesco Ferri

Il campo informale di Idomeni ha rappresentato, fino all’ultimo istante, uno scandalo e una sfida. Idomeni è la prova che in Europa è possibile che migranti e potenziali richiedenti asilo incontrino condizioni di vita assolutamente indegne per un continente che si continua a raccontare come difensore dei diritti umani. E anche lo smantellamento del campo di Idomeni rappresenta, con tutta evidenza, una scelta politica che deve farci urlare allo scandalo. Donne, uomini e bambini ostaggio delle politiche europee, intrappolati ad Idomeni per la scelta dei governi di chiudere la rotta balcanica. Uomini, donne e bambini trasportati - quasi sempre contro la propria volontà - in campi gestiti dal governo, all’interno dei quali le condizioni di vita non sembrano migliorare sostanzialmente. In nome dei diritti umani, il governo greco ha condotto migliaia di persone all’interno in strutture appositamente predisposte, che garantiscono un ampio controllo sulla mobilità, e rendono meno visibili gli elementi scandalosi nella gestione della cosiddetta crisi dei migranti.

Idomeni rappresenta, allo stesso tempo, una grande sfida collettiva. È bene e utile evitare l’utilizzo del passato: gli elementi di sfida e l’energia messa in circolo all’interno di questa intensa, difficile e contraddittoria esperienza restano presenti e continuano a produrre effetti concreti. Le migliaia di migranti che hanno scelto di abitare Idomeni, per lunghi ed intensi mesi, hanno sfidato, con la loro scelta, le decisioni dei governi europei. La presenza dei corpi a ridosso delle frontiere chiuse è stato un monito costante, difficile e straordinario, dal chiaro significato politico.

Si diceva che è necessario pensare che la sfida rappresentata da Idomeni sia tutt’ora in corso. È necessario farlo per evitare di ridurre lo sgombero di Idomeni ad un mero spostamento forzato di corpi passivi, oggetto delle politiche repressive e non più in grado di esprimere elementi di critica e resistenza.

La parole di M, giovane curdo siriano, che viveva in tenda ad Idomeni insieme al figlio di sei mesi, ben rappresentano la portata della sfida che si apre ora:

“So bene che Idomeni è una merda, per me e mio figlio, ma qui sono visibile, tutto il mondo parla di noi. Quando ci sposteremo in un campo gestito dal governo staremo, forse, un po’ meglio, ma ritorneremo ad essere invisibili.”

La sfida contro l’invisibilità, che rischia di avvolgere la nuova fase della crisi dei migranti, è con tutta evidenza una delle priorità che abbiamo davanti.

Può essere utile ripartire tendo ben presenta l’altra storia di Idomeni, che per tutta l’esistenza del campo informale si è incessantemente intrecciata con la storia delle donne e degli uomini in migrazione. L’altra storia è quella delle attiviste e degli attivisti che, da ogni parte del mondo, hanno attraversato lo scandalo, predisponendo aiuti, assistenza, orientamento, sostegno, solidarietà.

È anche questa una vicenda difficile e straordinaria, anch’essa da non raccontare utilizzando verbi al passato. La solidarietà, praticata in tempi difficili, può condurre a rotture del discorso politico dominante: è questo, forse, l’insegnamento ultimo che le vicende di Idomeni continuano a urlare al mondo e alla politica. C’è, da questo punto di vista, una sfida nella sfida, per una politicizzazione della solidarietà. È la sfida di over the fortress, mai come in questa fase necessaria e possibile: dentro la crisi dei migranti, per costruire pratiche solidali, aperte e partecipate, accompagnate da una critica puntuale dello stato di cose presenti, per un loro capovolgimento.

Sia chiaro: Idomeni non è mai diventato un campo neanche lontanamente accettabile. Resta un pugno nello stomaco, uno scandalo e una sfida. Allo stesso tempo, nell’immondizia e nel fango, avvolta da un odore acre e di merda, un’inaspettata, intensa energia ha attraversato migranti e attivisti. Non si tratta, evidentemente, di un’opzione politica definitiva, ma di un’ipotesi aperta e in divenire.

L’immagine del campo di Idomeni sgomberato e normalizzato restituisce sensazioni inquietanti e spettrali. Come ripartire, mettendo da parte l’inevitabile tristezza che attraversa chi ha messo piede o ha seguito, con empatia e complicità, le vicende scandalose di Idomeni?

Può essere utile provare a contrapporre un’altra immagine spettrale, dandole forma e sostanza. Occorre ripartire tenendo bene a mente il clima di ostilità, avversione e sabotaggio, incessantemente prodotto da polizia e apparati di controllo nei confronti degli attivisti indipendenti all’interno del campo. È il segnale inequivocabile che la scelta di costruire percorsi e strumenti di solidarietà politicizzata può rappresentare una rottura dell’ordine del discorso dominante, allo stesso tempo repressivo e caritatevole.

La storia della relazione tra migranti e attivisti a Idomeni ci racconta che la classica relazione assistente/assistito è stata, per lunghissimi istanti, sospesa e capovolta. Le e i migranti hanno, fino al momento dello sgombero definitivo, ospitato, soccorso, protetto e sostenuto le attività degli attivisti indipendenti, difendendoli dal clima ostile specificatamente messo in scena nei loro confronti.

È il segno di quanto l’energia liberata dalla solidarietà politicizzata sia irrimediabilmente ancora in circolo. Le e i migranti torneranno a sfidare le frontiere chiuse, contro ogni marginalizzazione e riduzione a mere vittime. Ripartiamo da qui, ben consapevoli che la partita non è chiusa, che la solidarietà politicizzata è un punto di non ritorno. Con i piedi ancora nel fango, in tante e tanti, con lo sguardo rivolto verso l’Europa, con tutto il coraggio e la dignità accumulati in questi mesi, ancora una volta over the fortress.

Vedi anche

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  • Padova - Accoglienza e diritto d’asilo al tempo degli hotspot
[ 27 maggio 2016 ]
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Foto: Laura Panzarasa, March #overthefortress a Idomeni, marzo 2016

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