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da Il Piccolo di Trieste del 28 maggio 2009

Luca Cavalli Sforza: «Il razzismo non ha fondamento scientifico»

Il famoso genetista ieri e oggi a Trieste per il convegno interdisciplinare su ”La diversità umana”

Trieste – «È sempre molto piacevole fare ritorno a Trieste». Così il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, 87 anni, considerato un’autorità di spicco internazionale nel campo della genetica delle popolazioni, ha aperto ieri la due giorni del convegno “La diversità umana”, organizzato dal Dipartimento di storia e storia dell’arte e dalla Scuola dottorale in scienze umanistiche dell’Università di Trieste, in collaborazione con l’Ospedale Burlo Garofolo e il laboratorio di neuroscienze dela Sissa.

All’insegna dell’interdisciplinarietà, ancora oggi, per l’intera giornata a partire dalle 9, storici, linguisti, psicologi, neuroscienziati e biologici si danno appuntamento nell’aula magna della Scuola per interpreti e traduttori (in via Filzi 14), per esplorare e discutere le rappresentazioni e le narrazioni della diversità. Perché per comprendere le radici della diversità umana, come fatto storico e culturale, ma anche come fatto biologico e genetico, oltre che percettivo e cognitivo, è indispensabile mettere in relazione saperi diversi.
E proprio intrecciando discipline diverse – genetica, paleontologia, antropologia e linguistica – lo scienziato italiano, che per circa quarant’ anni ha lavorato alla Stanford University in California, è stato tra i primi a chiedersi se i geni dell’uomo moderno contengano ancora una traccia della storia dell’umanità e ha dimostrato che l’uomo appartiene a una sola e unica razza, la specie “Homo sapiens sapiens”, e che due gruppi etnici che presentano un aspetto esteriore diverso, come il colore della pelle, possono essere invece molto simili dal punto di vista genetico. Come, al contrario, gruppi con caratteristiche somatiche simili possono presentare grandi differenze genetiche al loro interno.
Professor Cavalli Sforza, la scienza ha ormai escluso la possibilità di dividere l’umanità in razze, lei stesso ha contribuito a togliere ogni fondamento al pregiudizio razziale. Cos’è dunque il razzismo? O meglio, perché non può esistere per ragioni scientifiche?
«Il razzismo è l’intolleranza per le persone che sono un po’ diverse da noi. Certo, ci sono differenze visibili, poche e non importanti, come per esempio il colore della pelle, che aiutano a stabilire la diversità. Sopattutto però vi sono differenze di costumi, largamente superficiali, che sono il risultato dell’apprendimento, dipendono dalla società in cui viviamo. Il nostro aspetto del resto coinvolge una frazione relativamente piccola del codice genetico della razza umana. Ecco perché individui che discordano su pochi geni, relativi al colore della pelle per esempio, possono invece avere in comune caratteristiche genetiche molto più complesse, anche se non visibili».
Più di dieci anni fa, nel libro ”Geni, popoli e lingue” ha dichiarato che l’educazione avrebbe relegato il razzismo agli errori e orrori del passato. A cosa dobbiamo allora gli episodi di microrazzismo quotidiano che abita alle fermate dell’autobus, nei pianerottoli dei condomini, ai tavolini del bar?
«La realtà è che l’educazione è rimasta molto indietro. Bisogna quindi far circolare più cultura. Che tra l’altro determina la diversità umana, più largamente della genetica ed è stata il motore trainante dell’evoluzione».
Perché secondo lei la componente davvero importante dell’evoluzione dell’uomo moderno è la sua evoluzione culturale?»
«Be’ l’evoluzione culturale è ciò che realmente differenzia i gruppi umani. Le differenze genetiche tra le popolazioni infatti sono molto modeste. Non c’è stato tempo né motivo per creare grosse differenze genetiche nei 60mila anni in cui una singola, piccola popolazione africana si è diffusa in tutto il mondo. Le grandi differenze sono tra individui mentre quelle tra popolazioni sono una piccola percentuale. Cose superficiali come la forma del corpo, il colore della pelle, che rispondono a necessità ambientali. Ciò che conta quindi non sono le novità biologiche, cioè le mutazioni genetiche, ma le novità culturali, cioè le invenzioni che hanno cambiato profondamanete la nostra vita. Ecco perché l’evoluzione culturale determina l’evoluzione genetica».
Ma se il patrimonio genetico si trasmette per via ereditaria, come si trasmette la cultura?
«La forza trainante è la comunicazione stabilita dal linguaggio, che permette di comunicare a tutto il mondo, oggi molto rapidamernte, una nuova idea. Quel che rende l’evoluzione culturale molto più rapida di quella biologica, è che ogni novità biologica è costituita da mutazioni che avvengono di rado, in un individuo solo, e si diffondono poi solo ai figli, e da questi ai nipoti ecc. Per cui occorrono molte generazioni perché una novità biologica si diffonda a tutto il mondo: in un caso concreto, come il colore della pelle bianca o nera, diecimila o più anni. Invece oggi una novità culturale, come un’invenzione per esempio, può diffondersi in minuti, addirittura secondi, in tutto il mondo. La cultura, comunque, proprio come la mutazione genetica, è un meccanismo di adattamento».

Ma cos’è per lei la cultura?
«La cultura è costituita da tutto ciò che può essere appreso: la fabbricazione di utensili, la scrittura, l’arte, le conoscenze scientifiche, il modo di vestire. Cultura è l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita. È l’elemento differenziante l’uomo da tutti gli altri animali, è la straordinaria quantità di conoscenze accumulate nel corso dei millenni, il cui apprendimento ha contribuito in modo determinante a forgiare il nostro comportamento. Ogni generazione aggiunge qualcosa all’eredità ricevuta. E il presente si comprende solo cogliendo nel profondo ogni tappa di questo cammino».
A proposito di tappe, professore lei ha iniziato la sua attività di ricerca in Italia, a Pavia. Poi Milano, Cambridge, Parma, per abbandonare definitivamente il nostro Paese nel 1971, quando si è trasferito in America. Dopo quasi 40 anni perché ha deciso di tornare?
«Mi ha riportato in italia il desiderio di essere vicino ai figli. E inoltre oggi ho programmi di ricerca più interessanti in Italia, come la mappatura del genoma italiano in collaborazione con l’Avis e la grande iniziativa editoriale targata Utet sull’evoluzione culturale del nostro Paese, “La cultura italiana”. Un’opera in dodici volumi, di cui sono già usciti i primi due, attraverso la quale si vuole compiere un’analisi multidisciplinare della cultura del nostro Paese».
Un’opera che lei stesso dirige. Una sua idea?
«Sì. Quest’idea è nata in America, per ragioni sentimentali. Conoscevo molti italoamericani che non avevano nessun orgoglio delle loro origini, a differenza per esempio degli irlandesi. E così ho pensato a un modo per far conoscere la ricchezza culturale della loro terra di origine. Per questo spero che l’intera opera sia tradotta. In ogni caso anche in Italia ritengo sia molto importante far conoscere la nostra cultura. In fondo possiamo essere orgogliosi di essere italiani».
di Simona Regina