Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Le Monde Diplomatique di maggio 2007

Lunga caccia in Marocco ai migranti clandestini

di Sophie Boukhari

Qualche cristiano si raccoglie davanti a un altare improvvisato, lo scatolone di un televisore ricoperto di carta lucida con una croce e un mazzo di fiori selvatici. Un po’ più in là, delle pietre disposte sul terreno, indicano la direzione della Mecca. A Oudja, in un angolo appartato del campus universitario, i migranti sub-sahariani bloccati in questa città sulla frontiera nord-orientale del Marocco devono pregare molto per continuare a credere nel loro destino. Siamo nelle mani di Dio, dicono.
Nel campo di detenzione informale, tra le trecento e le quattrocento persone, sopravvivono grazie all’aiuto di associazioni locali e di Médecins sans frontières (Msf), alla solidarietà delle donne del quartiere e agli scarsi guadagni dell’elemosina, di lavori salutari e di traffici vari. Dormono sotto teloni di plastica appesi agli esili alberi e ai muri del campus. Malvestite e malnutrite, sono esposte alle retate della polizia e alla legge delle mafie che gestiscono il campo.
Gli occupanti provengono per lo più da Nigeria, Camerun, Guinea, Senegal, Mali, Costa d’Avorio e Repubblica democratica del Congo (Rdc). Ogni tanto arriva qualche profugo del Darfur. Di età compresa tra i 18 e i 30 anni, vivono raggruppati per comunità: francofoni in parte dei casi, hanno un livello d’istruzione superiore alla scuola media e un mestiere. Nella vita precedente erano artigiani, commercianti, operai, funzionari, agricoltori, medici o ingegneri.
Per questi africani partiti per “cercarsi una vita” in Europa, la regione di Oudja ha rappresentato a lungo l’ultima tappa prima di passare <>, meno violenta e tanto più ricca. La maggior parte si apprestavano ad attraversare dello stretto di Gibilterra. Poi, hanno puntato l’ingresso da Ceuta e Melilla, residui singolari di un’epoca, quella della colonizzazione, in cui i flussi di popolazione trans-mediterranei si svolgevano nel senso nord-sud.
Ma durante il Consiglio europeo di Siviglia (giugno 2002), numerosi stati europei guidati dalla Spagna di José Aznar hanno minacciato di bloccare gli aiuti finanziari ai paesi di partenza e di transito che non li avessero aiutati a combattere i clandestini. L’obiettivo: creare un cordone sanitario intorno all’Unione europea incaricando i paesi vicini di trattenere i migranti e i richiedenti asilo… con le violazioni dei diritti della persona che ciò comporta.

Percorsi alternativi per l’Europa
Coinvolto direttamente, il Marocco prende atto del nuovo condizionamento degli aiuti. Ha molto da perdere poiché ne è il primo beneficiario, ricevendo il 20% dei fondi europei destinati ai paesi mediterranei (programma Meda). In totale, l’Unione europea concede al regno 150 milioni di euro di aiuti ogni anno, senza considerare i prestiti.
Nel novembre 2003, Rabat promulga la legge 02-03 sulle migrazioni irregolari. Ispirato al diritto francese, il testo privilegia la dimensione repressiva anche se protegge dall’espulsione i rifugiati politici, le donne incinte e i minori. Dal punto di vista operativo, Rabat opta per la creazione nel ministero degli Interni di una direzione incaricata delle migrazioni e della sorveglianza delle frontiere, dotandola de una decina di migliaia di uomini.

A partire dal 2004, l’Unione europea e il suo alleato marocchino chiudono la strada di Gibilterra. Dopo i sanguinosi assalti dell’autunno 2005, anche le enclave spagnole di Ceuta e Melilla sono trasformate in fortezze quasi inespugnabili e i boschi circostanti vengono rastrellati dalle forze marocchine. Le vie della migrazione si spostano allora verso sud. Alle pateras, imbarcazioni che possono trasportare dalle venti alle quaranta persone, succedono cayucos con più di cento posti, che si lanciano verso le isole Canarie dalle spiagge del Sahara occidentale.
Poi, nel 2006, decine di migliaia di migranti tentano il viaggio partendo da Nouadhibou (Mauritania), Dakar o Saint-Louis (Senegal). La traversata è più lunga e pericolosa –un passeggero ogni sei sarebbe morto annegato nello scorso anno, secondo le autorità spagnole. Ma è meno costosa: circa 500 euro, rispetto ai 1000-1300 euro via El-Ayoun (Sahara occidentale).

Tuttavia, la pista marocchina non è stata abbandonata. Ha persino ripreso vigore nel 2007, dopo una pausa legata al dramma di Ceuta e Melilla, spiega Jeloul Arraj, della cellula di assistenza ai migranti creata da due associazioni locali. Da qualche mese, nuove persone arrivano ogni notte a Oudja dall’Algeria. Si mescolano ad altri migranti brutalmente arrestati nella loro corsa verso l’Europa. Ogni settimana, si verificano una o due espulsioni, testimonia Arraj. I migranti sono stati catturati in mare, ripescati dopo un naufragio o semplicemente arrestati dalla polizia, a Oudja e nel resto del regno. Non viene risparmiato nessuno: né le donne incinte, né i bambini, né i rifugiati o i richiedenti asilo. In piena notte, vengono tutti ricondotti alla frontiera algerina situata a 13 chilometri di distanza.

La maggior parte torna subito sul lato marocchino. Tra l’altro, vengono derubati dai militari (algerini e marocchini), da criminali dei quartieri poveri di Oudja o banditi nigeriani. Numerosi casi di stupro sono stati registrati dalle organizzazioni non governative (Ong). Le gang, inoltre, attuano sequestri di persona, chiedendo poi un riscatto alle famiglie rimaste nel paese d’origine.

E poi, a Oudja, ci sono i “vecchi”, quelli che sono bloccati in Marocco da anni, e che aspettano. Come Alphonse, 34 anni, che ha lasciato la Rdc nell’agosto del 2002. Ero all’ultimo anno di agronomia a Kinshasha – racconta. Militavo contro Joseph Kabila. I miei amici sono stati arrestati. Ho saputo di essere ricercato e ho attraversato il fiume verso Brazzaville. Non sono nemmeno passato da casa per dire addio a mia figlia né per prendere le mie cose. All’epoca, l’idea di andare in Europa non mi sfiorava neppure.

L’assediante di Melilla
Alphonse attende da tre anni. Dopo qualche avventura che l’ha portato, tra un <> e l’altro, dalla Nigeria all’Algeria, ha stabilito la sua base a Oudja, anche se ogni tanto parte per la foresta per tentare il passaggio dalle enclave, o per l’Algeria per lavorare. Racconta di aver vissuto oltre trenta espulsioni, due delle quali dopo essere riuscito a entrare a Melilla: Ti prendono tutto, il telefono cellulare, il denaro. Ti mettono su un camion che viaggia verso sud per dodici ore. Poi ti gettano nel deserto; questa è la peggiore delle umiliazioni. Oggi, aiuta gli studenti marocchini che seguono un corso di studi scientifici, corregge ed edita le loro tesi di fine anno.

Alphonse continua a militare per un’altra Rdc via Internet, ma anche per i diritti dei migranti in Marocco. Qui viviamo nel terrore. Io non dormo più. Mi aspetto un’irruzione della polizia da un momento all’altro. Ci derubano, ci picchiano, chi chiudono in ottocento in un stanza in cui non si riesce a respirare. Tutto ciò che chiedo è ad avere diritti.

Popolarissimo nel quartiere universitario, Gustave ha fissato il suo “ufficio” in un Internet cafè. Anche lui lavora come intermediario per le Ong, che non riescono più a garantire la sicurezza della distribuzione degli aiuti umanitari ai migranti. Mi batto perché tutti vengano aiutati nello stesso modo, dice. Tra noi ci sono leader negativi che puntano solo alle tasche degli altri. Ieri, sono stato aggredito da uno di loro, ma ciò non significa che smetterò.

All’inizio della primavera, l’atmosfera nel campus è più tesa. Con l’avvicinarsi della stagione dei passaggi (aprile-settembre), gli affari riprendono. Due chairmen (presidenti) nigeriani si affrontano per controllare la piazza. Qualche anno fa, i leader erano intellettuali. Abbiamo avuto un professore d’economia, un pediatra. Gestivano il campo con saggezza –testimonia n operatore umanitario. Ma con il passare degli anni, più le persone sono disperate, più il regime si irrigidisce. Ora, quelli che si impongono sono i più violenti. Pochi uomini gestiscono le filiere dell’emigrazione, intimidiscono i più deboli e terrorizzano i recalcitranti. Fanno anche da retroguardia per le bande di rapinatori che stazionano nella regione frontaliera. Si capisce perché diverse centinaia di migranti preferiscono evitare il campus e nascondersi nei dintorni, in fattorie abbandonate o in rifugi di fortuna nei boschi.

Ali è uno di quelli. Sono venuto qui per riposarmi –racconta questo giovane gambiano di 24 anni che si esprime in un inglese perfetto. Sono stanco e rifletto. Ho lasciato il mio paese il 15 luglio 2005. Fino al 2004 tutto andava bene. Mio zio mi pagava gli studi di economia all’università di Banjul. Poi è morto e, poiché nessuno poteva aiutarmi, ho dovuto abbandonare l’università. Ho lavorato per un po’in una società di trasferimenti di denaro, ma dopo due mesi l’ufficio ha chiuso. Con i soldi che avevo guadagnato, ho seguito un corso di formazione in informatica perché lo studio mi appassionava molto. Volevo continuare. Un mio amico mi ha detto che in Europa ciò sarebbe stato possibile. Dovevo solo partire con lui.

Seydou ha messo insieme 500 euro che l’hanno condotto in Marocco, attraverso il Senegal, il Mali e l’Algeria. Ho partecipato all’assalto in massa delle recinzioni di Melilla nell’autunno del 2005, prosegue. Ma sono stato colpito al ginocchio da una pallottola di gomma. Gli spagnoli mi hanno arrestato e rinviato in Marocco. Sono stato trasferito a Oudja prima di tornare sul lato algerino, a Maghnia. Dovevo rimanere immobile a causa del mio ginocchio. Dato che parlo bene l’arabo, degli algerini mi hanno aiutato. Degli islamismi mi hanno portato e ospitato ad Algeri, dove sono rimasto tre mesi. Ma quella gente è sorvegliata dalla polizia. Un giorno, sono stato arrestato, e poi rilasciato. Un islamista mi ha dato 100 euro e mi ha chiesto di andarmene. Sono tornato nei bosci del Marocco.

Con quattro altre persone, abbiamo attaccato di nuovo le barriere di Melilla. Due sono passati, ma io sono stato preso e riportato alla frontiera algerina sul lato Oudja nel dicembre del 2006. Col mio ginocchio rovinato, devo rinunciare ad attaccare le recinzioni. Devo trovare dei soldi per tentare il passaggio in un’altra maniera. Non vedo prospettive per me in Africa. Noi non possiamo tornare a casa a mani vuote dopo aver speso tutti i nostri averi –aggiunge uno dei suoi compagni, un giovane camerunese di 22 anni. Io rimarrò qui finché non troverò una soluzione.

La rotta di Oudja è tornata in auge perché vi si sono sviluppate nuove filiere. In realtà, per i migranti è solo una questione di mezzi. Per passare occorre innanzitutto del denaro, e poi la fortuna. L’attacco della barriera delle enclave spagnole, spesso destinato al fallimento, è solo la strada dei poveri. Per chi dispone di 1000 euro, la nuova rotta del Rif (dalla costa nordorientale del Marocco fino alla regione di Almeria, in Spagna) può valerne la spesa, se trovano uno scafista onesto e il mare è clemente.
Per lo stesso prezzo, si può anche tentare di entrare a Ceuta o a Melilla nascosti in una macchina o in un camion. Le enclave sono dei feudi del contrabbando: droga, sigarette, ecc… Il traffico di migranti è solo uno dei tanti>>, ricorda un operatore umanitario. A Melilla, i migranti asiatici attraverso l’Africa e il Marocco sono ogni più numerosi dei subsahariani. <.

Ma è nelle città della costa atlantica che andrà la maggior parte delle persone in transito a Oudja. Si osservano due grandi tendenze dopo i fatti di Ceuta e Melilla, spiega Javier Gabaldon, coordinatore di Msf in Marocco. La prima è la sedentarizzazione dei migranti, la seconda l’aumento dell’intensità delle violenze di cui sono vittime, anche da parte dei migranti stessi: più del 30% delle violenze sono imputabili ai trafficanti africani, il 35% alle forze di sicurezza marocchine e il 31% alla criminalità marocchina. Constatiamo un preoccupante aumento dei casi di violenza sessuale durante le espulsioni, afferma.

Oltre 1,80% dei circa diecimila migranti africani in Marocco si trovano a Rabat e, in misura minore, a Casablanca. La capitale del regno è divenuta il quartier generale delle filiere e una tappa obbligata, prima di El-Ayoun e della partenza per le Canarie. Gli africani vivono in appartamenti pagando un affitto doppio rispetto al prezzo di mercato, e vengono aggrediti se non pagano. Ogni comunità ha un suo quartiere prediletto, un capo, una legge, le sue reti. I nuovi fanno vivere i vecchi – spiega Gwenaelle de Jacquelot della Caritas, una Ong cattolica che gestisce un centro di accoglienza per i migranti. Quando si arriva in un alloggio, si paga un “diritto di ghetto” di 50 euro. Poiché i migranti non hanno accesso al lavoro, sviluppano un’economia informale di sopravvivenza.

La storia di Françoise congolese e parrucchiera
Tutto è sempre più organizzato, spiega Pierre Tainturier, di Médecins du monde. I chairmen incassano notevoli introiti. Gestiscono il loro gruppo e le transazioni dei loro “protetti” con i connection men, uomini-chiave che dispongono di tutti i contatti necessari per organizzare il passaggio, polizia e esercito compresi.
Per finanziare l’attesa e rimediare il denaro, gli altri migranti se la cavano come possono. Alcuni ricevono denaro dalla famiglia rimasta nel Paese d’origine. Altri mendicano, o gestiscono un banco di verdura o di vestiti. E poi ci sono i traffici: valuta falsa, alloggi di passaggio, documenti falsi.

In questo sistema sempre più duro, la vita per i più vulnerabili è un inferno. A cominciare dalle donne, quasi tutte condannate a vendersi per un tetto o una moneta da 10 dirham (meno di un euro). Abbiamo abbandonato il Paese perché le cose non andavano bene – spiega Françoise, una congolese di 29 anni arrivata del 2004. Ma non abbiamo scelto noi questa vita. In ogni momento, siamo ricercate, gettate a Oudja, violentate. Dobbiamo sempre correre dietro ad un uomo, che in cambio vuole il tuo corpo. Poi, ti dà la gravidanza o la malattia (l’Aids). Dio solo sa quando fuggiremo da questa miseria.

Il percorso de Françoise è un calvario tragicamente banale per una donna migrante. Ho lasciato la Rdc nel 2001 per la situazione politica. Avevo 21 anni. Mio padre era un militare di Mobutu. Quando Kabila ha presso il potere, è stato trasferito nel Nord, a Kisangani. Un giorno, i ribelli hanno attaccato il suo campo e sequestrato le armi. Mio padre è passato dalla loro parte. A quel punto, Kabila si è vendicato. Ha mandato i suoi uomini a casa nostra, a Kinshasha. Mia madre è stata violentata davanti ai miei occhi. Mia zia è stata uccisa. Io ho avuto una crisi e mi sono ritrovata paralizzata su un lato del corpo. Dei vicini mi hanno portato all’ospedale, in cui sono rimasta almeno un anno. Quando ne sono uscita, ho appreso che la mia famiglia era andata a Brazzaville. Mia madre aveva lasciato del denaro per me presso un amico. L’ho preso e sono partito alla loro ricerca.

Françoise non ha mai ritrovato la sua famiglia. L’ha cercata fino in Camerun, in cui è stata trascinata verso nord dalle filiere. Non conoscevo nessuno ed ero obbligata a continuare –racconta. In Niger, un signore ci ha ammucchiato in una jeep. C’erano maliani, nigeriani e solo altre due donne, una delle quali con un bambino. Siamo partiti, ma il guidatore ci ha abbandonati in mezzo al deserto. In lontananza, si vedevano le luci di Djanet, in Algeria.
Uomini né bianchi né neri sono venuti. Ci hanno preso tutto e violentate, me e le altre donne. Ho cominciato a vomitare sangue, a soffocare. Ma bisognava continuare. Siamo andati a piedi fino a Djanet, dove dei “fratelli” mi hanno lasciato all’ospedale. Lì Françoise incontra un’algerina che si prende cura di lei. Abitava a Algeria e mi ha fatto risalire con lei. Io facevo le pulizie e l’aiutavo nel suo negozio di parrucchiere. Mi pagava e mi trattava bene. Ho trascorso un anno così, poi ho deciso di andare in Marocco. All’epoca, nel 2004, il Marocco era più sicuro per i sans-papiers. In Algeria, quando ti arrestano, finisci a migliaia di chilometri di distanza.

Il rifiuto del diritto d’asilo
Nel 2005, gli uomini sono andati all’assalto delle recinzioni di Ceuta. Io non potevo. Con un gruppo, abbiamo scelto di aggirare l’enclave di notte via mare. Le guide marocchine ti danno delle camere d’aria a cui aggrapparti, e nuotano trascinando tre persone legate con le corde. Ma la mia guida ha avuto un colpo di freddo e mi ha abbandonato. Sono rimasta cinque ore nell’acqua gelata. Un giovane camerunese è annegato sotto i miei occhi. Infine, all’alba, dei pescatori sono venuti a salvarci.
Dopo aver passato diverse settimane braccata nella foresta, alla fine Françoise ha seguito il suo gruppo a Rabat. Abbiamo camminato per venti giorni nascondendoci. Sono arrivata qui il 24 febbraio 2006. Oggi Françoise se la cava da sola. Evita gli uomini e le mafie. Abita in un angolo della cucina di una donna marocchina per 150 dirham (14 euro) al mese. Per vivere, conta sulle associazioni, sulle chiese e sul magro guadagno che le deriva dal suo talento di parrucchiera clandestina.

Françoise fa anche parte dei richiedenti asilo riconosciuti dall’Alto Commissariato dele Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). Dopo l’apertura della sede a Rabat all’inizio del 2005, l’Unhcr ha registrato in media centro richieste d’asilo al mese, soprattutto da parte di congolesi (Rdc) e di ivoriani. Finora, ha concesso lo status di rifugiato a meno di quattrocento persone, con un tasso di riconoscimento del 17%.

Tuttavia, se è sfuggita alle retate della polizia Françoise se lo deve più a la sua discrezione che al suo status teoricamente tutelato. Poiché il Marocco, con il pretesto delle sue gravi emergenze sociali, non vuol sentir parlare di diritto d’asilo sul proprio territorio, come gli chiedono l’Unhcr e l’Unione europea. Di conseguenza, i rifugiati non hanno diritto che, non potendo raggiungere l’Europa, permetterebbero loro di ricostruirsi una vita in Marocco. Peggio ancora, essi finiscono regolarmente nelle retate e vengono deportati alla frontiera algerina, nonostante la presunta tutela della legge 02-02 e della convenzione di Ginevra.
Per Mohamed Kachani, giurista, è ora di finirla con l’ossessione securitaria e di considerare invece la problematica delle migrazioni nella sua globalità. Occorre “agire al livello delle cause fondamentali”, sostiene. Per questo, il primo imperativo dovrebbe essere l’impegno a far emergere l’Africa dalla crisi in cui essa affonda.

Mercanzie umane
In Marocco, il problema delle migrazioni è gestito da fanatici della sicurezza –lamenta l’universitario Mehdi Lahlou. Per loro, l’importante è ingrossare i numeri per dimostrare la propria efficacia all’Europa. E tentare di raccoglierne i frutti. Ma, sul piano finanziario, il Marocco finora ha ricevuto solo un aiuto specifico di 67 milioni di euro per il lavoro di gendarme dell’Unione europea. Una “mancia” secondo il giurista Mohamed Kachani, mentre Rabat registra spese ben più rilevanti – in particolare, per i rimpatri in aereo di oltre settemila africani dal 2004.

Il Marocco, d’altra parte, negozia un aumento delle quote di lavoratori stagionali marocchini ammessi in Francia e Spagna. Chiede all’Europa un numero maggiore di visti d’ingresso. La posta in gioco è notevole: le rimesse dei marocchini residenti all’estero hanno raggiunto i 4,3 miliardi di euro nel 2006, quasi il 10% del prodotto interno lordo. Inoltre, secondo l’ultimo studio del Commissariato della Programmazione, oltre un marocchino su tre sogna di emigrare.
Da entrambi i lati del Mediterraneo, la gestione securitaria della questione migratoria produce terribili drammi umani ma scarsi risultati durevoli. In realtà, gli africani bloccati in Marocco in condizioni disumane sono le vittime di una politica europea tanto assurda quanto inefficace. Poiché più l’Europa si barrica, più i migranti affluiscono. Nel 2006, trentunomila sub-sahariani sono arrivati alle Canarie dalle coste occidentali dell’Africa, cioè sei volte più dell’anno precedente.
Dopo aver dispiegato un dispositivo quasi militare stimato 260 milioni di euro per blindare mille chilometri di coste andaluse, l’Unione ha intenzione di circondare tutto il continente africano con una barriera de protezione? Oltre ad essere irrealistico, il progetto appare ancor più folle, poiché meno del 5% dei “clandestini”che vivono in Europa provengono dalla filiera africana. Gli altri entrano dai porti e dagli aeroporti muniti di regolare visto, giungendo sia dai paesi africani che da altre regioni del mondo, ricorda Lahlou.