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da Il Manifesto del 26 ottobre 2006

Ma la scuola integra davvero?

Manuela Cartosio

Milano – Sono 586.485, secondo il dossier Caritas, i minori stranieri (da 0 a 18 anni) regolarmente soggiornati in Italia. 150 mila risiedono in Lombardia. Di questi, circa 100 mila vanno a scuola. Sono il 10% sui banchi delle elementari lombarde, il 9% alle medie, il 5% alle superiori. Milano, con il 12,7%, è il capoluogo con la più alta incidenza di alunni stranieri in Italia. Era dedicato a scuola e immigrazione il focus con cui la Caritas ambrosiana ha accompagnato la presentazione del dossier 2006.

L’ormai famosa scuola «araba» di via Ventura, bloccata dal fantasioso ostruzionismo di Palazzo Marino, ha fatto capolino in alcuni interventi. Il più esplicito è stato Mario Dutto, direttore dell’ufficio scolastico regionale. Da giorni aspetta che il Comune dichiari «agibile» lo stabile di via Ventura. Senza quel timbro, lui non può autorizzare la scuola italo-egiziana. «La grande Milano sembra aver paura di una piccola scuola», osserva il direttore. E se questa suona come una critica alla giunta Moratti, Dutto non scansa una riflessione autocritica: se alcune famiglie straniere sentono l’esigenza della scuola «enclave», forse significa che «non siamo riusciti a convincerle che la scuola pubblica è davvero per tutti». La scuola pubblica è la culla dell’integrazione. Ma «siamo capaci» di fare integrazione in classi con il 30% di alunni stranieri? Certo che no, replica Maurizio Ambrosini, sociologo delle migrazioni, che cita un dato lombardo dell’anno scorso: 230 insegnanti di sostegno per 88 mila alunni stranieri, un rapporto di 1 a 400, peggiorato perchè nel frattempo gli scolari sono aumentati e gli insegnanti «dedicati» sono diminuiti. «In queste condizioni tutto è affidato al volontarismo dei docenti».

La sottosegretaria all’interno Marcella Lucidi, fresca di una visita alle scuole di Prato, ammette che esistono «due forme di separazione». Quella della (ipotetica) scuola privata «araba» di Milano e quella della scuola pubblica di Prato, «dove ci sono classi con il 100% di alunni stranieri». Il «modello» del governo Prodi non è né il multiculturalismo, né l’assimilazionismo. «Lavoriamo per un’integrazione, fondata sul dialogo e sul confronto». Ma con chi dialogano, con chi si confrontano i cinesini di una classe di Prato dove tutti hanno gli occhi a mandorla?
La pedagogista Graziella Favaro tratteggia due modelli del rapporto tra famiglie migranti e scuola italiana. Uno è improntanto alla distanza e alla diffidenza, l’altro è un attraversamento, uno «scorrere parallelo» senza reale metisagge (per indisponibilità anche delle famiglie italiane). Il modello auspicato, da lei personalmente e dalla Caritas, è «la «complementarità, l’incrocio, il cambiamento reciproco». Il progetto «separato» di via Ventura non va in questo senso e questo spiega il silenzio della Caritas ambrosiona sulla scuola «araba». Il silenzio equivale a una bocciatura? No, ci risponde la professoressa Favaro, «in punto di diritto quella scuola ha i requisiti per essere autorizzata». Tenerla a bagnomaria con una sequela di espedienti «tecnici» è una discriminazione.
Il «cambiamento reciproco» richiede un duro lavoro. E’ però in Italia, dice Graziella Favaro, è agevolato da quattro caratteristiche delle migrazioni. La pluralità delle provenienze ostacola la deriva comunitaria, la creazione delle «piccole patrie». La diffusione territoriale piuttosto omogenea dei migranti spalma i problemi, li rende «comuni» dalle Alpi alla Sicilia. L’alta scolarità dei genitori migranti produce alte aspettative per i figli che frequantano le scuole in Italia. Dunque, cerchiamo di non deluderle queste aspettive. La pedagogista ha aggiunto fini notazioni sul rapporto tra prima e seconda generazione. Ci resta lo spazio solo per citarne una. Abituati a parlare di lingua «materna» dovremo far posto nel nostro lessico alla lingua «filiale». E’ l’italiano che i figli insegnano ai genitori.