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da Nigrizia di Marzo: Immigrazione - Viaggio nei centri di detenzione di Malta

Malta: l’attesa al confine

di Marco Benedettelli e Gilberto Mastromatteo

Accanto al nostro alloggio, a San Pawl il-Bahar, vive un pescatore maltese sulla settantina.
«Vedi questi scogli», ci racconta, indicando la baia: «Qui si narra che sia approdato san Paolo, dopo una tempesta, nel suo viaggio verso Roma. Quando incontro i rifugiati, racconto loro questa storia. In fondo, anche loro volevano andare in Italia, ma il mare li trascinò qua».

I naufraghi di oggi hanno la pelle d’ebano e da Malta, troppo spesso, non riescono a ripartire. In quattromila sono bloccati sull’isola, alcuni anche da oltre cinque anni, senza lavoro né possibilità di ricongiungersi con le proprie famiglie.
Costretti a vivere in 22 sotto una tenda o tra le lamiere di un enorme hangar; a mettersi in fila, tre volte la settimana, come in un campo militare, per testimoniare la loro presenza e ottenere i 4 euro al giorno con i quali dovranno tirare avanti. I maltesi non li vogliono e continuano a verificarsi casi di minacce nei confronti di chiunque si occupi di loro.

Il governo si affida a lenti programmi di reinserimento in altri paesi, per smaltire l’esubero, sempre che l’accordo italo-libico continui a funzionare. Da tre mesi a questa parte gli sbarchi, infatti, sono cessati e ormai restano solo 300 persone nei centri di detenzione (erano oltre 2mila lo scorso anno).
Ora, però, la tensione si è spostata nei sovraffollati “centri aperti”. «Sono la vera emergenza», conferma Alexander Tortell, direttore dell’Awas, l’agenzia che si occupa del welfare dei richiedenti asilo. «Dovrebbero essere strutture in grado di fornire un’assistenza temporanea, nell’attesa che gli immigrati trovino un lavoro a Malta o all’estero. Ma a volte ci vogliono anni». Ai migranti non resta, quindi, che aspettare guardando l’orizzonte. Come san Paolo.

L’Hangar

Il peggiore dei nuovi centri si chiama Hangar. Si trova ad Hal Far, nell’estremo sud-est dell’isola. Qui, lontano dagli occhi dei turisti e degli stessi maltesi, nell’area un tempo occupata da un aeroporto oggi dismesso, sono sorti i campi peggiori. All’Hangar vivono in 800, distribuiti fra una fila di otto container e un grande capannone di lamiera, buio e fatiscente. Un’ex rimessa di aeroplani, riadattata a gigantesco dormitorio da circa un anno e mezzo. Fuori, bivacchi ovunque; all’interno, un odore insostenibile. I migranti, la maggior parte dei quali gode di una protezione umanitaria, si trovano costretti a dormire in un alveare di letti a castello, immersi nella polvere e nella sporcizia. Per cucinare, utilizzano pericolosi fornelli da campo, mentre l’espletamento dei bisogni corporali è delegato a otto bagni chimici. Il governo sta costruendo nuovi servizi igienici e uno spazio per le cucine. Ma i lavori sono appena iniziati.

Drammatica la situazione anche nel Tent Village, una vera e propria tendopoli, aperta nel 2006 ma aumentata di estensione a causa dei nuovi arrivi. Oggi gli ospiti sono circa 800: 22 per tenda. Ci sono solo dieci docce e dieci turche, traboccanti di liquami. Frequenti sono i casi di dissenteria e scabbia, mentre sempre più numerosi sono i problemi di salute mentale. E la promiscuità tra uomini e donne rende abituali i casi di violenza e stupro.

I più fortunati riescono a dormire sotto un tetto, a Marsa, poco distante dalla capitale. Qui l’associazione non governativa Suret il-Bniedem ha preso in carico una vecchia scuola, che l’emergenza immigrazione ha trasformato in una cittadella autogestita, con tanto di ristoranti, bar, barbiere e sala Internet.

Ogni migrante percepisce dallo stato 130 euro mensili di sussidio. Con essi deve vivere. Ma dai centri aperti è meglio non allontanarsi troppo. Tutti i lunedì, mercoledì e venerdì si è costretti a mettersi in fila indiana per apporre una firma che attesti la presenza nel campo. Chi non c’è, si vede decurtato il vitalizio di 10 euro. Per chi tenta di scappare da Malta, o vi è riportato a forza, la tassa è di 50 euro. «È una prassi che lede la dignità umana», confessa padre Joseph Cassar, del Servizio dei gesuiti per i rifugiati di Malta. «Stiamo registrando sempre più casi di problemi psicologici. La situazione va monitorata, per evitare che degeneri in futuro».

La detenzione

Sono ben diverse le condizioni di vita a Ta’ Kandja, dove vivono recluse 48 persone: 13 uomini e 35 giovani donne. Il centro di detenzione si sviluppa lungo una fila di palazzine basse, a un solo piano, tirate su con il tufo, com’è d’uso a Malta.

Varchiamo i cancelli alle 10 in punto. I ragazzi ci aspettano nell’androne del loro blocco. Sono tra gli ultimi arrivati nell’arcipelago-stato, lo scorso 6 ottobre. Sbarcarono in 106 (86 uomini e 20 donne), a bordo di un barcone che, oltre al naufragio in mare, era riuscito a sfuggire anche ai respingimenti. Sono “fortunati”, ma non lo sanno. È probabile che saranno gli ultimi inquilini di queste celle, prima di tornare in libertà. Tuttavia, per loro la parola libertà significherà dormire all’Hangar o nel Tent Village, a tempo indeterminato e senza lavoro.

Uno dei detenuti è stato in Libia, a Garabulli, in una delle prigioni di Gheddafi. È un eritreo di circa 30 anni. Racconta di torture subite ogni notte, anche con l’uso di cavi elettrici. Conferma che molte donne hanno subito violenza sessuale da parte dei militari libici. Quando gli chiediamo se sa qualcosa dei respingimenti, dell’accordo tra Italia e Libia, scuote il capo. Non sa di essere uno degli ultimi “fortunati”, né sa cosa lo attende fuori.

Volti bassi, sguardi che tentano di esprimere un disagio, mentre Mike, il poliziotto che ci accompagna, decanta l’integrazione e la pulizia all’interno del campo. In effetti, le stanze sono tirate a lucido. C’è la televisione. Ma l’impressione è che ci sia qualcosa di artefatto. Generi alimentari, latte e pane sono ovunque, accanto ai letti a castello, come a voler mostrare abbondanza. Persino i poster appesi alle pareti, assieme alle immagini di devozione cattolica e ai festoni per il nuovo anno, seguono una linearità che ha molto di militare e molto poco di africano.

Ta’ Kandja è il centro di detenzione gioiello di Malta, quello che più spesso viene fatto visitare ai giornalisti, da quando, a metà del 2008, sono stati autorizzati dal governo de La Valletta. Nei restanti due campi, quello di Lyster Barracks e quello di Safi Barracks, gestiti dall’esercito, la situazione è sensibilmente diversa. In entrambi sono scoppiate rivolte all’inizio dello scorso anno.

A Malta ogni immigrato senza permesso di soggiorno compie un illecito amministrativo ed è per questo trattenuto in carcere. Il limite massimo di custodia è di 18 mesi. Poi si viene rilasciati, con o senza documenti. C’è anche però chi rimane più del consentito.

In alcuni centri sono concesse solo 4 ore d’aria la settimana. Non c’è riscaldamento. L’acqua arriva direttamente dal Mediterraneo con i dissalatori. Il cibo è sempre lo stesso.

Fino allo scorso anno, quella maltese era considerata un’anomalia in Europa. Oggi è la regola, dopo la discussa direttiva della Commissione europea entrata in vigore all’inizio del 2009, la cosiddetta “direttiva della vergogna”, che ha prolungato i tempi di detenzione necessari a identificare i migranti irregolari.

Box

I respingimenti

Il cordone voluto e finanziato dall’Italia, gestito dalle motovedette del colonnello Gheddafi, sembra aver portato in pochi mesi i frutti sperati da Palazzo Chigi, anche se la muraglia libica mostra già di poter essere aggirata. Il 24 gennaio, una barca con 25 immigrati tunisini è attraccata a Lampedusa, tre mesi dopo l’ultimo carico di disperati.

A Malta, invece, gli sbarchi si sono fermati. Gennaio 2010 segna zero arrivi, a fronte dei circa 1.500 del 2009, e dei 2.275 del 2008, l’anno di massimo allarme.

In realtà, l’emergenza sembra essersi solo trasformata. Oggi interessa, infatti, quattromila persone che vivono aspettando, come in una commedia dell’assurdo, Godot. Il regolamento europeo “Dublino II” impedisce loro di lasciare l’isola. Essendo Malta il loro primo paese di arrivo, è La Valletta a doversi fare carico dell’assistenza burocratica: chi tenta di scappare illegalmente, per cercare lavoro in Italia o nel resto d’Europa, viene riportato sull’isola, dove può anche finire in galera.

Per la maggior parte di loro, somali o eritrei, è impossibile anche solo pensare di tornare in patria, mentre, trovare un lavoro a Malta risulta essere molto difficile.