Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 7 maggio 2009

Malta, l’isola carcere

Più di 3000 arrivi in un anno. La città-stato al centro del Mediterraneo si sente invasa. E sbatte in strutture chiuse tutti gli immigrati, anche i richiedenti asilo, fino a 18 mesi. Reportage dal centro di detenzione di Safi. Lo stesso dove il Viminale voleva spedire i «profughi del Pinar»
«Siamo rinchiusi qui dentro come animali. Senza altra prospettiva che guardare il muro». M. è un ragazzone dell’est della Nigeria. Ha una voce forte, baritonale, che rimbomba per tutta la sala. Mentre parla, gesticola animatamente. Intorno a lui, i suoi compagni annuiscono con la testa. Siamo all’interno del famigerato detention center di Safi, proprio accanto all’aeroporto di Malta. È uno dei tre centri in cui vengono chiusi gli immigrati arrivati sull’isola, all’interno del quale secondo la legge possono restare fino a 18 mesi.
Una grande sala piena di letti a castello ospita circa cento persone. Sono tutti maschi, provenienti da mezza Africa: nigeriani, ivoriani, sudanesi, etiopi, un marocchino, perfino un cittadino del Bangladesh dallo sguardo spaurito. Per terra, resti di cibo, vestiti sporchi, coperte, i pochi averi di questi uomini rinchiusi qua dentro. Alcuni non hanno un letto e dormono su materassi buttati sul pavimento. Sei bagni e sei docce per cento persone. Un piccolo spazio comune all’ingresso, con qualche tavolo su cui giocare a carte. Un cortile di una trentina di metri quadri completamente chiuso da recinti e filo spinato, dove si può uscire per prendere un po’ d’aria fino alle cinque del pomeriggio. Il resto sono lucchetti e soldati, oltre a giornate che si ripetono sempre uguali.

Il limbo del Mediterraneo
È qui che il governo italiano vuole mandare gli immigrati diretti a Lampedusa. È qui che Maroni voleva spedire i «profughi del Pinar», i 140 immigrati rimasti bloccati cinque giorni in mezzo al mare in attesa che Roma e La Valletta smettessero di rimpallarsi le responsabilità e decidessero di farsi carico della loro accoglienza. Alla fine, l’Italia ha accettato di farli sbarcare, ma «solo per ragioni umanitarie». E solo una settimana dopo, ha rispedito al mittente una motovedetta maltese che aveva soccorso 66 immigrati e li voleva portare a Lampedusa, secondo il principio del «porto vicino più sicuro». A differenza di quanto avviene in Italia, a Malta i richiedenti asilo sono soggetti a regime di detenzione. Devono rimanere qui, tra queste mura alte circondate da filo spinato, finché la loro richiesta non viene esaminata. Ossia, in media tra gli otto e i dieci mesi. Se poi la domanda è respinta, rimarranno qui fino alla scadenza dei termini, cioè un anno e mezzo.
Molti di quanti sono a Safi sono dei veterani, hanno alle spalle diversi mesi di permanenza nel centro. Tutti lamentano le scarse condizioni igieniche, il cibo scadente, l’assenza di acqua calda, la mancanza di assistenza sanitaria, l’atteggiamento repressivo dei soldati. Alcuni mostrano delle piaghe sul corpo. Un paio di ragazzi sostengono di essere stati picchiati dai militari. Altri si limitano a fissare il muro, in apparente stato catatonico. Tutti dicono di voler andare via da Malta, di voler andare in Italia o altrove sul continente. «Qui siamo ancora in Africa. Qui non è Europa». Il luogotenente colonnello Brian Gatt, che ci ha aperto le porte del centro e concesso una visita senza restrizioni, respinge le accuse. «Non è facile gestire tutte queste persone in regime di detenzione. Ma noi stiamo cercando di migliorare le loro condizioni. Stiamo cercando, compatibilmente con i mezzi finanziari di cui disponiamo, di ammodernare le strutture, di rendere il periodo dell’attesa meno duro».
A Malta sono a tutt’oggi 1635 le persone ospitate nei tre centri chiusi dell’isola. Tutti hanno fatto richiesta d’asilo. La legge prevede che, se è concesso l’asilo o una forma di protezione sussidiaria, le porte dei centri di detenzione si aprono e i fortunati vengono ospitati in centri aperti. Se invece è respinta, i richiedenti devono rimanere all’interno del centro fino allo scadere dei diciotto mesi. Poi, anche loro vengono spediti nei centri aperti, senza documenti e senza possibilità di lavorare.
La Valletta non è in grado di fare i rimpatri, un po’ per mancanza di fondi, un po’ perché spesso non ha nemmeno relazioni diplomatiche con i paesi di provenienza. Quindi non può far altro che liberare gli irregolari, sperando che trovino un modo autonomo per lasciare l’isola. «È una politica un po’ curiosa, che di fatto mantiene le persone nell’illegalità», sostiene padre Joseph Cassar, responsabile del Jesuit refugee center (Jsr), un’organizzazione che da anni si batte per il rispetto dei diritti degli immigrati (e che per questo ha subito negli anni scorsi anche alcuni attentati, come l’incendio del parco macchine dei suoi dipendenti). «Dopo aver trascorso mesi in quel drammatico regime di detenzione, che noi consideriamo peggiore del carcere, gli immigrati sono lasciati in un limbo». In questo limbo maltese, gli illegali legalizzati (o i «klandestini», come dice la gente comune) si arrabbattano come possono. Si rifugiano nelle comunità di appartenenza. Cercano piccoli lavori in nero, soprattutto nell’edilizia, come si può vedere a tutte le ore agli incroci delle strade, dove decine di africani sono seduti in attesa di qualche offerta. «Dal 2002 sono arrivate almeno 12mila persone. Secondo una stima approssimativa probabilmente per difetto, oggi ce ne sono ancora 6.000», dice padre Joseph. Che aggiunge: «Per un’isola con 300mila abitanti, non è poco».

Introiettare la detenzione
Bloccati su un’isola che è diventata un enorme carcere, incapaci di andare né avanti né indietro, gli immigrati sono visti con sempre maggior fastidio da una popolazione che percepisce il loro arrivo come una vera e propria invasione. Negli ultimi anni, è cresciuto il sentimento xenofobo, è nato un partito che si ispira al fascismo (Azzjoni Nazzjonali) e anche i laburisti hanno ormai sull’accoglienza una posizione dura: «Siamo in una situazione limite. Malta dovrebbe prendere in considerazione l’idea di sospendere i propri obblighi internazionali», ha detto in parlamento il capo del partito Jospeh Muscat presentando il suo piano per l’immigrazione.
«Immaginate cosa succederebbe in Italia se arrivassero in un anno 500mila persone via mare», dicono al ministero degli interni. «Noi siamo la frontiera e dobbiamo pure fronteggiare gli attacchi del vostro paese. E l’Europa sta a guardare». Malta abbandonata dall’Europa, gli immigrati abbandonati a se stessi, che vorrebbero andarsene ma spesso non ci riescono. «Il problema è che ormai c’è una forma di sfiducia reciproca, che rende quasi impossibile l’integrazione», sottolinea Ahmed Bugri, manager del centro aperto di Marsa, una specie di cittadella con bar, ristoranti, un barbiere, due internet café, che ospita «ufficialmente 700 immigrati, in realtà almeno mille». Immigrato lui stesso dal Ghana, Bugri sottolinea che «il governo è tra due fuochi: se concedesse l’asilo a tutti, gli immigrati sarebbero liberi di muoversi e di lasciare l’isola. Ma una tale politica creerebbe un effetto chiamata». Quindi, La Valletta dà la protezione umanitaria a chi ne ha diritto, ma al contempo mantiene un regime di detenzione dura per tutti quelli che arrivano, come misura deterrente. «Il problema è che dopo mesi in quei centri chiusi, gli immigrati hanno introiettato il concetto di detenzione e si sentono in carcere anche se vengono liberati. Sono incalcolabili i danni psicologici creati da quei centri», conclude Bugri. Nel cortile del suo open center di Marsa, decine di immigrati che hanno avuto esaminata la richiesta stanno seduti sui gradini, senza sapere bene che fare. Nel cortile di Safi, quelli ancora in detenzione stanno seduti dietro le grate. I primi almeno, quando vogliono, possono andare a bersi una birra.