1. Si apprende da un breve comunicato in tedesco dell’Agenzia Reuters, emesso alle ore 15,39 di lunedì 16 marzo, che il governo maltese ha respinto al di fuori delle proprie acque territoriali una nave della Marina Militare italiana che intendeva attraccare nel porto della Valletta per “scaricare” 65 naufraghi che erano stati soccorsi 40 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali, che però, secondo quanto ritengono da tempo le autorità italiane, rientrerebbero nella zona di soccorso marittimo (SAR) assegnata alle autorità maltesi.
Le stesse autorità maltesi hanno invece sostenuto che, in base al diritto internazionale generalmente riconosciuto, la responsabilità del soccorso spettava alla marina italiana, e che questa sarebbe stata obbligata a trasferire i migranti nell’isola di Lampedusa, il porto più vicino al luogo dell’intervento di salvataggio che era avvenuto a 116 miglia dalle coste maltesi. L’agenzia riferisce pure che il governo maltese avrebbe preso questa decisione perché “sotto pressione” da parte dell’opinione pubblica locale, dopo che, per effetto delle nuove politiche di internamento praticate dal governo italiano sull’isola di Lampedusa, il numero dei migranti giunti a Malta era aumentato rispetto allo scorso anno. Successivamente la nave Minerva ha fatto rotta su Porto Empedocle, “scavalcando” Lampedusa, dove i centri di detenzione sono ricolmi e rimangono in una condizione di assoluta fatiscenza, tale da costituire per i migranti che vi sono rinchiusi un “trattamento inumano e degradante” che sarebbe vietato anche ai sensi dell’art. 3 della Convenzione a salvaguardia dei diritti dell’uomo.
La precipitosa trasformazione del centro di accoglienza di Lampedusa in un centro di identificazione ed espulsione dove, a seguito del decreto legge 11 del 2009, si può essere trattenuti fino a sei mesi, ha già portato al collasso le strutture detentive in tutta Italia, e allo stesso modo ha reso di fatto “inagibile” anche il CIE di Contrada Imbriacola a Lampedusa. Gli sbarchi continuano, non appena il tempo migliora, ed il numero dei migranti che arriva continua a superare quello di coloro che vengono rimpatriati. Un “fallimento” per il governo, che deve essere occultato ad ogni costo all’opinione pubblica.
Non stupisce dunque che il testo del comunicato sia comparso soltanto in tedesco e che i mezzi di informazione italiani, che pure avevano annunciato che nave Minerva stava facendo rotta verso Malta per “scaricare” in quell’isola i migranti soccorsi in acque internazionali, non hanno poi riferito lo sbocco finale dell’azione di salvataggio, al centro probabilmente dell’ennesimo confronto”diplomatico” tra le autorità italiane e quelle maltesi.
La vicenda merita un breve commento anche alla luce degli obblighi internazionali di salvaguardia della vita umana in mare, degli impegni derivanti dal diritto comunitario, e dei recenti accordi che sarebbero intercorsi in questa intricata vicenda tra Grecia, Cipro, Italia, e Malta, e sembrerebbe anche con Libia e Tunisia. Di certo, in questa occasione non sembra che gli accordi bilaterali abbiano funzionato così come i governanti affermano entusiasti quando propagandano i risultati della cooperazione tra stati nel “contrasto dell’immigrazione clandestina”, dimenticando puntualmente che le azioni di contrasto, o le omissioni di soccorso, quando si verificano, non colpiscono i trafficanti, ma le loro vittime, in grande parte potenziali richiedenti asilo, ma anche donne e minori non accompagnati.
2. Nella Comunicazione della Commissione al Consiglio dell’ Unione Europea del 30 novembre 2006 “ Rafforzare la gestione delle frontiere marittime meridionali”, si prendeva atto, da parte della Commissione, come l’immigrazione irregolare via mare alle frontiere esterne marittime meridionali dell’Unione europea fosse diventata un fenomeno misto, “comprendente al tempo stesso immigranti illegali che non richiedono particolare protezione e rifugiati che necessitano di protezione internazionale” . Secondo la Commissione “la risposta dell’Unione va orientata di conseguenza. L’asilo deve costituire un elemento di rilievo di tale risposta e un’opzione efficace per le persone che necessitano di protezione internazionale. A tale scopo, occorre assicurare che gli Stati membri applichino con coerenza ed efficienza gli obblighi di protezione, per quanto riguarda l’intercettazione e il salvataggio in mare di persone che possano necessitare di protezione internazionale e la sollecita identificazione di queste persone dopo lo sbarco, presso i luoghi di accoglienza. Va sottolineato che, da questo punto di vista, i paesi terzi hanno naturalmente gli stessi obblighi”.
La successiva creazione di una rete di pattuglie congiunte per l’attuazione dei controlli di frontiera (RABIT) e dei pattugliamenti congiunti, in particolare, e la creazione di gruppi di esperti, che avrebbero dovuto anche segnalare le modifiche dei flussi migratori irregolari a fronte delle nuove misure adottate nell’ambito delle operazioni FRONTEX, hanno dato i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, almeno nelle acque del Mediterraneo, al punto che lo scorso anno si è deciso la sospensione temporanea delle operazioni di pattugliamento congiunto nel mediterraneo centrale, per la mancanza dei mezzi necessari al raggiungimento di risultati concreti. Un funzionario dell’agenzia Frontex, citato da The Times ,spiegava che “la Libia non ha risposto alle richieste della Ue di partecipare ai pattugliamenti. Questo rende molto difficoltosa l’operazione, particolarmente su chi deve assumersi la responsabilità di accettare gli immigrati recuperate in zona Sar libica”.
Non sembra che il protocollo operativo firmato dalla Libia con l’Italia alla fine del 2007, ed il successivo Trattato di amicizia, sottoscritto ad agosto dello scorso anno da Berlusconi e Gheddafi, abbiano accresciuto la efficacia degli “strumenti di contrasto dell’immigrazione clandestina”. Nel 2008 gli arrivi in Sicilia e a Lampedusa dono più che raddoppiati, ed anche nei primi mesi del 2009, rispetto agli stessi mesi del 2008, si registra un ulteriore aumento, malgrado la scelta di Maroni che ha “blindato” l’isola di Lampedusa. Non si sa che fine abbiano fatto, e neppure se hanno raggiunto la Libia, le “mitiche” sei motovedette di cui la stampa riferisce da mesi, che l’Italia avrebbe ceduto solo qualche settimana fa alla marina libica. Forse sarà ancora in corso l’addestramento, sotto guida italiana, delle forze di polizia libiche che dovrebbero assumere la responsabilità del comando di queste imbarcazioni, per controllare una costa che ha uno sviluppo di migliaia di chilometri. Ma la chiarezza delle informazioni è ritenuta forse un ostacolo all’efficacia delle misure repressive di contrasto, anche se i risultati non sono certo quelli auspicati dai governi. Come si è visto, non sono chiari neppure i rapporti tra Italia e Malta circa le aree nelle quali ricorrono obblighi di salvataggio e la sorte di migliaia di uomini, donne e bambini rimane affidata all’esile filo delle relazioni diplomatiche, se non alla discrezionalità delle forze di polizia marittima.
3. Come ricorda Caffio ( Il controllo dell’immigrazione via mare, consultabile on line), in
ogni caso, l’attività delle autorità navali deve essere svolta” nel rispetto dei obblighi di soccorso alla vita umana stabiliti dal Codice della Navigazione e dalla Convenzione del Diritto del Mare la cui responsabilità è attribuita, secondo il DPR 662/1994, alla marina militare nelle acque internazionali ed al Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera nelle acque territoriali. Tali obblighi rivestono naturalmente una valenza prioritaria ed assoluta che è superiore a qualsiasi altro interesse da tutelare nell’ambito dell’azione dello Stato in mare. Prova ne sia il gran numero di interventi di Search and Rescue (SAR) a migranti svolti dalla Marina Militare in acque internazionali (nel periodo 2007-2008 è stata prestata assistenza a favore di circa 30.000 persone), in alcuni casi a centinaia di miglia dalle coste nazionali, all’interno delle zone SAR, regolamentate dalla Convenzione di Amburgo del 1979 , ricadenti potenzialmente sotto la giurisdizione di altri Stati come Malta o la Libia . Tra l’altro, va ricordato che la quasi totalità delle persone salvate in acque internazionali sono state finora condotte in Italia, mentre, secondo i principi affermati dall’IMO nella Risoluzione 167 (78) linee guida su “ Safety measuresand procedures for the treatment of persons rescued at sea”, la competenza ad accogliere le persone salvate in mare dovrebbe normalmente essere del Paese nella cui zona SAR è avvenuto il salvataggio”. In questa ultima occasione, probabilmente il governo italiano voleva ricondurre i migranti salvati in mare verso Malta, malgrado il salvataggio fosse avvenuto molto più vicino a Lampedusa, perché voleva approfittare della grandissima estensione delle acque internazionali di interesse economico e dunque di competenza anche ai fino delle azioni di salvataggio, che Malta si è riservata nella storia, per ragioni di carattere commerciale. Una responsabilità che in passato produceva vantaggi economici e che oggi comporta doveri di salvataggio e di accoglienza che il piccolo stato maltese non può sopportare, soprattutto quando il suo vicino, l’Italia, blocca i migranti nell’isola di Lampedusa ed aumenta la pressione sulla Libia per controllare le tradizionali rotte da quel paese verso la Sicilia. E Malta funziona sempre più spesso come stazione di transito. Fino allo scorso anno sono state numerose e ben documentate le testimonianze d migranti che riferiscono come i maltesi forniscano rifornimenti di acqua e carburante alla “carrette del mare” che entrano nelle loro acque internazionali, pur di farle proseguire verso Lampedusa o verso la costa meridionale della Sicilia ( in particolare tra Gela e Pozzallo).
4. La Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (UNCLOS) costituisce la fonte primaria del diritto internazionale del mare. L’art. 311 dispone, infatti, che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa. Due o più Stati – continua l’art. 311 della Convenzione sul diritto del mare – possono concludere accordi che modifichino o sospendano l’applicazione delle disposizioni della Convenzione e che si applichino unicamente alle loro reciproche relazioni, solo a condizione che questi accordi non rechino pregiudizio ad una delle disposizioni della Convenzione, la cui mancata osservanza sarebbe incompatibile con la realizzazione del suo oggetto e del suo scopo e, parimenti, a condizione che questi accordi non pregiudichino l’applicazione dei principi fondamentali della Convenzione e non pregiudichino anche il godimento dei diritti o l’adempimento degli obblighi degli altri Stati derivanti dalla Convenzione stessa. Questo principio di compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di Montego bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori.
Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 dell’UNCLOS, perché esso costituisce l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà . Ogni Stato – si legge nel citato art. 98 – impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione, all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.
Varie convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all’UNCLOS, costituiscono un completamento della norma ora citata. In primo luogo, l’art. 10 della Convenzione del 1989 sul soccorso in mare così dispone: Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo.
La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 ( Convenzione SOLAS) impone al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”.
La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. La Convenzione SAR si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti.
La Convenzione SAR impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “regardlerss of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found”, senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”.
I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda. Occorre però garantire che dopo l’espletamento delle operazioni di salvataggio i migranti siano ricondotti in un “porto sicuro”, e non sempre tale porto è quello più vicino.
5. Soprattutto nei rapporti con Malta, come con la Tunisia e la Libia, rimangono ancora da definire le regole d’ingaggio delle marine nel caso vengano salvati immigrati in difficoltà in acque internazionali e questo può comportare gravi ritardi nelle operazioni di salvataggio, oltre che respingimenti collettivi (vietati dalle convenzioni internazionali) verso i porti di partenza di paesi che non riconoscono (o non siano nelle condizioni di applicare effettivamente, come nel caso della Tunisia) la Convenzione di Ginevra o altre norme internazionali che tutelano i diritti della persona umana, con particolare riferimento ai soggetti più vulnerabili ( donne, minori, vittime di tortura).
In ogni caso, la doverosa cooperazione dello Stato coinvolto nell’operazione di soccorso in mare, comprende l’obbligo dello sbarco dei naufraghi in un “luogo sicuro” sulla base del giudizio esclusivo del comandante dell’unità che porta a compimento l’intervento di salvataggio, prescindendo dal potere dello Stato stesso di perseguire i presunti favoreggiatori (comandante ed equipaggio) o di adottare verso i clandestini (ma in tutta sicurezza) i provvedimenti di espulsione o di respingimento previsti dalla legge. Non è ancora noto come le missioni di FRONTEX che mirano al respingimento delle “carrette del mare” verso i porti di provenienza verrà ad incidere sul tradizionale tempestivo adempimento degli obblighi di salvataggio da parte della Marina Militare italiana.
Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per “conduzione della persona salvata in luogo sicuro”. Infatti è dal momento dell’arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione etc.). Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all’annesso della Convenzione SAR 1979 (luglio 2006) e alla Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida – adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli – viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso.
Le “linee guida” insistono particolarmente sul ruolo attivo che deve assumere lo Stato costiero nel liberare la nave soccorritrice dal peso non indifferente di gestire a bordo le persone salvate.
Secondo le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare adottate nel maggio del 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza, che emendano le convenzioni SAR e SOLAS, “il governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito”. Secondo le stesse linee guida “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie ( come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale. In talune circostanze neppure Lampedusa o Malta sono qualificabili come “luoghi sicuri”, soprattutto per la impossibilità di garantire in determinate circostanze un adeguato alloggio e cure mediche tempestive. Si aggiunge infine che “ ogni operazione e procedura come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco”.
Questa regola è di fondamentale importanza per la tutela della vita, della salute e della dignità dei migranti, ed è stata violata negli ultimi giorni dal governo italiano che ha trattenuto per ore, a Lampedusa, a bordo dei propri mezzi navali, numerosi migranti soccorsi in mare, prima di avviarli verso un altro porto di sbarco ( Porto Empedocle) e verso le necessarie cure mediche di cui avevano urgente bisogno, come denunciato anche dalla organizzazione umanitaria “Save the children”.
Alcuni paesi come Malta, pur appartenendo all’Unione Europea, non riconoscono la operatività di queste convenzioni internazionali. Nel 2007 l’UNHCR ha chiesto in particolare al governo maltese di ratificare i recenti emendamenti alle convenzioni marittime – la Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare del 1979 (SAR) e la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS). Gli interventi di salvataggio e la sorte dei migranti soccorsi in acque internazionali rimane dunque rimessa a trattative diplomatiche che intercorrono di volta in volta tra i rispettivi governi mentre i mezzi e le autorità militari rimangono in attesa di conoscere le modalità del loro intervento. O incorrono in qualche spiacevole incidente, come è avvenuto in questi giorni, ai confini delle acque maltesi, nel caso del respingimento della nave Minerva da parte delle autorità maltesi.
6. Come si è rilevato, a partire dal caso della nave tedesca Cap Anamur nel 2004, per il quale è ancora aperto presso il Tribunale di Agrigento un processo per favoreggiamento dell’ingresso di clandestini, la attuale formulazione della Convenzione di Dublino, modificata nel 2003 dal regolamento Dublino II, determina gravi incertezze sullo stato competente a intervenire in caso di salvataggio di migranti in acque internazionali, soprattutto quando non è possibile accertare immediatamente la nazionalità o l’esatta provenienza dei naufraghi. La controversia sulla esatta delimitazione delle zone di competenza per gli interventi di salvataggio ( cd. zone SAR) aggiunge incertezza ad incertezza, ed alla fine a farne le spese sono soltanto i migranti, sballottolati da un porto ad un altro, e spesso privati della possibilità di fare valere i propri diritti fondamentali.
Il regolamento Dublino II, in uno studio pubblicato nella primavera del 2006 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), ed in altri più recenti documenti adottati a livello comunitario, evidenzia la necessità di una sostanziale revisione, al fine di assicurare il rispetto dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati. Il rapporto dell’UNHCR è stato reso pubblico proprio mentre la Commissione Europea era impegnata nella preparazione di una propria revisione del Regolamento. Il funzionamento del Regolamento presuppone che le leggi sull’asilo e le derivanti prassi dei paesi aderenti poggino su standard comuni. Tuttavia – osserva anche tale studio – un’armonizzazione delle politiche d’asilo e delle pratiche adottate all’interno dell’UE non è ancora stata raggiunta. Sia le legislazioni nazionali che le rispettive prassi in materia d’asilo variano ancora molto da paese a paese, generando così un diverso trattamento dei richiedenti asilo. Ciò può produrre disparità nell’applicazione del Regolamento Dublino II. E quando queste”disparità” riguardano paesi piccoli ed esposti come Malta ( o Cipro) non si può mai prevedere fino a che punto le regole comunitarie troveranno applicazione da parte delle autorità locali. E sono noti sia gli accordi di cooperazione stipulati tra Malta e la Libia, sia i conseguenti casi di imbarcazioni cariche di migranti alle quali è stato prima impedito l’ingresso nelle acque maltesi, e che poi sono state respinte verso le coste libiche. Sembrerebbe anche, da rare notizie della stampa maltese, che in qualche caso Malta abbia svolto operazioni di trasferimento ( deportazioni vere e proprie) verso la Libia di migranti, assai probabilmente potenziali richiedenti asilo, di varia nazionalità.
La questione più importante – rileva da tempo l’UNHCR – è evitare concretamente (cioè in tutti gli Stati comunitari ) che il richiedente asilo venga inviato fuori dello spazio regolato da Dublino II, senza che la sua richiesta sia stata esaminata. E occorre ricordare che lo spazio regolato dal Regolamento Dublino comprende non solo le acque territoriali, ma anche tutti i luoghi nei quali unità militari dei paesi che aderiscono all’Unione Europea effettuano interventi di polizia, così ad esempio anche in acque internazionali. E principio affermato anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo ( Caso Issa) che gli stati aderenti alla CEDU sono tenuti a rispettare le previsioni della Convenzione anche al di fuori delle proprie frontiere, laddove intervengano con proprie unità militari. Dunque dal momento che l’art. 3 della CEDU vieta l’allontanamento forzato della persona verso un paese nel quale possa subire trattamenti inumani o degradanti, o un successivo allontanamento verso un paese nel quale possa subire trattamenti inumani o degradanti, tale norma rientra tra i doveri di protezione imposti agli stati che intervengono nel contrasto dell’immigrazione clandestina via mare. La norma della CEDU, vincolante per tutti i paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa, corrisponde ad una previsione analoga contenuta nel diritto internazionale dei rifugiati. Secondo l’art. 33 della Convenzione di Ginevra nessuno può essere espulso o respinto verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. In base a tale norma, anzi, si dovrebbe verificare la concreta attuazione di tutti gli accordi bilaterali conclusi tra Malta, l’Italia ed i paesi rivieraschi della sponda sud del Mediterraneo. Anche questa previsione è direttamente vincolante per le autorità militari che procedono ad azioni di salvataggio in acque internazionali.
7. Occorre disperdere quella nebbia di disinformazione che alimenta allarmismi e indifferenza nell’opinione pubblica e pone le basi per interventi dettati dalla necessita di fare fronte ad una apparente emergenza, piuttosto che ad un fenomeno strutturale ormai irreversibile.
Va istituita una commissione di inchiesta a livello europeo per verificare la pratica di attuazione degli accordi di riammissione e delle intese operative a livello di forze di polizia, sottoscritti dai paesi europei con i paesi nord africani, sia dal punto di vista dei respingimenti in frontiera che nei casi di detenzione amministrativa.
Occorre depenalizzare con un apposito regolamento comunitario gli interventi di salvataggio a mare da parte delle imbarcazioni commerciali e da pesca, in modo da rendere più tempestive le azioni di salvataggio ed adottare una normativa uniforme a livello europeo sul diritto di asilo e sulla protezione umanitaria che garantisca effettivamente l’accesso al territorio ed alla procedura, per tutti coloro che fuggono da guerre, persecuzioni e violazioni sistematiche dei diritti fondamentali della persona.
Vanno censurate e sospese le prassi di respingimento collettivo in mare adottate da alcuni paesi come l’Italia (in base al decreto interministeriale del 14 luglio 2003, in attuazione della legge Bossi Fini). Sono casi rari, ma ne sono documentati ancora alcuni nel corso del 2008 come riferisce www.fortresseurope.blogspot.com. Questi interventi derivano da decisioni delle autorità politiche, si sovrappongono agli interventi umanitari e di salvataggio, ponendosi in contrasto con il diritto internazionale del mare ed alimentano il rischio di nuove stragi, con una gravissima lesione del diritto di asilo riconosciuto a livello internazionale e dalla Costituzione italiana. Il Decreto interministeriale 14 luglio 2003 e l’art. 12 del T.U. sull’immigrazione vanno riformulati con la precisazione degli obblighi di salvataggio, e dei diritti dei potenziali richiedenti asilo, con la cancellazione delle ipotesi di rinvio verso i porti di provenienza.
Vanno previsti a livello europeo strumenti di monitoraggio delle attività delle polizie locali. Non sono più sufficienti le missioni occasionali di delegazioni del Parlamento Europeo o di singoli esponenti della Commissione, ai quali le autorità di polizia “preparano” visite “guidate” dei centri di detenzione amministrativa, facendo scomparire per tempo tutte le tracce degli abusi commessi, e spesso anche i migranti, come è successo a Lampedusa in diverse occasioni, da ultimo in occasione della visita del Commissario Europeo alla giustizia ed alle libertà civili Barrot.
Come è confermato da numerose testimonianze in molti paesi di transito la corruzione della polizia e le organizzazioni criminali dei trafficanti di uomini formano un sistema unico che stritola migliaia di vite e che risulta invisibile soltanto ai governanti europei che con gli stati di polizia del nord-africa non esitano a concludere accordi di riammissione, che sulla carta richiamano i diritti fondamentali ed il diritto di asilo, ma che nella pratica si riducono a pratiche di deportazione e di schiavizzazione indegne di un qualsiasi paese che voglia continuare a definirsi democratico.
La sicurezza dei cittadini, l’ordine pubblico e il contrasto dell’immigrazione clandestina in mare, nuovi totem davanti ai quali non si esita a sacrificare quotidianamente il destino di uomini, donne e bambini in fuga dalle persecuzioni e dal bisogno, non possono essere certo scalfiti, dal salvataggio di alcune migliaia di migranti che tentano la traversata del Mediterraneo. Il principio di legalità va rispettato da tutti, a partire dagli obblighi di protezione della vita umana in mare imposti dalle convenzioni internazionali e dal diritto interno.
Le operazioni di “pattugliamento congiunto” gestite dall’agenzia FRONTEX devono essere bloccate o riconvertite nella prospettiva della salvaguardia assoluta della vita umana e del diritto di asilo. Devono essere evitate pratiche di polizia concretamente riconducibili al divieto di espulsioni collettive. Vanno interrotti immediatamente i finanziamenti concessi dai governi europei ai paesi di transito per mantenere centri di raccolta dei migranti irregolari, che assumono spesso, come rilevato in Libia da Human Rights Watch e da una delegazione del Parlamento europeo, il carattere di veri e propri lager. Come vanno interrotti i finanziamenti europei dei “voli congiunti”con i quali gli stati di transitano restituiscono molti potenziali richiedenti asilo alla polizia dei paesi, come l’Eritrea, o la Nigeria dai quali questi sono fuggiti.
Deve essere riconsiderata dai Parlamenti nazionali la materia degli accordi di riammissione, sia perché in contrasto sempre più evidente con le normative internazionali ed interne in materia di protezione dei diritti fondamentali della persona migrante, sia perché le azioni di polizia attuate sulla base di tali accordi sono sottratte ad ogni effettivo controllo giurisdizionale. Gli accordi già stipulati con i paesi di transito e di provenienza vanno revocati o comunque rinegoziati, ed eventuali accordi futuri, comunque discussi ed approvati dalle assemblee parlamentari, dovranno essere strettamente conformi alle norme internazionali e costituzionali sulla tutela dei diritti fondamentali della persona, a partire dalla Carta di Nizza, che vieta le espulsioni collettive, e dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che prevede, in caso di violazione, mezzi immediati di ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e di denuncia alla Commissione Europea.