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Médenine, Tunisia - I rifugiati sperano di lasciare il Paese

Le testimonianze dei migranti: depressione, vulnerabilità e malcontento

Testimonianze raccolte da Yasmine Accardo, Stefano Bleggi, Riccardo Bottazzo, Edgar Cordova, Silvia di Meo, Anna Enamorado, Annalisa Nava, Viktor Santiago Pozas e Grazia Satta.

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«Siamo fermi in Tunisia, ma il nostro sogno è arrivare in Europa, ricongiungerci con i nostri amici e avere delle opportunità per migliorare la nostra vita», ci dicono i tre ragazzi eritrei che incontriamo nella città di Médenine in una giornata calda e afosa, con temperature che metterebbero a dura prova chiunque.

Siamo in Tunisia per partecipare alle iniziative di solidarietà di “Europe Zarzis Afrique”, e dopo aver raccolto le voci dei migranti a Tunisi e a Zarzis ci siamo recati a Médenine, città a 120 km dal confine con la Libia nella quale sono presenti la maggior parte dei centri di accoglienza. Médenine è conosciuta anche perché qui era presente uno dei più grandi centri gestiti dalla Mezzaluna rossa, centro che ha chiuso i battenti per le deplorevoli condizioni in cui si trovava e per le accuse di malversazione dei fondi.
Secondo i dati di OIM, attualmente la Tunisia ospita circa 1.100 persone nei suoi sei centri di accoglienza divisi tra Médenine e Zarzis.

Parliamo a lungo con i ragazzi, sono molto preoccupati che i responsabili dei centri li possano scoprire mentre conversano con noi. «Siamo entrati in Tunisia dalla Libia, lì abbiamo visto cose inenarrabili, violenza e ancora violenza, la Libia è un luogo orribile dove la nostra vita vale finché qualcuno può permettersi di pagare», ci spiegano due ragazzi giovanissimi da poco maggiorenni. Ce lo dicono con estremo pudore e con i visi contratti, quasi a non voler risvegliare all’istante incubi e immagini impresse nei loro ricordi.

Immaginiamo che abbiano lasciato il loro Paese per fuggire al servizio militare del dittatore eritreo Afewerki. La diaspora eritrea conta 50.000 persone in fuga ogni anno, circa 4.000 al mese, e la fetta più consistente è rappresentata da giovani sotto i 20 anni. Ciononostante l’Unione europea ha sottoscritto lo scorso febbraio un’intesa con il dittatore che riceverà finanziamenti dal Fondo Fiduciario dell’UE per l’Africa e dall’Ufficio delle Nazioni Unite; la prima tranche, già versata, è stata di 20 milioni di euro.

«In Tunisia a confronto con la Libia - continuano - siamo stati accolti bene, ma qui è tutto ancora molto complicato. Siamo stati riconosciuti rifugiati dall’UNHCR ma la nostra condizione rispetto a prima non è migliorata». Chiediamo a loro come funziona l’iter della domanda di protezione internazionale. «Ci vogliono circa 4 mesi per incontrare una commissione che decide se riconoscerti o meno la protezione. Chi riceve lo status di rifugiato ottiene un tesserino, rimane ancora 3 mesi nel progetto di accoglienza e ha diritto a 40 ore di insegnamento della lingua francese. Chi invece non viene riconosciuto come rifugiato può presentare un ricorso senza però il supporto di un legale. In pratica - affermano - deve autoformarsi, imparare la normativa e svolgere da solo un nuovo incontro con la commissione».

Tuttavia, a prescindere se si ottenga il riconoscimento e quindi il tesserino o meno, le persone non possono lavorare con un contratto regolare e l’accesso alla sanità di base non sempre viene garantito. Certo, ottenere il documento formale comporta perlomeno di non essere deportati come è avvenuto ai 36 migranti ivoriani, ma è precluso l’accesso ai diritti materiali e, come ci avevano già raccontato il gruppo di eritrei intervistati a Tunisi, con questa carta dell’Agenzia dell’ONU non è possibile nemmeno comprarsi una scheda telefonica.

«La nostra condizione di vita è drammatica - continuano i tre ragazzi - non abbiamo di fronte a noi nessuna possibilità di andarcene dalla Tunisia, siamo costretti a rimanere qui ma trovare un lavoro è quasi impossibile e se lo troviamo è pagato meno di 30 dinari (circa 10 euro al giorno). Inoltre siamo totalmente a disposizione di un padrone e ovviamente senza contratto. Dobbiamo chiedere soldi alle nostre famiglie, ma quanto potranno sostenerci?».

I ragazzi ci raccontano di avere anche deciso lo scorso 20 giugno, giornata internazionale del rifugiato, di promuovere un sit-in pacifico nella piazza centrale di Médenine. «Ci siamo seduti a terra con cartelli per denunciare la nostra condizione e chiedere alle autorità tunisine e all’UNHCR di riconoscere i nostri diritti, di poter lavorare, di non subire più forme di razzismo e discriminazione». La risposta a queste istanze pacifiche è stata brutale: «La polizia tunisina ci ha picchiato violentemente perché il presidio secondo loro non era autorizzato. Ci hanno arrestato in 23 e portato in caserma, alcuni mentre erano svenuti; lì ci hanno nuovamente picchiato, colpito talmente forte che molti di noi sono svenuti nuovamente. Alcuni sono finiti in carcere per una settimana con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e ora li attende un processo. Ma le accuse sono false, stavamo tutti manifestando in modo pacifico. La Tunisia non vuole che si sappia in Europa quali sono le condizioni in cui viviamo perché riceve molti soldi in cambio della nostra gestione e del controllo delle frontiere». Dell’intera vicenda se ne sta occupando anche Amnesty Tunisia.

Nei giorni successivi abbiamo incontrato, sempre a Médenine, altri migranti originari del Mali, del Ciad, della Nigeria e del Sud Sudan. Ci hanno raccontato che lo stato di depressione, vulnerabilità e malcontento in cui si trovano ha spinto molte persone a tentare il suicidio, alcuni addirittura vorrebbero tornare in Libia per tentare la traversata del Mediterraneo o semplicemente per cercare cibo e lavoro. Per settimane non ricevono il pocket money (di 30 dinari settimanali in forma di ticket, che basterebbe per il cibo di soli due giorni) ed hanno difficoltà a procurarsi il cibo, il centro dove sono accolti - come si può vedere dalla fotografie - presenta stanze sovraffollate e condizioni igieniche precarie. Si sentono totalmente abbandonati.

Abbiamo scritto a UNHCR Tunisia per chiedere delucidazioni e per avere un incontro formale con i responsabili ma non ci è stata fornita ancora una risposta. Per l’ennesima volta ci domandiamo come sia possibile definire la Tunisia un paese sicuro.

Vedi anche

  • La Tunisia non è un Paese sicuro. La vicenda dei 36 ivoriani abbandonati nel deserto lo dimostra
  • “Comme Riace...”, il messaggio da Zarzis del poeta Mohsen Lihidheb
  • La ḥarga, il viaggio di chi brucia la frontiera mediterranea dalla Tunisia all’Italia
  • Sulla violazione del principio di non-refoulement ed il peggioramento delle condizioni dei profughi siriani in Libano
  • L’uso dei droni per guardare i migranti che affogano mette a nudo tutta la disumanità delle pratiche di controllo sui confini
  • Fateli scendere: chi scappa dalla Libia ha diritto ad un porto sicuro
  • Spagna: i migranti sconosciuti nei cimiteri dello stretto di Gibilterra
  • Libia - Nel campo di Zawiya niente cibo e niente acqua ai migranti in rivolta
  • I porti tunisini non sono sicuri per i migranti. Gli Stati membri dell’UE dovrebbero assumersi le proprie responsabilità
  • Le famiglie tunisine hanno diritto a verità e giustizia per i loro cari scomparsi
  • La Tunisia, terra di accoglienza… per le politiche europee

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[ 13 agosto 2019 ]
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