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“Meglio morire annegati”: la disperazione dei migranti nei campi della Grecia

Patrick Kingsley, The New York Times - 4 ottobre 2018

Photo credit: Mauricio Lima/The New York Times.

Moria, Grecia – Michael Tamba, un ex prigioniero politico congolese, è sopravvissuto alla tortura nel suo Paese e ad un rischioso viaggio in mare dalla Turchia. Si è ritrovato più vicino alla morte nel campo profughi più grande d’Europa.

Intrappolato per mesi nel campo dell’isola greca di Lesbo, Tamba, 31 anni, ha cercato di suicidarsi ingerendo una bottiglia di cloro. Cosa lo ha portato a tale decisione? Lo stesso campo di Moria.

Undici mesi a Moria… Moria.. Moria”, commenta Tamba, sopravvissuto dopo esser stato trasportato d’urgenza in ospedale. “É molto traumatico”.

L’esperienza di Tamba è diventata comune a Moria, un accampamento di circa 9.000 persone che vivono in uno spazio concepito per 3.100, dove le condizioni precarie e la stingente procedura d’asilo hanno generato quella che gli operatori umanitari descrivono come una crisi di salute mentale.

Il sovraffollamento è così endemico che i richiedenti asilo trascorrono fino a 12 ore al giorno nell’attesa di qualche alimento, che a volte arriva già ammuffito. La scorsa settimana c’erano circa 80 persone per ogni doccia e più o meno 70 per i servizi igienici; gli operatori umanitari hanno lamentato che i liquami hanno raggiunto persino le tende in cui stavano i bambini. Aggressioni di matrice sessuale, attacchi all’arma bianca e tentativi di suicidio sono fenomeni comuni.

Queste circostanze hanno alimentato il sospetto per il quale si sarebbe volutamente lasciato che il campo andasse in tilt al fine di scoraggiare la migrazione, ragione per la quale sarebbero anche stati distratti i fondi stanziati dall’Unione Europea per il sostegno alla Grecia nell’assistenza ai richiedenti asilo. A fine settembre l’agenzia anti-frode dell’Unione ha annunciato che sarà avviata un’indagine in merito.

Nei momenti più duri della crisi migratoria europea – nel 2015 – Moria era esclusivamente una stazione di transito, poiché decine di migliaia di richiedenti asilo – molti dei quali in fuga dai conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan – passavano per questa regione nel cammino verso la parte settentrionale dell’Europa. I numeri si fecero talmente elevati che fu permesso loro di passare.

I Paesi dell’Unione Europea cercarono gradualmente di controllare il passaggio dei migranti con la chiusura delle frontiere interne e la costruzione di accampamenti in luoghi come Lesbo, dove poi arrivarono molti dei rifugiati. Ora sono bloccati qui.

Attualmente, Moria è il simbolo più evidente della durezza della politica europea nei confronti dei migranti, la quale ha sì drasticamente ridotto la migrazione non autorizzata, ma ad un costo umanitario ed etico che i critici considerano immenso.

Fuori dall’Europa, l’Unione ha corteggiato i governi autoritari di Turchia, Sudan ed Egitto mentre l’Italia ha trattato con le milizie libiche, nell’ambito di uno sforzo volto a ridurre l’afflusso di migranti verso il Mediterraneo rivelatosi efficace.

All’interno dei confini europei, quelli che ancora arrivano sulle isole greche – quest’anno sono arrivati in 23mila circa, contro gli 85mila arrivati nel 2015 – devono restare in accampamenti come quello di Moria fino a che i loro casi non arriveranno al termine. Possono volerci fino a 2 anni prima che i richiedenti asilo siano respinti nel loro Paese o, al contrario, possano proseguire oltre.

Devo dire che Moria è il campo nel quale ho visto maggiore sofferenza”.
Louise Roland-Gosselin, responsabile delle missioni in Grecia per Medici senza Frontiere

Ho visto dei campi in condizioni spaventose”, ha dichiarato Louise Roland-Gosselin, responsabile delle missioni in Grecia per Medici senza Frontiere, che ha trascorso cinque anni nelle aree di crisi del Congo e del Sud Sudan. “Devo dire che Moria è il campo nel quale ho visto maggiore sofferenza”.

Lo psichiatra responsabile dell’équipe di Lesbo, Alessandro Barberio, ha dichiarato di non aver mai visto un numero tanto impressionante di casi di grave malattia mentale. Alla maggioranza delle circa 120 persone che il suo team riesce a seguire sono stati prescritti farmaci anti-psicotici.

Moria è diventata il catalizzatore di manifestazioni acute di psicosi e disturbi da stress post-traumatico”, ha dichiarato Barberio.

L’International Rescue Committee, un’organizzazione umanitaria che, anche se in misura minore, è presente nell’isola, ha reso noto che a Moria quasi un terzo delle 126 persone che i suoi operatori psicosociali hanno assistito a partire da marzo ha tentato il suicidio.

La maggior parte dei residenti del campo sono rifugiati siriani, iracheni ed afghani, molti dei quali hanno subito traumi di guerra, esacerbati dalla situazione di immobilismo e sovraffollamento.

Gli operatori umanitari hanno riferito che, come nel caso di Tamba, solo pochi tentativi di suicidio si rivelano mortali, poiché c’è talmente tanta gente che solitamente vengono sventati con rapidità. Ciononostante, il danno può essere duraturo. Il gesto di Tamba gli ha lasciato delle cicatrici sullo stomaco che ancora gli provocano dolore.

A seguito del suo tentativo di suicidio, le autorità ritennero che Tamba fosse un caso vulnerabile e ne disposero il trasferimento in un altro campo situato nella parte continentale della Grecia. Eppure lì le condizioni non sono molto diverse, e Tamba è preoccupato dal fatto che, ora che lo hanno trasferito, non riesca a procurarsi i farmaci di cui ha bisogno.

Rahmuddin Ashrafi, un contadino afghano, è arrivato a giugno assieme a sua moglie, Sohaela, e ai loro tre figli piccoli. Ashrafi, 34 anni, ha raccontato che la sua casa e i suoi terreni sono stati distrutti in un combattimento tra talebani ed esercito afghano. Ora, a Moria, i cinque dividono una piccola tenda per due persone.

Una normale giornata in famiglia inizia alle quattro del mattino, quando Ashrafi si mette in coda per avere acqua e pane, che solitamente gli vengono consegnati quattro ore dopo. Intorno alle 9:30 torna in fila per il pranzo, che arriva regolarmente dopo altre quattro ore di fila. Due ore dopo ritorna ad aspettare altre quattro ore per la cena.

Quando sei costretto a metterti in fila per delle pratiche burocratiche o per andare dal medico – sua figlia di 3 anni è stata recentemente ricoverata per un’appendicite – a volte resti senza cibo, o devi accontentarti degli scarti altrui.

Credevo che la Grecia sarebbe stato uno dei posti migliori in cui poter vivere”, dice Ashrafi. “Ora credo che sarebbe stato meglio annegare mentre attraversavo il mare”.

In pochi qui si sentono al sicuro. Nella privacy della sua tenda, uno studente iracheno di 25 anni si solleva la felpa per mostrarmi una serie di pugnalate piuttosto recenti. Dice di esser stato aggredito da altri del campo, e chiede che il suo nome non sia reso noto per paura di ulteriori rappresaglie.

Anche le violenze sessuali sono diffuse. Da marzo, l’International Rescue Committee ha assistito più di 70 persone che hanno riferito di esser state oggetto di aggressioni a sfondo sessuale all’interno del campo. Le donne dicono di aver paura a camminare da sole di notte.

Oltre a questi problemi, molti si sentono ingabbiati in un iter burocratico infinito relativamente alle loro richieste di asilo, iter che non riescono a comprendere fino in fondo. Ashrafi è stato costretto a saltare un’audizione già programmata per portare sua figlia in ospedale. Ora deve aspettare dei mesi prima che gli diano un altro appuntamento.

È verosimile che chi arriverà qui al campo nelle prossime settimane debba aspettare almeno fino a marzo per l’audizione, dice Philip Worthington, direttore di European Lawyers a Lesbo, un’organizzazione umanitario-legale che opera nell’isola.

Worthington riferisce che non ci sono avvocati pagati dallo Stato che assistano i richiedenti diniegati nella procedura di appello, circostanza che viola sia le leggi greche che quelle europee.

C’è sempre più amarezza – e ora anche un’indagine – attorno alle ragioni per cui il campo riversi in condizioni tanto gravi, visto che l’Unione Europea – da quando i volumi della migrazione iniziarono a crescere, nel 2014 – ha erogato molto denaro per contribuire al miglioramento del sistema di asilo greco.

Negli ultimi cinque anni l’Unione Europea ha destinato quasi 1.620 milioni di euro (1.900 milioni di dollari) alle operazioni di asilo greche, dei quali – secondo i dati forniti al The New York Times – 1.100 sarebbero già stati erogati. Hanno ricevuto denaro dall’Unione Europea oltre venti Dipartimenti governativi e organizzazioni della società civile, in un’ottica parziale nella quale nessuna istituzione ha il reale e completo controllo del modo in cui questi soldi vengono spesi.

Un portavoce del Ministero delle Politiche Migratorie greco, Alexis Bouzis, ha negato qualsiasi malversazione da parte del Governo, ed ha attribuito la singolare contingenza al lieve aumento nell’afflusso di migranti registrato alla metà di quest’anno, circostanza che avrebbe causato un ritardo.

Nessuno poteva prevederlo”, ha affermato Bouzis.