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Rifugiati a Melilla

Melilla, il CETI non è un posto per bambini

di Robert Bonet, Diagonal

Foto: Robert Bonet
Foto: Robert Bonet

Cala la notte sullo spiazzo che circonda il CETI (Centro Temporaneo di Soggiorno per Immigrati) di Melilla, e con essa cominciano ad accendersi diversi falò. Le famiglie di rifugiati di origine siriana stazionano già da ore nei loro accampamenti di fortuna, in cui trascorrono gran parte della sera. Restano lì ogni giorno in attesa che arrivi l’ora di entrare nel CETI, aspettando che rinfreschi, o che i loro figli comincino ad avere sonno.

Solo così possono vivere una realtà familiare e comunitaria, dato che nel centro di accoglienza i migranti non possono cucinare i loro piatti tipici, e vengono addirittura divisi per sesso, il che impedisce a mariti e mogli di dormire insieme.

Il tasso di riconoscimento dello status di rifugiato in Spagna è molto più basso rispetto agli altri paesi dell’Unione.

Le famiglie siriane arrivano a Melilla fuggendo dalla guerra, e questa necessità di protezione reciproca e di salvaguardia della comunità si fa più intensa. Questa necessità di sentire che, per lo meno, non hanno perso tutto: la cultura ed i legami che li uniscono, a migliaia di chilometri di lacrime e di dolore. Tuttavia, al di là della sofferenza, queste famiglie e comunità fanno dei loro accampamenti improvvisati la propria casa. Una casa in cui bambini e bambine riversano la propria vitalità, tenerezza ed innocenza senza le quali, sicuramente, queste abitazioni di fortuna non sarebbero considerati tali. Sembrerebbe che questi bambini non siano coscienti della cruda realtà che hanno dovuto affrontare. Passano, infatti, la maggior parte del tempo giocando tra loro, ridendo, ballando, e i loro sguardi risplendono di gioia. A volte, però, si distingue un gesto, un’occhiata o un altro segno che palesa la loro fuga da un contesto di guerra che, nella maggior parte dei casi, ha richiesto lunghi e faticosi mesi.

Foto: Robert Bonet
Foto: Robert Bonet

La comunità siriana a Melilla

Le migrazioni massicce di rifugiati siriani a Melilla sono stati uno dei fenomeni più rilevanti tra il 2014 e il 2015. Secondo fonti di polizia, non essendoci dati disponibili da parte del Ministero degli Interni, si calcola che circa 2.500 persone di origine siriana o curda sono arrivati a Melilla nel 2014, per un totale di 5.000 nuovi arrivi nella Città Autonoma.

Nonostante queste persone fuggano da un contesto bellico, il governo spagnolo è riluttante a concedere qualsiasi forma di protezione internazionale. Nel 2013, secondo il rapporto La situazione dei rifugiati in Spagna, ad opera della Commissione di Assistenza per i Rifugiati (CEAR), la possibilità di ottenere protezione internazionale è stata riconosciuta a 582 persone, vale a dire al 22% delle richieste, delle quali solamente l’8,7% si è tradotta nel riconoscimento dello status di rifugiato. Il tasso di riconoscimento dello status di rifugiato in Spagna è significativamente basso rispetto agli altri paesi dell’Unione. In Italia, per esempio, la percentuale di riconoscimenti tocca il 64%, mentre la media europea raggiunge il 34% dei casi.

Attualmente, nonostante il CETI di Melilla disponga di soli 480 posti, diverse ONG hanno stimato che il 60-70% delle persone detenute nel CETI di Melilla – circa 1.500 – è di origine siriana. Pertanto, vi dimorerebbero tra i 900 e i 1.050 siriani e curdi, dei quali almeno 300 sarebbero bambine.

Questi migranti arrivano a Melilla senza oltrepassare gli ostacoli, bensì attraverso i valichi di frontiera, soprattutto il principale, quello di Beni Enzar. Spesso si servono di passaporti falsi, o approfittano del grande flusso di persone che ogni giorno entra a Melilla. E, solitamente, lo fanno con tutta la famiglia.

Foto: Robert Bonet
Foto: Robert Bonet

Il CETI di Melilla e dintorni: un luogo che non è per i bambini

Una volta raggiunta Melilla, le famiglie siriane vengono a vivere nel CETI, il cui problema principale è la situazione di sovraffollamento. Come riportato dal CODH (Comisión de Observadores de Derechos Humanos) in un rapporto pubblicato nel mese di luglio 2014, questa saturazione ha fatto sì che si installassero tende di grandi dimensioni per ospitare centinaia di persone che dormono in letti a castello in condizioni di grave assembramento. In inverno il freddo della notte è intenso, in particolare per i bambini, i gruppi più vulnerabili. E quando piove questi tendoni non isolati si riempiono di acqua, quando non sono già inondati dalle pozzanghere che si creano sul terreno irregolare.

Un’altra conseguenza della saturazione del CETI è la mancanza di acqua calda. Stagionalmente, la gente del posto denuncia che l’acqua calda arriva solo a chi riesce a far la doccia prima, ma non al resto delle persone. Altre volte non è disponibile per nessuno. Strutture come docce e servizi igienici sono spesso allagate e difficili da utilizzare in condizioni minimamente decenti. Molti abitanti del CETI si incaricano di fotografare queste strutture e di mostrarle con indignazione a giornalisti e operatori delle ONG.

Foto: Robert Bonet
Foto: Robert Bonet

La mancanza di personale specializzato si aggiunge alla lista di rimostranze da parte degli ospiti del centro. Più di ogni altra cosa, si lamentano la mancanza di cure mediche o la scarsa qualità delle stesse, laddove somministrate. Lo stesso vale per il trattamento terapeutico. A soffrire maggiormente di questa scarsa attenzione, ancora una volta, sono i gruppi più vulnerabili: i bambini.

I dintorni del CETI, sia il centro spianato, che il letto del rio Oro, sono a dir poco una discarica. L’immondizia è accumulata lì da moltissimo tempo, e scompare solo quando le persone che vi abitano la bruciano nei falò. È una situazione che, sebbene ormai nella norma, non cessa di essere un problema di salute pubblica. Ad usare questi spazi sono infatti le famiglie e le comunità di rifugiati siriani. E così i loro figli. Giocano lì, circondati da rifiuti che spesso devono scavalcare per continuare a giocare. Tuttavia, seppure in parte inconsapevoli di questa situazione, riescono a trovare il modo di giocare e divertirsi, anche se circondati dalla spazzatura.

Foto: Robert Bonet
Foto: Robert Bonet

Aspettando l’ «uscita»

Così i bimbi siriani trascorrono i mesi a Melilla, in attesa di un lasciapassare umanitario che consenta loro, con le loro famiglie, di andarsene e arrivare, in primo luogo, sulla terraferma; in molti casi essi ambiscono a raggiungere gli altri paesi dell’UE, in particolare Francia, Germania ed Inghilterra, dove normalmente li aspettano gli amici o i familiari.

Fuori, fuori … Yalah (andiamo) fuori” sono le grida indisciplinate e ribelli lanciate dai bambini ogni giovedì pomeriggio, quando arriva il momento in cui le persone scelte per l’imbarco verso la penisola iniziano a lasciare il CETI, cariche di valigie e borse.

Come di norma, le comunità e le famiglie siriane vivono collettivamente questo momento. Orde di persone affollano le porte del centro di accoglienza. E ‘ facile riconoscere i fortunati, non solo per le valigie, ma perché indossano il loro vestito migliore. Sembra più un matrimonio che un imbarco di rifugiati. E non c’è da meravigliarsi. Dopo essere fuggiti dal loro paese a causa della guerra, ed essere rimasti intrappolati a Melilla per diversi mesi in condizioni non dignitose, alla fine raggiungeranno la loro ambita destinazione: l’Europa.

Foto: Robert Bonet
Foto: Robert Bonet

I bambini si aggirano curiosi intorno agli adulti, che si abbracciano. I più piccoli imitano i loro gesti. Cenni di vittoria, canti, grida e sorrisi. Anche loro partecipano a questa ‘cerimonia’ collettiva. Foto di addio, ultimi saluti e lacrime condivise. E infine, il carico di tutte le valigie e borse nei taxi in coda parcheggiati nelle vicinanze del CETI quando c’è l’ “uscita“.

Come sempre, riecheggia il sentimento della comunità, anche tra i bambini. Chi parte e chi resta, tutti si dicono addio da fratelli, anche se forse non si rivedranno mai più. Forse non condivideranno più le cuccette in tenda. Né le docce fredde. Forse non torneranno a ballare e cantare alle porte del CETI tra il via vai di adulti che vi circolano. Forse si dimenticheranno delle serate di giochi tra i rifiuti o attorno ad un falò. O forse si incontreranno in un altro posto, perché no? In un altro luogo più degno, con migliori condizioni di vita e migliori prospettive. Un luogo che rispetti la gioia di un bambino, che tenga conto che la sua tenerezza e innocenza non possono essere messe in gioco. Perché con i bambini non si gioca, se si vuole costruire un mondo giusto. Perché, sicuramente, il CETI di Melilla non è un posto per i bambini.