Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Melting Sport – Breve cronistoria giudiziale tra slanci innovatori ed accidentali ritrosie

a cura dell' Avv. Nicola Saccon

Da un lato un’ eccezionale occasione di incontro, dall’altra un terreno in cui ancora, troppo spesso, esistono ingiustificabili discriminazioni. Lo sport, con il suo carico di passioni, sforzi, ma anche di retoriche e restrizioni è un luogo in cui oggi si misura in maniera palpabile il livello di razzismo della nostra società. Non solo nei cori negli stadi, ma soprattutto all’interno dei regolamenti di alcune federazioni, ritroviamo oggi alcuni tra i più impensabili istituti discriminatori di questo paese.
L’idea che lo sport possa essere occasione di uguaglianza, a prescindere dalla nazionalità, dal colore della pelle, dal possesso o meno di un permesso di soggiorno, confrontata con lo stato attuale delle normative che regolano l’accesso alla pratica sportiva dei cittadini stranieri in questo paese è la molla che ha fatto scattare l’idea di questa rubrica che si propone come una finestra continuamente aperta sulle discriminazioni nel mondo dello sport, ma anche e soprattutto come strumento per superarle, per dar conto di quella mole sempre pià consistente di azioni, iniziative, pronunce che su questo terreno stanno via via scalfendo le restrizioni imposte.

La rubrica, curata dall’ Avv. Nicola Saccon, si offre quindi spazio di analisi e approfondimento sulle normative e sulle novità in materia ma anche come occasione per chi ha a che fare con il complesso mondo dei regolamenti federali per proporre quesiti, segnalazioni, contributi, che possano arricchire questo dibattito centrale per costruire una pratica della cittadinanza che riesca a superare i confini… anche nelo sport. Vi invitiamo dunque a segnalare i vostri contributi a [email protected]. Questo che vi proponiamo è invece il primo approfondimento a cura dell’Avv. Saccon.

La redazione del Progetto Melting Pot Europa

Tutti gli articoli della rubrica


Melting Sport – Breve cronistoria giudiziale tra slanci innovatori ed accidentali ritrosie

Lo sport non può, in ragione della sua incontestabile presenza nella quotidianità delle nostre vite, non svolgere un significativo ruolo in un tema, quello della lotta alla discriminazione, centrale e fondamentale nella ricerca di quella ideale e pacifica convivenza che deve essere l’anelito di qualunque uomo voglia definirsi tale.

Lo sport è in se stesso, storicamente e sociologicamente, uno strumento di conoscenza e confronto del proprio e dell’altrui corpo, delle proprie e delle altrui capacità, dei propri e degli altrui limiti.

Uno strumento di conoscenza di sé e del prossimo, compagno o avversario che sia.
Uno strumento che porta in dote fondamentali elementi in grado di abbattere il vecchio, stantio ed inutile, ma ancora solido, muro della discriminazione. Elementi quali, per l’appunto, la conoscenza dell’altro, ma anche la condivisione della fatica e del sudore in vista di un obiettivo comune, il rispetto per l’avversario e per i suoi sforzi, e poi la condivisione dell’estatica vittoria o della cocente sconfitta, possono valere, ai fini dell’antidiscriminazione, più di tanti ineccepibili discorsi.

Eppure, nonostante tutto questo, ancora molti sono i vincoli discriminatori interni allo sport italiano ed a quello internazionale, lasciti di un passato ambiguo e di concetti che non possono e non devono trovare asilo nella società multietnica e multiculturale in cui viviamo e sempre più vivremo.

Inoltre, solo da un decennio sembra essersi resi conto dell’importanza dello sport, non solo come mezzo, ma anche come fine della lotta alla discriminazione.
I motivi di questo ritardo, di questa timidezza meriterebbero un approfondimento che lo spazio e le conoscenze a mia disposizione non consentono di svolgere appieno, ma che non sarebbe certo tempo sprecato.

Scopo di questo primo, breve scritto è quello di fare una sintesi di ciò che di più significativo è successo nel mondo giudiziario italiano nell’ultimo decennio in tema di sport e discriminazione. Ovviamente si rinvierà ad altri interventi per i dovuti approfondimenti e si ringrazia fin d’ora quanti potranno fornire ulteriori contributi, perché, in effetti, quello della raccolta di materiale è uno dei primi aspetti critici dell’argomento in questione.

Dunque, ed in estrema sintesi.

“Caso Ekong”, Calcio (professionista): divieto tesseramento calciatori non comunitari
Il 27 settembre 2000 Prince Ikpe Ekong conveniva in giudizio la F.I.G.C. lamentando un comportamento discriminatorio posto in essere dalla stessa nei suoi confronti.
Nocciolo della questione era l’art. 40 co. 7 delle N.O.I.F. (Norme Organizzative Interne della Federazione) il quale stabiliva che non potevano essere tesserati atleti non comunitari nelle squadre di serie C, lasciando detta possibilità – sebbene con stringenti limiti numerici- alle sole società di serie A e B. Il giocatore in questione non poteva di conseguenza essere tesserato per la Reggiana, squadra con cui si era accordato, che disputava il campionato di serie C.
Lo strumento utilizzato dal sig. Ekong per far valere i suoi diritti fu quello del ricorso ex art.44 D.lgs 286/98.

A pronunciarsi sulla questione è il Giudice Unico del Tribunale di Reggio Emilia con ordinanza del 2 novembre 2000, il quale stabilisce il diritto del ricorrente ad ottenere dalla F.I.G.C. il tesseramento al fine di poter esercitare professionalmente l’attività calcistica.
Tale decisione trova il suo fondamento, in estrema sintesi, nella considerazione che “l’Ekong è stato quindi escluso dalla possibilità di essere tesserato dalla F.I.G.C. sulla propria origine nazionale di nigeriano”, continua il Giudice “e tale discriminazione ha avuto l’effetto di compromettere l’esercizio di una «libertà fondamentale in campo economico» e, più in particolare, del diritto di esercitare l’attività di calciatore in Italia in quanto la Figc è l’unico soggetto riconosciuto come deputato ad organizzare il gioco del calcio nel territorio nazionale e a provvedere al tesseramento dei giocatori”.
Il Giudice dispone quindi che “il mancato tesseramento del ricorrente trova esclusivo fondamento nell’applicazione da parte della Figc dell’art. 40, 7° comma, Noif, occorre dichiarare in via incidentale l’illegittimità di tale norma per contrasto con il disposto di carattere imperativo di cui all’art. 43 d.leg. 286/98.
Alla declaratoria di illegittimità della norma federale consegue il diritto del ricorrente di ottenere dalla Figc il tesseramento quale calciatore professionista”.

Caratteristica peculiare di questa decisione è l’individuazione nell’esercizio dell’attività calcistica professionistica di una libertà fondamentale in campo economico che non può essere compromessa da norme discriminatorie. Altro interessante passaggio dell’ordinanza richiama, in modo significativo, principi contenuti negli stessi statuti di C.O.N.I. e F.IG.C., sottolineandone l’indole antidiscriminatoria che, evidentemente, viene non poco distorta nella regolamentazione più “tecnica” dell’accesso all’evento sportivo.

Vedi l’Ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia del 2 novembre 2000

“Caso Sheppard”, Basket:
a) limite (due soggetti) tesseramento atleti non comunitari;
b) limite (due soggetti) giocatori non comunitari in campo.

Caso che si sviluppa in due diverse ordinanze.
a) In data 28 ottobre 2000 Jeffrey Kyle Sheppard, cestista statunitense, conveniva in giudizio la F.I.P. (Federazione Italiana Pallacanestro), lamentando un comportamento discriminatorio tenuto dalla stessa nei suoi confronti.
In questo caso ad essere sotto osservazione era l’art. 12 del Regolamento esecutivo della F.I.P. il quale disponeva che potevano essere tesserati non più di due atleti non comunitari per squadra.
Anche in questo caso lo strumento utilizzato dal ricorrente fu il ricorso ex art.44 D.lgs 286/98.
Il Giudice Unico del Tribunale di Teramo- sez. dist. di Giulianova, con ordinanza del 4 dicembre 2000 dichiara l’illegittimità dell’art. 12 del Regolamento esecutivo della Federazione Italiana Pallacanestro “laddove pone dei limiti al tesseramento di giocatori extracomunitari, perché determina una discriminazione sulla base della nazionalità”, con ciò imponendo alla F.I.P. di astenersi da condotte pregiudizievoli nei confronti del ricorrente.

Particolarità di questa decisione sta nel richiamo, a fondamento del carattere discriminatorio dell’art. 12 Reg. es. F.I.P., che il Giudice compie con riguardo, oltre che all’art. 43 Dlgs 286/98 come nel caso Ekong, alla Convenzione di New York del 3 marzo 1966 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale.

Successivamente la F.I.P., a seguito di una interpretazione “singolare” dell’ordinanza di cui sopra, con delibera del 9 dicembre 2000 n. 26 consentiva, in deroga all’art 12 Reg. es. il tesseramento dello Sheppard quale terzo atleta non comunitario della squadra (Roseto Basket Lido delle Rose), ma stabiliva che non potessero giocare contemporaneamente più di due atleti extracomunitari.

b) Avverso tale delibera, ritenendola discriminatoria nei propri confronti, ricorreva nuovamente il sig. Sheppard, con ricorso ex art. 44 Dlgs 286/88, depositato in data 16 febbraio 2001 avanti il Tribunale di Teramo-Sez. dist. di Giulianova.
Il Giudice Unico del Tribunale di Teramo- sez. dist. di Giulianova, con ordinanza del 30 marzo 2001, compie un’attenta analisi dell’art. 43 Dlgs 286/98 per argomentare che “alla luce della citata norma di legge appare evidente come la limitazione posta dalla federazione alla possibilità di disporre in campo nello stesso momento più di due giocatori extracomunitari, abbia contenuto discriminatorio in quanto ancorata esclusivamente su ragioni attinenti alla nazionalità degli atleti.”
Ne consegue che “la delibera in oggetto appare illegittima in quanto in contrasto con l’art. 43 d.leg. 286/98, perché tendente ad attuare un comportamento discriminatorio nei confronti del ricorrente, pregiudizievole del suo diritto a svolgere attività sportiva in Italia in condizioni di parità.”
Quindi, conclude il Giudice, “deve essere dichiarata l’illegittimità della delibera n. 26 del 9 dicembre 2000 con la quale era stata limitata la possibilità di contemporanea entrata in campo a più di due giocatori extracomunitari e conseguentemente ordinata la cessazione del comportamento discriminatorio.”

Vedi l’Ordinanza del Tribunale di Teramo- sez. dist. di Giulianova del 30 marzo 2001

“Caso Hernandez Paz”, Pallanuoto (“dilettante”):
limite (tre soggetti) al tesseramento di atleti “non italiani”

Caso che si sviluppa in due pronunce, in contrasto tra loro.
a) Hernandez Paz, pallanotista spagnolo, ricorreva ex art. 44 Dlgs 286/98 contro la F.I.N. (Federazione Italiana Nuoto) denunciandone la condotta discriminatoria posta in essere nei suoi confronti. La doglianza riguarda il divieto di tesserare più di tre atleti “non italiani” per ciascuna squadra, divieto sancito da una delibera federale del giugno 2000.
Il Giudice Unico del Tribunale di Pescara, con ordinanza del 18 ottobre 2001, in linea con le pronunce sopra viste conclude nel senso “che l’odierno ricorrente — cittadino comunitario, titolare del diritto di stabilirsi in ogni paese Ue, senza limiti di sorta (da qui la palese illegittimità dell’art. 5, 5° comma, dello statuto Fin relativo alla residenza in Italia da almeno un anno) — non può essere escluso dall’attività agonistica presso il Cus D’Annunzio pallanuoto; il rifiuto di tesseramento — formalizzato dalla Fin con nota del 12 ottobre 2001 — è, pertanto, illegittimo, in quanto adottato sulla scorta della limitazione (massimo tre atleti non italiani per società), parimenti illegittima, sancita dalla delibera del consiglio federale del 12 giugno 2001.”

In merito a tale ordinanza preme dare rilevanza ad una considerazione del Giudice riguardante la questione professionismo-dilettantismo dell’attività sportiva, su cui, per i necessari approfondimenti si rinvia a futuri interventi. Ovviamente, nel caso in specie, Pallanuoto di alto livello, la definizione “dilettante” è formale e non certo sostanziale –il carattere professionale o dilettantistico dell’attività sportiva viene deciso “a tavolino” dalle singole Federazioni-, ma ciò che va sottolineato è quanto afferma il Giudice in merito: “Il tenore volutamente «universale» scelto dal legislatore (in riferimento all’art. 43 Dlgs 286/98) consente, poi, di ritenere che ogni attività di rilievo sociale costituisca oggetto di protezione, e non soltanto quella che rivesta un preminente significato economico-professionale.
La distinzione (peraltro assai sfuggente nell’agonismo del nostro tempo) tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva si mostra, pertanto, priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del dilettante”.

Si va, quindi, oltre a quanto sancito nel “caso Ekong” dove ad essere reputato meritevole di tutela era l’esercizio di una «libertà fondamentale in campo economico», ed è proprio su questo “ampliamento” delle situazioni tutelabili ex art. 44 Dlgs 286/98 che entra “a piè pari” una successiva, discussa, pronuncia dello stesso Tribunale, espressa in sede di impugnazione della ordinanza appena descritta.

b) Il Giudice Collegiale del Tribunale di Pescara, con ordinanza del 14 dicembre 2001 accoglieva la doglianza della F.I.N. con la quale la stessa lamentava l’applicazione alla fattispecie di cui sopra della disciplina di cui all’art. 44 Dlgs 286/98, dichiarando il provvedimento impugnato revocato.

Le motivazioni alla base di tale decisione hanno sollevato non poche perplessità. Vale quindi la pena di svolgerne una succinta analisi, rinviando, purtroppo, a futuri approfondimenti, stante il carattere sostanzialmente enunciativo di questo lavoro.

Afferma il Giudice: “Il tribunale ritiene, ciò posto, che la lamentela del giocatore Hernandez è diretta però a far eliminare un pregiudizio ad un bene della vita che non forma oggetto di alcuna delle libertà fondamentali di cui sopra perché né l’art. 2 Cost. né le ulteriori fonti normative di diritto internazionale convenzionale (quali indicate dalla difesa della Fin) e consuetudinario annoverano l’interesse a far pratica sportiva e ad impiegare in tal modo il proprio tempo libero tra le libertà fondamentali dell’individuo (altro è poi che l’interessato abbia un diritto, questo sì fondamentale, di spostarsi all’interno del territorio nazionale per esercitare la pratica sportiva).”
Si tratta di un’argomentazione non condivisibile sotto vari aspetti, di cui in questa se ne indicano sinteticamente due:
– che l’accesso allo sport ed il diritto ad esercitarlo non siano valori costituzionali è orientamento antico, superato dalla dottrina costituzionalistica da vari anni;
– in ogni caso qualsiasi discriminazione dovuta a motivi di razza, etnia, colore, credo religioso viola per definizione il diritto fondamentale a non essere discriminato per quei motivi.

Sostiene inoltre il Giudice: “Né l’interesse tutelato dal ricorrente può poi dirsi ricompreso nel diritto al lavoro e quindi facente parte dei diritti fondamentali perché dalla normativa di settore esibita (cfr. in particolare art. 5 dello statuto della Fin) non si ricava in alcun modo che il campionato nazionale di pallanuoto sia stato organizzato in Italia su base professionistica”.
Anche questa è una considerazione assolutamente non condivisibile, sia perché il carattere dilettantistico o professionistico della prestazione non può, pacificamente, essere dedotto dalla qualifica che le federazioni autodeterminano; sia perché, come affermava il primo Giudice di Pescara, non si comprende “per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del dilettante”.
Par di dove ritenere detta pronuncia (che purtroppo non rimarrà unica), solo uno degli spiacevoli incidenti di percorso sulla strada del libero accesso per tutti all’attività sportiva.

Vedi l’Ordinanza del Tribunale di Pescara del 18 ottobre 2001
Vedi l’Ordinanza del Tribunale di Pescara del 14 dicembre 2001

“Caso pallavolisti cubani”, Pallavolo (“dilettanti”):
tesseramento negato per mancato “tranfert” internazionale dalla federazione cubana.

Altra serie di interventi giudiziali interessò un consistente numero di pallavolisti cubani rivelando, ancora una volta, quell’andamento ondivago delle decisioni in materia di sport e discriminazione già precedentemente descritto.
Per vero la gran parte dei provvedimenti adottati dai giudici aditi sono andati nella direzione tracciata dai casi Ekong, Sheppard e del “primo” Hernandez Paz, ma non è mancata l’eccezione.
Tratto comune nei vari procedimenti, oltre alla nazionalità dei soggetti ricorrenti, era l’aver ottenuto, gli stessi, asilo politico in Italia, ed aver tutti ricevuto il rifiuto del tesseramento da parte della F.I.P.A.V. (Federazione Italiana Pallavolo) a seguito del diniego della concessione del tranfert internazionale da parte della Federazione Internazionale Volleyball, dovuta alla mancata autorizzazione al trasferimento agonistico da parte della Federazione cubana di pallavolo.

Il primo atleta a presentare ricorso ex art. 44 Dlgs 286/98 avanti il Tribunale di Verona fu Ramon Ismael Gato Moya.
Il Giudice Unico del Tribunale di Verona, con ordinanza del 23 luglio 2002, accogliendo il ricorso del sig. Gato Moya dichiarava la sussistenza di un comportamento discriminatorio ai danni dello stesso, lesivo di una sua libertà fondamentale in campo economico, imponendo alla F.I.P.A.V. di porre rimedio a tale comportamento procedendo al tesseramento del ricorrente.
Il giudice ritenne lesiva degli art. 43. lett. d) e 44 Dlgs 286/98 la necessità di autorizzazione da parte delle Federazioni sportive di appartenenza –richiesta per gli atleti extracomunitari- consistendo la stessa in un ingiustificato elemento discriminatorio rispetto agli atleti italiani.
Inoltre lo stesso Giudice riaffermò la sostanziale indifferenza ed ininfluenza della qualifica di professionista o dilettante nell’esame della questione.

Sulla stessa linea si porrà, successivamente, il Giudice Unico del Tribunale di Piacenza, con ordinanza del 23 ottobre 2003 e ordinanza del 15 novembre 2003 in merito ai ricorsi presentati dai pallavolisti cubani Riviero, Mayeta e Borges.

In direzione opposta si muove il Giudice Unico del Tribunale di Roma, con ordinanza del 10 luglio 2002, a seguito del ricorso, sempre ex art. 44 Dlgs 186/98, presentato dal pallavolista cubano Dennis, il quale si trovava in una condizione pressoché identica a quella del sig. Gato Moya.
Tale Giudice nega la sussistenza di un comportamento discriminatorio in capo al ricorrente sostenendo la necessità di una distinzione tra professionisti e dilettanti (e quindi, vien da dire, sostenendo che il dilettante può essere discriminato!) e quindi indicando come fosse una norma sportiva internazionale a sancire la necessità del nulla osta per il tesseramento dell’atleta straniero. Motivazione, quest’ultima, estremamente labile in considerazione, se non altro, del valore superiore del diritto alla non discriminazione nell’accesso alla pratica sportiva sancito negli statuti, fra gli altri del C.I.O., del C.O.N.I. e pure della F.I.P.A.V..

In conclusione.
I “casi” sopra elencati hanno dato vita a quelle che possono essere definite le decisioni “campione” in ambito di sport e discriminazione. Appare evidente che la direzione indicata, salvo piccoli incidenti di percorso, è quella della necessaria equiparazione dei diritti di pratica e di accesso all’evento sportivo tra atleti comunitari ed extracomunitari (sebbene in taluni regolamenti federali si possano ancora trovare differenziazioni tra atleti italiani e non italiani!), ma le questioni aperte sono ancora molte.

Si è accennato ad alcune di queste: differenze professionisti-dilettanti ed eventuali conseguenze con riguardo al diritto all’attività sportiva, possibilità di individuare nella pratica sportiva un diritto fondamentale. Ma ancora altre sono le tematiche da approfondire, alcune più spiccatamente “tecniche”, come ad esempio l’individuazione della portata e dei limiti del ricorso ex 44 Dlgs e del decreto che lo conclude, altre invece sono questioni di carattere “socio-politico” attinenti, ad esempio, alle “strane teorie” che a volte giustificano scelte discriminatorie sulla base di una sbandierata lotta per la salvaguardia dei vivai nostrani e più in generale in merito alle scelte politiche in tema di immigrazione e sport.

Alcuni di questi punti verranno trattati in un prossimo articolo che avrà ad oggetto una recente ed interessantissima decisione, sempre a seguito di un ricorso ex art. 44 Dlgs, del Tribunale di Lodi in merito a ricorso presentato da un giovane calciatore togolese il quale riteneva discriminatorio nei suoi confronti, ai fini del tesseramento, il requisito del permesso di soggiorno valido fino al termine della stagione per la quale chiedeva il tesseramento stesso, come stabilito dall’art. 40 co.11 N.O.I.F. della F.I.G.C..
Detta decisione, Tribunale di Lodi, ordinanza del 13 maggio 2010 è di evidente importanza, oltre che per la completezza e la precisione con cui è redatta, in quanto apre una via nel mondo del calcio dilettantistico, quel calcio di “quartiere” dove, paradossalmente, ci sono più limiti al tesseramento e all’utilizzo di giocatori extracomunitari che non nel calcio professionistico.

In ultima analisi, a titolo di curiosità e proprio in merito alla situazione odierna del calcio professionistico possiamo andare a verificare cos’è poi accaduto a quell’art. 40 co. 7 N.O.I.F. oggetto del “caso Ekong”.
In effetti tale decisione pur dando ragione al ricorrente, ritenendo illegittima la norma che non prevedeva il tesseramento di extracomunitari in serie C, e ordinando quindi alla federazione il tesseramento del Sig. Ekong, non aveva però potuto modificare quel famoso comma 7.

A liberalizzare completamente l’utilizzo in campo di calciatori non comunitari nel calcio professionistico ci ha pensato una interessante Decisione della Corte Federale della Federazione Italiana Gioco Calcio del 04/05/2001, la quale elimina qualsiasi vincolo al numero di extracomunitari impiegabili in campo, lasciando come unico limite il numero di nuovi ingressi (e quindi tesseramenti) annuali. Scelta che, ad oggi, viene effettuata all’inizio di ogni stagione, sulla base di indicazioni del C.O.N.I., dal Consiglio Federale, come può vedersi nel Comunicato Ufficiale n. 3/A, Decisioni del Consiglio Federale, Riunione del 5 luglio 2011, scaricabile dal sito della F.I.G.C..
La citata decisione della Corte Federale della F.I.G.C. merita attenzione anche per il “piglio” con il quale viene analizzata la questione -il carattere discriminatorio dell’art 40 co. 7 laddove limita il numero di calciatori extracomunitari schierabili contemporaneamente- in quanto non si sofferma solo sui diritti economici degli atleti professionisti, ma si spinge fino ad individuare anche dei “diritti civili sportivi”.
Altra particolarità di questa decisione riguarda lo strumento utilizzato dai ricorrenti, si tratta del primo utilizzo della disposizione, ex art 32 co. 5 Statuto F.I.G.C., secondo cui “ogni tesserato od affiliato alla F.I.G.C. può ricorrere alla corte federale per la tutela dei diritti fondamentali personali o associativi che non trovino altri strumenti di garanzia nell’ordinamento federale”.
Tale interessante ricorso endofederale venne inserito nello Statuto nel corso nell’assemblea straordinaria del 14 ottobre 2000, salvo poi essere eliminato in sede di approvazione del nuovo Statuto F.I.G.C. nel corso della assemblea del 22 gennaio 2007.
Merita quindi di essere, prossimamente, letta e approfondita tale decisione della Corte Federale, e di verificare se a seguito del venire meno della previsione dell’art. 35 co. 5 Statuto F.I.G.C. del 2000 sia ad oggi ancora possibile, ed in quali termini, una simile azione di fronte agli organi federali o del C.O.N.I..

Come visto, in materia di sport e discriminazione, argomenti, spunti, criticità non mancano di certo e quindi concludo questa lunga introduzione rinviando ai prossimi interventi e confidando che questo spazio possa diventare anche luogo di scambio di contributi e segnalazioni per chi di queste materie intende occuparsi.