Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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Mi chiamo Jalalabad e ho ottenuto la protezione umanitaria

Come mi sono sentito!?
Pensa, è come se tu fossi fuori dalla questura con un provvedimento in mano: il No della Commissione territoriale al tuo grido di aiuto e di protezione.
Un diniego inaspettato (sei scappato da una zona di guerra, in guerra…) che non riesci a comprendere. Il verbale del diniego è ambiguo, confuso e ti lascia molto perplesso. Per compassione una volontaria della comunità si ferma a decifrare il documento.

A quanto pare, il governo e il Dio della commissione (internet), grazie al suo messaggero (lo schermo) e i suoi comandamenti (convenzione di Ginevra, 1951) non ti vogliono concedere la loro misericordia, e si sa, l’Italia è un paese cattolico, con questa divina decisione, non c’è nulla da fare.
Ti senti cadere dalle emozioni, ma da quelle che manderebbero giù anche un elefante. Quindi ti siedi un attimo, in un angolo della tua stanza, con il cuore gocciolante come una candela, consumato dalla tua paura più grande: morire in qualche esplosione se tornassi (ora) nel tuo paese.

D’improvviso ti cresce dentro una tempesta di ansia che, mentre ti tiene gli occhi spalancati e spenti, affligge corpo e mente di insonnia e preoccupazione. Alla fine (pur sforzandosi), non ti viene nessuna lacrima. E lì, capisci che persino la speranza ti ha abbandonato.
Ma tu, sei forte e resiliente. Ti sei fatto due anni e mezzo di pasta al pesto e quindi non puoi mollare, mai. Salti al collo del tuo educatore e insieme prendete d’assalto lo studio dell’avvocato, sarà lei il tuo difensore, pronti e decisi per la battaglia.

Arrivi al tribunale, non sai bene che cosa pensare. Si va da una giudice, è la tua ultima chance. Ti senti mancare il fiato e le scale per andare dalla giudice diventano delle montagne, impossibili da scalare. Cerchi sostegno in qualche preghiera, nello gris-gris di famiglia, o in qualsiasi sguardo incrociato.
Ti sembra solo di rivivere il salvataggio: «devi stare tranquillo, devi stare tranquillo» ti ripete l’avvocato, anche perché sa che al minimo movimento sbagliato, finisci in mare.

La giudice ti fa entrare, nel frattempo hai ingoiato la tua lingua insieme alla tua storia, capita. A quanto pare, questo non le importa così tanto. Vuole solo assicurarsi che tu abbia acquisito qualche strumento per poterti integrare nel suo paese. E evidentemente sì!
Lo provano i CUD, i certificati di volontariato, la tua buona conoscenza della lingua italiana e le varie relazioni di socializzazione che ti hanno accompagnato. Ti stai integrando, e la tua posizione per quanto fragile, è ancora utile alla comunità.

Riesci a rispondere alle domande della giudice. Avete finito e tu la saluti ma il tono del suo arrivederci la tradisce un po’, forse c’è qualcosa di positivo!

Il giorno dopo ti chiama l’avvocato, la giudice ha deciso. Ha deciso che tu per lei non sei un rifugiato politico secondo una convenzione di più di 60 anni fa ma che tu, banalmente, e fino a prova contraria della commissione, sei un uomo. Chiama la sua decisione: l’Umanitaria.

Sei contento, troppo felice per crederci, urli e salti di gioia, chiami la famiglia, gli educatori, gli amici e tutti quelli che conosci, proprio tutti!!

Alla fine ti tradisce una lacrima che scivola sulla guancia, non perché hai avuto un documento, ma perché per la prima volta, in tre anni di soggiorno in Italia, qualcuno riconosce e ha deciso che tu, ancora prima di essere un rifugiato, sei banalmente, ancora, un UOMO.