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Migration Pact – Un patto pensato per rafforzare l’idea di una Fortezza Europa che è ormai un castello di sabbia

Intervista a Filippo Furri, PhD Università di Montréal

Photo credit: Gabriel Tizon

Nella conferenza di Marrakech del 10 e 11 dicembre 2018 è stato ufficialmente adottato il Patto globale sulle migrazioni (Compact on Safe, Orderly and Regular Migration) promosso dall’ONU con la Dichiarazione di New York del 2016. In forza del suddetto Patto, ferma restando la sovranità nazionale di ciascuno Stato nella definizione delle proprie politiche migratorie, si individuano comuni obiettivi, nell’ottica di una equa condivisione delle responsabilità.

Le vicende degli ultimi anni hanno dimostrato il fallimento totale del Patto globale sulle migrazioni e hanno spinto da più parti alla definizione di nuovi interventi. Nel tentativo di rilanciare politiche comuni di gestione dei fenomeni migratori e una maggiore solidarietà tra gli Stati membri dell’Unione Europea, nei giorni scorsi è stato annunciato il nuovo Patto Europeo su migrazione e asilo.

Si tratta di un documento atteso con grande speranza da parte dei soggetti che in questi anni sono stati protagonisti di azioni e politiche di accoglienza e di sostegno alle popolazioni migranti. Purtroppo, la grande attesa si è presto trasformata in delusione e moltissime sono state le voci critiche che si sono sollevate all’indirizzo dell’Europa.

Abbiamo parlato di questi argomenti con Filippo Furri, chiedendogli di commentare cosa rappresenta il nuovo Patto Europeo 1 dal suo punto di vista.
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Da tempo si parla di una revisione del regolamento di Dublino. La stessa presidente della Commissione europea Ursula Von der Layer lo ha annunciato spiegando il nuovo patto europeo sull’immigrazione. Annunci che sono arrivati all’indomani del grave incendio che ha distrutto il campo di Moria. Che giudizio ti sei fatto sulle politiche europee degli ultimi anni in materia di immigrazione e asilo?

La riforma del regolamento di Dublino, un suo «superamento», era già stato messo sul piatto da Renzi nel 2015, come «compensazione», come condizione a favore dei paesi di «arrivo» di fronte all’introduzione dell’approccio hotspot, e abbiamo visto tutti cosa è successo: gli hotspot sono diventati gli ennesimi luoghi di identificazione, in cui le persone rimangono bloccate in attesa di essere trasferite in altre strutture «transitorie» o espulse, i progetti di «ricollocamento» sono miseramente falliti ed ogni proposta di revisione di Dublino è andata ad irrigidire il dispositivo, a porre ulteriori limiti e condizioni (riforma proposta nel 2016- 2017).

Il fatto che il patto sia stato annunciato nei giorni del terribile incendio di Moria, che rappresenta l’apice dell’aberrazione a cui sono state e sono esposte le persone migranti in Europa e alle sue frontiere esterne (a Moria c’erano 12 mila persone e iniziavano a presentarsi casi di Covid, a causa delle deprecabili condizioni di igiene, di promiscuità, e alla mancanza di assistenza), e che a parte alcuni proclami e qualche proposta di accoglienza per qualche centinaio di persone, per i minori, per i «vulnerabili» – come se non fossero tutti vulnerabili – ; e che questo evento non abbia prodotto un cambio di rotta radicale nelle politiche europee di accoglienza e di gestione della migrazione, con un picco di indignazione mediatica che si è subito placata, come è successo per i drammatici naufragi nel Mediterraneo, questa «coincidenza» ci dice quello che, da persone che si occupano di migrazione e che cercano di tutelare i diritti delle persone migranti, fatichiamo ad integrare: che l’UE, tra blocchi sovranisti e paesi sedicenti «democratici» e portatori di valori universalisti, è invischiata in una lotta per la propria sopravvivenza politica ed economica, all’interno della quale la «gestione della migrazione» è diventato negli anni il fulcro, o quantomeno uno dei temi centrali. Come se la sopravvivenza di una «collettività» europea, artificiale e fittizia, come se la costruzione di una «cultura» europea comune passasse essenzialmente per la delimitazione dei confini, la loro difesa e militarizzazione, e per l’esclusione (e la marginalizzazione al suo interno) di culture minoritarie, di stranieri «non conformi» alle norme, di «extracomunitari», con tutte le accezioni ambigue di questo termine, ecc.

Sostanzialmente, siamo di fronte all’applicazione, alla traslazione dei principi sovranisti/nazionalisti a scala europea, mentre l’UE, proprio grazie alla sua storia e alla sua eterogeneità interna, dovrebbe – potrebbe – inventare, costruire un modo nuovo di pensare la cittadinanza, l’appartenenza, alla residenza. Dobbiamo ricordare che l’attuale presidente della Commissione, insediandosi, ha proposto (settembre 2019) che Schinas, Commissario con delega alla sicurezza e all’immigrazione, si occupasse della «protezione dello stile di vita europeo».

Per quanto riguarda la dimensione «interna» del patto, penso che sia significativo il fraintendimento relativo alla nozione di solidarietà: non c ‘è nessuna idea di solidarietà nei confronti dei migranti, né degli attori che li tutelano, la solidarietà è semplicemente il termine complementare a «responsabilità» nel tentativo di equilibrare l’implicazione dei vari paesi e di gestire una crisi strutturale profonda (si veda il rifiuto del patto da parte del blocco di Visegrad). Il patto non riguarda altri che i paesi dell’UE e al massimo i partner esterni impegnati a garantire l’approccio «globale» alla gestione migratoria, che è il nuovo nome dato alle politiche di esternalizzazione.

Le concessioni minime al rispetto del diritto internazionale, come i riferimenti ai diritti fondamentali ecc, da una parte fanno parte della retorica «umanitaria» dell’UE, nel suo farsi ipocritamente carico del rispetto dei diritti umani «altrove» (ex Libia), e dall’altro sono elementi «di copertura», che vanno a «indorare la pillola», a «impacchettare» un accordo che non va assolutamente nel senso della solidarietà come la intendiamo noi, e che concretamente non propone niente di nuovo, niente di speciale, nemmeno riguardo l’abolizione/il superamento del regolamento di Dublino, ma che invece, come era prevedibile, va nella direzione tracciata dalla politica migratoria UE degli ultimi anni: più controlli alle frontiere esterne, più esternalizzazione e finanziamenti a chi se ne deve occupare, meno «ingressi», nessuna menzione a canali umanitari o vie di accesso alternative, incentivi alle espulsioni e ai rimpatri.

La novità di questo patto è che cerca di mettere d’accordo le varie fazioni interne, e in questo senso è innovativo; ma lo è verso il basso, con proposte ancora più penalizzanti per le persone in migrazione, ancora una volta a rinforzare l’idea di una Fortezza Europa, che al suo interno ormai è un castello di sabbia.

Quanto accade in Europa è molto grave. Quotidianamente le associazioni internazionali e le ONG denunciano la violazione dei diritti umani. Enormi problemi si registrano sia rispetto alla situazione che si è venuta a determinare lungo la c.d. rotta balcanica sia nel Mediterraneo. E’ solo una questione normativa che si può risolvere con la modifica dei regolamenti europei oppure vi è una più profonda questione politica e culturale?

Le violazioni a cui fai riferimento sono più esplicite e lampanti nelle zone di frontiera o in regioni di «transizione» come i Balcani, perché in un certo senso il «regime di frontiera» offre da una parte meno «visibilità» e quindi più margini per pratiche-limite, ma il repertorio di violazioni e non rispetto dei diritti fondamentali, pratiche o politiche discriminanti e marginalizzanti, violenza esplicita o implicita, che si intrecciano con forme di razzismo e xenofobia sempre più evidenti, si ritrova dovunque, in aree urbane e rurali, tra sfruttamento lavorativo, esclusione sociale, discriminazione amministrativa ecc.

Dunque anche se fossimo di fronte ad un patto rivoluzionario, focalizzato su accoglienza, integrazione e tutela dei diritti fondamentali, dovremmo fare i conti con un clima generale di diffidenza e insicurezza rispetto alla migrazione, il solito mix di ignoranza e paura che mobilizza alternativamente argomenti come invasione o contagio, alimentato da media e politica.

Il problema è chiaramente culturale, politico, e il fatto, come dicevo prima, che per «contrastare la migrazione» si mobilitino organizzazioni come generazione identitaria, invocando una fittizia identità europea esclusiva (con argomenti storici, biologici, demografici totalmente inconsistenti) da difendere di fronte a progetti di «invasione» e di «sostituzione etnica» (il «famoso» piano Kalergi), sarebbe risibile se la stessa Von Der Layer non avesse parlato di «difesa dello stile di vita europeo».

Le istituzioni europee e nazionali, purtroppo, in questi anni hanno contribuito a discriminare la migrazione, o un certo tipo di migrazione, riducendo progressivamente da una parte le vie legali di accesso, in particolare per ragioni professionali lavorative o familiari, dall’altra restringendo l’accesso alle procedure d’asilo e alla protezione internazionale, e in generale limitando i margini di mobilità e circolazione delle persone. Al di là di alcune categorie (in genere, i ricchi) e di alcune provenienze (basta andare a vedere le «mappe» che raccontano il valore differenziale dei passaporti e gli accessi ai visti), le persone «migranti» sono concepite come «indesiderabili», e dunque «criminalizzate» e clandestinizzate, rese irregolari, oppure «vittimizzate », limitate ad un’esistenza marginale da «vulnerabili»: individui sfruttabili da una parte – e quindi «attivi» solo come pura forza lavoro senza diritti – e «disattivati» dall’altra, cioè neutralizzati nel loro potenziale di agency, resi passivi, esclusi dalle dinamiche di coabitazione e di partecipazione. Non è un caso che le politiche di integrazione, in termini di accesso a diritti e a «strumenti» della coabitazione, siano sempre meno al centro del dibattito, e siano marginali anche in questo nuovo patto, e che tutte le attenzioni siano consacrate a rendere più efficaci espulsioni e rimpatri.

A proposito del nuovo “Patto europeo sull’immigrazione”, lo scorso 11 settembre la vicepresidente della commissione, Margaritis Schinas, ha dichiarato che l’obiettivo finale è quello di impedire agli stranieri di entrare sul territorio europeo attraverso accordi con i paesi extraeuropei di origine e di transito e con un investimento sull’agenzia per il controllo delle frontiere esterne. Come giudichi queste dichiarazioni? Cosa dobbiamo aspettarci una diffusione del modello sperimentato in Libia?

La dimensione «esterna» della gestione della migrazione, con l’esternalizzazione delle misure di controllo delle frontiere e di contenimento della mobilità prima, e progressivamente anche con un discorso di esternalizzazione dell’asilo, cioè con l’idea che si possa decidere fuori dall’UE chi avrà accesso alla protezione internazionale al suo interno, è un elemento preponderante delle politiche UE da diversi anni: in parallelo all’investimento di somme sempre più ingenti per sviluppare l’agenzia per il controllo delle frontiere, che continuano a chiamare Frontex, la sua militarizzazione, l’utilizzo di tecnologie di intercettazione e di controllo sempre più all’avanguardia, l’aumento di contingenti, un progressivo orientamento verso «l’analisi dei rischi» e l’estensione anche geografica del suo campo d’azione 2 – soldi che potrebbero chiaramente essere spesi altrimenti, ad esempio investendo in percorsi di integrazione -, una delle priorità dell’UE da almeno 15 anni, che si sovrappone alle politiche bilaterali degli Stati membri, è lo sviluppo di un «approccio globale alla migrazione e alla mobilità» – stesso linguaggio dell’IOM – che coinvolga progressivamente i paesi di transito e di partenza, in particolare con lo sviluppo delle politiche di vicinato a sud e ad est.

Questa politica si sviluppa mobilizzando la retorica «neo-coloniale» degli aiuti allo sviluppo, ma sempre più condizionati, come abbiamo visto con la Tunisia recentemente, ad una serie di «obblighi» in materia di controllo e gestione della migrazione, e più in generale ad un ‘intromissione più o meno latente dell’UE nelle dinamiche di politica interna dei paesi di transito o di partenza: l’idea di una «condivisione di intenti» con questi paesi fa parte del dispositivo retorico dell’UE, perché tutto è pensato in prospettiva eurocentrica, per disincentivare la migrazione sviluppando argomenti e strumenti di deterrenza, finanziando i paesi di transito perché controllino, rallentino, blocchino le persone in transito con gli strumenti che hanno a disposizione, o che offriamo loro con laute sovvenzioni, per esempio attraverso il Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa 3.

Quello che accade in Libia oggi è un caso-limite, una degenerazione di queste politiche di esternalizzazione ad ogni costo, affidata a governi o regimi che non esitano ad utilizzare tutti i mezzi per «assolvere» al compito che è stato affidato loro, al lavoro sporco per i quali li sovvenzioniamo. Con la Libia, tutto è «iniziato» con Berlusconi nel 2008, e le «condizioni» iniziali dell’accordo ricordano molto quello che oggi l’UE va chiedendo ai paesi terzi: noi vi finanziamo questo e quello, in cambio voi fermate i migranti: sul come non ci si è mai veramente interrogati. Il problema è che in alcuni situazioni l’UE e i paesi membri direttamente implicati, come l’Italia e la Francia nel caso della Libia, sono stati risucchiati in una spirale di dipendenza che ha prodotto accordi sempre più indifendibili politicamente ed eticamente, soluzioni ipocrite e fittizie come la creazione di una SAR zone libica sotto la responsabilità di una Guardia costiera che integra rappresentanti tribali e trafficanti, e che ha messo in imbarazzo le istituzioni europee di fronte a casi confermati e documentati di torture e violazioni sistematiche dei diritti umani perpetrate all’interno di veri e propri campi di concentramento.

Non definirei quindi un modello quello libico, il «modello» è piuttosto quello turco, che si sta cercando di replicare un po’ dovunque, con condizioni e tempi che dipendono dalla forza di negoziazione dell’interlocutore (Tunisia, Marocco, Algeria, Egitto, ecc). Il modello è quello delle politiche europee di vicinato, e dell’approccio globale alla migrazione e alla mobilità, calibrato a seconda delle condizioni geopolitiche specifiche e delle «zone di influenza» dei diversi paesi dell’UE, in Niger, in Sudan, in Mali ecc..

Diciamo che in una prospettiva di chiusura/protezione in cui la finalità esplicita è quella di ridurre in tutti i modi il numero di persone che raggiungono l’UE, la violenza esplicita del regime di frontiera, la «frontierizzazione» cinica del Mediterraneo, che è sempre più un luogo di morte, di «invisibilità», di arbitrarietà, di violazione dei diritti fondamentali e delle norme internazionali, rappresenta l’ultimo livello di una serie di «ostacoli» alla mobilità umana prodotti o sovvenzionati dall’UE a partire dai paesi di origine.

Una prima analisi del Patto UE sull’immigrazione e l’asilo mi porta a dire che ancora una volta la maggiore preoccupazione dell’Europa è quella di difendere i confini come se fosse in atto un’invasione. Mi sembra che si tratti della peggiore impostazione che si potesse dare a questo Patto. Credo invece che le politiche europee dovrebbero essere improntate ad aumentare i canali di accesso e di permanenza in Europa e quindi incentrarsi su una gestione delle frontiere radicalmente diversa. E’ utopico pensare a una impostazione di questo tipo?

Per un’analisi più tecnica del Patto, e delle sue implicazioni politiche, ti rimando al lavoro fatto tra gli altri da Asgi in Italia 4, da Sara Prestianni con EuroMed Rights 5, e da altre organizzazioni come il GISTi in Francia, o il CNCD111111 in Belgio 6; possiamo valutare già ora le prime reazioni estremamente critiche di ONG, mondo associativo e società civile per quanto riguarda la dimensione freddamente pragmatica della proposta, che cerca di «mettere d’accordo» le diverse fazioni all’interno dell’UE e a rassicurare/convincere i partner terzi sul fatto che anche la loro prospettiva conta qualcosa.

Le prime critiche interne stanno già emergendo in questi giorni, e anche dai paesi terzi la ricezione del patto non sta facendo faville. Il lato positivo è che si tratta di una proposta di accordo, che deve essere discussa in Parlamento e che, come notava Sara Prestianni, è passibile di essere rivista e modificata, si spera in meglio. In questo senso, attivisti e associazioni sono impegnate da subito a spingere, tecnicamente e politicamente, perché si possano articolare controproposte significative, che siano politicamente percorribili e che provvedano a modificare sensibilmente la tendenza alla chiusura che purtroppo è quella che si è progressivamente imposta negli ultimi anni. E non credo che, con lo spettro pandemico indebitamente associato alla migrazione da partiti xenofobi e populisti, sia un percorso semplice.

Diciamo che dal punto di vista politico pragmatico, oggi, c’è ancora un gran lavoro da fare, e che questo lavoro va fatto tenendo come obiettivo a lungo termine una modifica radicale delle impostazioni attuali della politica UE in materia di immigrazione: vie di accesso legali, diversificate e costruite anche partendo da un profondo lavoro culturale e politico e interno di ripensamento dello spazio europeo come luogo di incontro, di coabitazione, di pluricultura, di libertà; un lavoro che presuppone evidentemente un modo alternativo di concepire la frontiera, che non può essere un ostacolo mortifero ma dovrebbe essere testimone, luogo di passaggio di un’umanità con un accesso non discriminato alla mobilità; un lavoro che presuppone anche una riflessione che, in un ottica di «bene comune» e condiviso, concepisca il miglioramento delle condizioni di vita nei paesi di partenza, che spesso sono una delle ragioni fondanti della migrazione, non come uno strumento di ricatto neocoloniale, di controllo e di sfruttamento delle risorse, ma come un’opportunità di migliorare la vita di tutti/e.

Temo che ad oggi questo sia ancora un orizzonte utopico, ma che non per questo dobbiamo abbandonarlo.

Dobbiamo andare in questo senso, e sfruttare ogni possibilità per cercare di far cambiare rotta ad una UE che continua a predicare valori di democrazia e di libertà e che concretamente non perde occasione per connotarsi come uno spazio di esclusione e di privilegi.


  1. https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/promoting-our-european-way-life/new-pact-migration-and-asylum_en
  2. http://www.migreurop.org/article2907.html
  3. https://www.migreurop.org/IMG/pdf/migreurop_note_7_ita.pdf
  4. https://www.asgi.it/primo-piano/cosa-vogliamo-nel-nuovo-patto-ue-su-migrazione-e-asilo/
  5. https://euromedrights.org/publication/eu-pact-on-migration-fresh-start-for-human-rights-violations/
  6. https://www.meltingpot.org/Il-patto-europeo-sull-asilo-e-le-migrazioni-non-ha-tratto.html

Avv. Arturo Raffaele Covella

Foro di Potenza.
Sono impegnato da anni nell’ambito della tematica del diritto dell’immigrazione, con particolare attenzione alla protezione internazionale e alla tutela dei lavoratori stranieri. Collaboro con diverse associazioni locali che si occupano di migrazioni. Scrivo per diverse riviste.