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Moria, filo spinato e droga: inferno greco per migranti

Angela Ricci, Il Manifesto - 12 gennaio 2020

Photo credit: Lesvos calling

Moria, isola di Lesbo – Ancora una tragedia dei migranti ieri nel mar Egeo, con il naufragio di un’imbarcazione che ha causato la morte di almeno 12 migranti, tra cui alcuni bambini. Ci sono 21 superstiti, salvati dalla Guardia Costiera che precisa che le operazioni di salvataggio continuavano a sud est dell’isola greca di Paxi, ma ci sarebbero anche molti dispersi, pochissime le speranze di trarli in salvo, perché a bordo dell’imbarcazione ci sarebbero stati almeno 50 migranti, alcuni dei quali pare fossero afghani. Secondo Unhcr, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, nel 2019 sono stati 74.500 i migranti passati dalla Turchia alla Grecia, molti finiti sulle isole, in particolare a Lesbo.

E infatti a Lesbo c’è una giungla, la stessa di Calais. Umanità alla deriva, come nel Mediterraneo. Un vero inferno, a 2.000 chilometri da Bruxelles. «Non abbiamo acqua, non abbiamo elettricità. Moria problem!». Così i ragazzini dell’enorme campo profughi, nell’isola greca di fronte alla Turchia, che hanno guidato la protesta nei giorni scorsi mentre gli adulti andavano a recuperare legna fra gli ulivi per garantirsi, almeno, il minimo di calore e luce durante la lunga notte che non passa mai.

Gli attivisti del Nord Est e i volontari di Lesvos Calling (fra cui Stefano Ferro, consigliere comunale di Coalizione Civica a Padova) sono tornati a Moria all’insegna della solidarietà espressa anche riempiendo furgoni con i generi di prima necessità. Alle donne e alle ragazze è stato consegnato il “kit” con assorbenti biodegradabili, detergente e abbigliamento intimo: la campagna di finanziamento dal basso a sostegno dell’iniziativa, gestita da Banca Etica, aveva superato i 4 mila euro.

La situazione a Moria sta continuando a deteriorarsi, giorno dopo giorno. È entrata in vigore la nuova legge del governo di Atene e si ripetono, soprattutto all’alba, i rastrellamenti della polizia greca «a caccia» di chi non ha documenti o è stato «bocciato» (spesso senza nemmeno saperlo) nella richiesta di asilo.

I CONTAINER-PRIGIONE all’interno della “zona rossa” – protetta da muri e filo spinato – sembrano ormai più che sovraffollati. E gira la voce incontrollabile di un suicidio e di episodi di autolesionismo fra chi rischia il rimpatrio o, peggio, il respingimento in Turchia. «Rispetto alla mega-tendopoli di Idomeni nel 2016, nelle isole dell’Egeo le condizioni sono vieppiù peggiorate», sottolinea Marco Sirotti di Melting Pot Europa, «È impossibile non vedere quanta droga gira nel campo, insieme agli psicofarmaci prescritti con ricetta dagli operatori della zona controllata istituzionalmente. E se al confine fra Grecia e Macedonia i migranti erano bloccati sul binario ferroviario da un confine presidiato, a Moria la loro prospettiva è solo l’isolamento in una sorta di lager dove si aspetta da anni un destino che lascia indifferente l’Europa».

In poche settimane, le tensioni si sono moltiplicate. Dietro i “mercatini” di una città straniera a pochi chilometri da Mitilene, la capitale dell’isola, c’è il racket che controlla la vendita dei bancali come la prostituzione minorile. E se le Ong di mezzo mondo si sforzano di offrire sopravvivenza in una gigantesca catastrofe umanitaria, i pasti “ufficiali” vengono distribuiti in vere e proprie gabbie oppure mancano le cure mediche più elementari specialmente ai neonati.

«THE JUNGLE is for animals, not for humans», ripetono gli abitanti del campo di Moria.

Aegean Boat Report (fondata nell’estate 2015 dal norvegese Tommy Olsen) contabilizza nelle statistiche di fine anno 26.974 arrivi a Lesbo, a bordo di 726 imbarcazioni: nel 2018 i migranti approdati erano stati 14.969 con 371 fra gommoni e piccole barche. La guardia costiera turca nel 2019 – in base all’accordo con l’Unione europea – ha bloccato nel Mar Egeo altri 3.140 migranti all’inizio della traversata, su 973 imbarcazioni. In totale sono 21mila i migranti nel campo di Moria che chiedono – molti da più di due anni – di entrare in Europa.

La costa di Skala Sikamineas è un paesaggio eloquente: bottigliette di plastica, relitti dei gommoni, giocattoli, indumenti, giubbotti di salvataggio. E il mare quotidianamente restituisce pezzi del puzzle di storie, vite, identità che hanno sfidato le onde nell’ultima tappa della lunga fuga.

Sulla cima del monte, un ex caseificio abbandonato è stato trasformato in centro di prima accoglienza: aree protette, un piccolo ambulatorio, il magazzino di vestiario. Nei giorni scorsi l’associazione Lighthouse Relief ha potuto contare sull’aiuto della delegazione italiana per poter rimettere in funzione la warehouse che era stata bersaglio di una serie di vandalismi.

Il bollettino di dicembre pubblicato da Lighthouse Relief (che garantisce soccorso e assistenza durante gli approdi dei gommoni lungo la costa nord di Lesbo) parla di 2.034 persone, di cui 525 bambini e 210 minori non accompagnati.

FINO A MORIA, è arrivato anche un ex soldato iraniano. Ha disertato dopo aver combattuto le truppe di Daesh. Si ritrova la cicatrice nel ventre squarciato da una lama. E con mille peripezie alle spalle nella lunga Odissea comune a chi fugge dal Medio Oriente fatica a capire com’è la sua nuova vita in quest’angolo di Europa. Deve soprattutto nascondersi, più invisibile degli altri invisibili del campo che dall’autunno si è allargato a dismisura.

La netta maggioranza dei migranti riproduce in terra greca le diverse etnie dell’Afghanistan. Gli ultimi arrivati hanno “colonizzato” un’intera collina di ulivi, dove si accumulano montagne di rifiuti che per altro contrappuntano l’intero campo di Moria. Paradossalmente, proprio gli afgani rischiano di essere rimpatriati in quello che è definito come «Paese sicuro». Alcune famiglie occupano i container Unhcr, ma molti uomini e ragazzi sono costretti in tenda con l’inverno che avanza.

Curdi, siriani, iracheni cercano di riprodurre le rispettive comunità. Non mancano gli africani che si riuniscono anche in preghiera, ma che a volte innescano scintille di risse. Si ritrovano tutti insieme in fila davanti al compound della burocrazia biblica, cui sono affidate le pratiche di asilo sempre più spesso sprovviste di un’effettiva assistenza legale (in particolare nel caso dell’unico ricorso possibile).

«Noi continuiamo a lavorare con i migranti, anche nelle assemblee e nei luoghi in cui sono loro i veri protagonisti: corsi di ogni genere, laboratori creativi, ristorazione, spazi di inclusione», racconta una giovane turca che ha dovuto (e scelto) di vivere a Lesbo, «Mosaik, Medici senza frontiere o Hope Project lo dimostrano. I migranti qui non sono soltanto individui invisibili che hanno accettato il loro destino tragico e aspettano l’aiuto degli occidentali. Fra Natale e Capodanno, non sono mancati momenti di festa con tavole aperte offerte dai greci».

E a Moria torneranno presto gli attivisti e i volontari del Nord Est, che a febbraio saranno anche lungo la rotta balcanica di quest’esodo biblico verso l’Europa.

#Lesvoscalling

Una campagna solidale per la libertà di movimento
Dopo il viaggio conoscitivo a ottobre 2019 a Lesvos e sulla Balkan route, per documentare e raccontare la drammatica situazione sull'isola hotspot greca e conoscere attivisti/e e volontari/e che si adoperano a sostegno delle persone migranti, è iniziata una campagna solidale lungo la rotta balcanica e le "isole confino" del mar Egeo.
Questa pagina raccoglie tutti gli articoli e il testo di promozione della campagna.
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