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Rubriche: Radio Melting Pot, In mare

«Nel Mediterraneo continua una guerra spietata contro le Ong e contro i naufraghi»

Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo, Associazione Diritti e Frontiere

Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, già docente di Diritto di asilo presso l’Università di Palermo, è vicepresidente di Adif (Associazione Diritti e Frontiere) e componente della Campagna LasciateCientrare. Opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, in collaborazione con diverse organizzazioni non governative. Esponente della Requisitoria finale nella sessione di Palermo del Tribunale permanente dei popoli.

L’intervista è stata curata da Arturo Raffaele Covella per "Borders", una trasmissione di Radio Melting Pot dedicata al tema delle frontiere.

di Avv. Arturo Raffaele Covella

Proseguono con estrema difficoltà gli sbarchi di migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale, anche se è in atto un nuovo accanimento contro le Ong che prestano soccorso in mare. Un tema che hai affrontato anche in alcuni articoli usciti nei giorni scorsi. Puoi raccontare cosa sta succedendo nel Mediterraneo?

La situazione nel Mediterraneo centrale quanto ai soccorsi operati tanto dalle Ong tanto dalle autorità statali è sempre più critica. Innanzitutto perché la collaborazione con la Guardia costiera libica sta comportando che migliaia e migliaia di persone vengono bloccate anche in acque internazionali e riportate a terra in Libia dove subiscono torture e abusi di ogni genere. Questo con il contributo fattivo dell’Italia con la missione NAURAS di base a Tripoli e dell’Unione europea che finanzia dal punto di vista economico le attività di controllo di Frontex, nonché delle autorità italiane e maltesi che collaborano con le autorità libiche per le intercettazioni in mare. E poi c’è da osservare la situazione, abbastanza nascosta all’opinione pubblica, degli abbandoni in mare che si verificano soprattutto quando le imbarcazioni in mare che partono dalla Libia, ma ultimamente anche dalla Tunisia, raggiungono le acque internazionali perché Malta generalmente non interviene, o se interviene lo fa con respingimenti in Libia su pescherecci sostenuti dal governo maltese ma di fatto senza bandiera.

Una pratica illegale che i maltesi hanno esplicitamente ammesso almeno sino a qualche mese fa. L’Italia invece non risponde puntualmente in acque internazionali sulle richieste di intervento da parte delle Ong perché si tratta di imbarcazioni che necessitano soccorso ma che sono al di fuori delle acque territoriali. Le nostre acque territoriali nel canale di Sicilia sono molto limitate. Sono soltanto estese sino a 12 miglia a sud di Pantelleria e Lampedusa e quindi in questo modo non ci sono interventi in acque internazionali da parte della nostra Guardia costiera.

Recentemente la nostra Guardia costiera ha inviato un telex all’Alan Kurdi di Sea Eye dicendo che non aveva motivo di intervenire perché il soccorso era richiesto in acque internazionali e loro non erano tenute a coordinare l’intervento e questo, evidentemente, espone al rischio di perdere la vita per migliaia di persone. Ma evidentemente si collega anche al fenomeno degli sbarchi autonomi.

Molte imbarcazioni arrivano comunque a Lampedusa senza essere soccorse da alcun mezzo pubblico o privato che sia e, in ogni caso, è un inadempimento del diritto internazionale del mare perché tutte le convenzioni (in particolare la Convenzione di Amburgo del 1979 e le linee guida operative collegate a questa) impone agli Stati un dovere di coordinamento. Se c’è una chiamata di soccorso, ammesso anche che uno Stato non possa intervenire o non abbia i mezzi per farlo, gli Stati che hanno zone Sar limitrofe devono intervenire.

Non è possibile ammettere che ciascuno Stato dichiari che interviene all’interno delle proprie acque territoriali e abbandoni al destino di morte o di sequestro da parte dei libici migliaia di persone. Quest’anno i libici hanno ripreso più di 8mila persone che erano partite dalle coste libiche, fuggendo dai campi di detenzione e tortura, e sono state riportate esattamente in questi posti in mano alle milizie.
I recenti documenti europei in qualche modo lasciano trasparire, in particolare una raccomandazione della Commissione europea del 23 settembre, che si è legata anche alla bozza del Patto europeo sull’immigrazione (perché ancora bozza rimane), il riaffermarsi della necessità di non riportare le persone nei posti dove possono subire trattamenti inumani e degradanti, e ricorda anche quel dovere di coordinamento tra le autorità Sar imposto dalle Convenzioni internazionali.

Resta da vedere come questa raccomandazione della Commissione europea sarà recepita dai singoli Stati in un momento in cui le attività delle Ong sono bloccate dai fermi amministrativi stabiliti dalle Capitanerie di porto. Di fatto le Ong, in questo momento, operano con pochissimi mezzi e riescono a soccorrere pochissime persone. C’è da vedere, dicevo, come questo dovere di coordinamento sarà realizzato, tenendo conto che continua una guerra spietata contro le Ong e contro i naufraghi che queste organizzazioni potrebbero salvare e che invece vengono abbandonati in mare per la mancanza di mezzi di soccorso.

Photo credit: Flavio Gasperini, Sos Mediterranee

Nei tuoi interventi sempre puntuali e pungenti, denunci le sistematiche violazioni del diritto internazionale che vengono commesse dalle autorità italiane ed europee nel Mediterraneo. Si tratta spesso di violazioni macroscopiche che è difficile ignorare, ma che con il governo Conte-bis ha meno presa sull’opinione pubblica e sui media.
Quale può essere il modo per obbligare il governo e l’Unione europea a rispettare gli obblighi internazionali di soccorso?

L’Italia ha violato negli anni in diverse occasioni i doveri di soccorso stabiliti dalla convenzioni internazionali. Il caso più eclatante è il respingimento in Libia nel maggio del 2009 di decine di naufraghi che poi hanno potuto fare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e hanno ottenuto una condanna dell’Italia per avere violato il divieto di trattamenti inumani e degradanti eseguendo con un proprio mezzo (una motovedetta della Guardia di Finanza) il respingimento direttamente nel porto di Tripoli. Da allora, dopo la condanna del 2012 da parte della CEDU, si è accentuata quella procedura di esternalizzazione del controllo di frontiera che poi è diventata anche oggetto di politica europea con accordi diretti con i diversi governi libici e con la guardia costiera libica e quindi, piuttosto che eseguire direttamente i respingimenti, il Governo italiano e anche quello maltese hanno accentuato con la benevola sorveglianza di Frontex, che ha dei mezzi aerei che avvistano le imbarcazioni in difficoltà e le segnalano alle centrali di coordinamento delle Guardie costiere dei Paesi più vicini, la collaborazione con le autorità libiche e con la sedicente guardia costiera libica. In questo modo, attraverso questa esternalizzazione in favore della Guardia costiera libica, da un punto di vista di responsabilità internazionale l’Italia si è sottratta come Malta ad altri ricorsi davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma nei fatti si è ottenuto lo stesso risultato che le convenzioni vieterebbero e cioè che le persone intercettate in acque internazionali fossero riportate in un Paese nel quale rischiano di subire trattamenti inumani e/o degradanti. Poi abbiamo tutta una serie di violazioni più specifiche legate anche al nostro diritto interno, al nostro diritto penale e al codice della navigazione.

Per alcune di queste sono in corso processi, penso al caso Open Arms e al caso Gregoretti che vede imputato Salvini a Catania per quanto riguarda la fase finale delle operazioni di soccorso. L’Italia ha ritenuto, per esempio, che la fase di sbarco e la individuazione del porto di sbarco sicuro non fosse competenza del Paese avvertito per primo e intervenuto per primo nel coordinamento dei soccorsi, ma fosse competenza del Paese di bandiera della nave che interveniva per prima a fare il soccorso. Questo ha determinato il ritiro di gran parte dei mezzi di Frontex che erano di Paesi europei diversi, che evidentemente non volevano subire l’ingresso nei loro territori del numero allora molto consistente di persone soccorse in mare che venivano sbarcate in Italia. In una seconda fase, la teoria sbagliata dello Stato di bandiera è stata applicata anche da parte della ministra Lamorgese nei confronti delle Ong, come se la nave battente bandiera tedesca dovesse arrivare ad Amburgo a sbarcare i naufraghi soccorsi a 40 miglia a sud di Lampedusa.

Tutto questo è stato smentito innanzitutto dal diritto internazionale che non prevede il criterio dello Stato di bandiera ma stabilisce che lo sbarco deve avvenire nel porto sicuro più vicino rispetto al luogo nel quale è avvenuto il soccorso, in modo anche da liberare il più rapidamente possibile la nave soccorritrice. E questo è un tema che riguarda in particolare i soccorsi operati dalle Ong, ma anche dalle navi commerciali che sono state bloccate per settimane, ultimo caso quella della Etienne del gruppo Maersk, con gravi ripercussioni anche sui rapporti commerciali, tanto che adesso la Maersk, la multinazionale, sta approfondendo l’argomento per agire contro questo tipo di stop delle autorità.

Lo sbarco deve avvenire subito dopo il soccorso in mare nel Paese più vicino. Altra cosa è che poi le persone portate a terra devono essere considerate naufraghi e non clandestini e devono essere identificati secondo le procedure che stabilisce la legge (art. 10 del Testo Unico Immigrazione violato in occasione dello sbarco della Gregoretti e dello sbarco della Open Arms).

Le persone non possono essere tenute a tempo indeterminato su una nave, ancorché una nave militare, per trattative con i Paesi europei ma devono essere sbarcate subito e successivamente, anche dopo trattative con i Paesi europei, trasferite, se ci sono le condizioni, verso altri Paesi europei. Ma non possono essere trattenute come ostaggio sulle navi, siano esse commerciali, rimorchiatori o delle Ong, per aspettare una decisione europea che al momento è difficile che arrivi tempestivamente perché il regolamento Dublino non è stato modificato per i voti decisivi della Lega e del M5S dello scorso anno, prima che si sciogliesse il Parlamento europeo, e oggi le prospettive di modifica del regolamento Dublino o di trasferimento dei richiedenti asilo presso altri Paesi europei sono estremamente dubbie, considerando anche il carattere fumoso che su questi punti mantiene il Patto europeo sulle migrazioni presentato il 23 settembre, e considerando anche la scarsa propensione di tutti i Paesi europei ma soprattutto dei Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) a ricevere in trasferimento persone sbarcate sulle coste del Mediterraneo.

Quindi, è auspicabile che ci siano regole comuni, è auspicabile che ci sia un gruppo di coordinamento, è auspicabile che ci sia una condivisione degli oneri e una maggiore solidarietà tra i Paesi europei, ma al momento l’unica solidarietà che si vede è quella relativa alle politiche di rimpatrio, alla creazione di centri di detenzione tanto nei Paesi di transito, con finanziamenti europei, tanto nei paesi più esposti dell’Unione europea, quindi in Grecia con la ricostruzione del campo di Lesbo e con iniziative che si propongono in Italia per riaprire i Cpr con i finanziamenti europei.

Il quadro è molto fosco perché a livello europeo non ci sono iniziative che sono tali da garantire un maggior rispetto dei diritti umani dei migranti: tutti, comunque, quale che sia la loro condizione, regolari o irregolari, hanno diritto ad un nucleo base di diritti fondamentali che le pratiche in mare e il sistema di accoglienza a terra, frutto anche dei decreti Salvini, stanno sistematicamente negando (Il 5 ottobre il consiglio dei ministri ha approvato la modifica dei cosiddetti decreti sicurezza o decreti Salvini n.d.R.).

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[ 13 ottobre 2020 ]
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