Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

da La Gazzetta del Mezzogiorno - Cronaca di Lecce del 27 maggio 2004

Nella chiusura delle indagini solo i nomi di don Cesare e dello zio

In dirittura d'arrivo la vicenda giudiziaria della doppia contabilità per la gestione dei fondi del Regina Pacis

L’arcivescovo esce dall’inchiesta sui conti del Regina Pacis. Il nome di monsignor Cosmo Francesco Ruppi non compare nell’avviso di conclusione delle indagini del pm Imerio Tramis.
Il provvedimento ha solo due destinatari: don Cesare Lodeserto, direttore del centro per immigrati e lo zio Renato Lodeserto, ex maresciallo della Finanza. La posizione di monsignor Ruppi, dunque, è destinata all’archiviazione; per don Cesare verrà formulata una richiesta di rinvio a giudizio.

«Dopo circa due anni di indagini, lunghe, approfondite e minuziose, l’arcivescovo è ritenuto escluso da ogni ipotesi di reato, formulata a suo carico – commenta il vicario generale monsignor Francesco Mannarini – Il popolo e il clero si rallegrano vivamente e rinnovano all’arcivescovo stima, devozione e gratitudine per il lavoro che svolge da quindici anni in mezzo a noi».

L’inchiesta prende le mosse nel 2001, dopo una perquisizione in casa di Renato Lodeserto, all’epoca indagato per altre vicende. Gli investigatori sequestrano il computer dove era registrata una presunta contabilità parallela del centro di accoglienza. La Procura apre un fascicolo per appropriazione indebita e truffa. Fra gli indagati finisce anche don Cesare e scatta il sequestro di 700 milioni di vecchie lire. Si delinea il sospetto della Procura: i soldi destinati alla onlus Regina Pacis per l’accoglienza degli immigrati, sarebbero stati distratti verso altri scopi.
Scatta anche un nuovo sequestro: i sigilli per il centro realizzato nel Mantovano, e per riciclaggio, nel registro degli indagati finisce anche Mario Casolari, responsabile della struttura.

Quando la Cassazione irrompe nella vicenda (confermando le decisione del gip e del Riesame) sembra che l’inchiesta sia destinata all’archiviazione. La Suprema Corte, infatti, stabilisce che nessun illecito è stato compiuto nella gestione dei fondi. Il colpo di scena arriva nel settembre del 2002. La Procura cambia rotta: non si indaga più per appropriazione indebita, ma per peculato e sotto inchiesta finisce anche monsignor Ruppi.

Ma è ancora una volta la Corte di legittimità a bocciare le ipotesi dell’Accusa: «I soldi sono della Curia», stabilisce la Cassazione respingendo il ricorso della Procura nei confronti del dissequestro delle somme. E nella motivazione, la Suprema Corte smonta l’impianto accusatorio.

«Si conclude una prima fase di una vicenda protrattasi per circa tre anni che ha visto lambito da ipotesi di accusa finanche la massima espressione della Chiesa episcopale – spiega l’avvocato Pasquale Corleto che, insieme al collega Angelo Pallara, assiste l’alto prelato e don Cesare – L’ipotesi di reato residua a carico dei due Losederto è già stata oggetto di esame da parte della Corte Suprema di Cassazione per ben due volte: il giudice di legittimità ha escluso ipotesi di reato nel momento in cui accolse le richieste della difesa e conseguentemente restituì le somme oggetto di sequestro penale. Se la logica ha un senso, ho motivo di ritenere che la conclusione finale della vicenda di don Cesare non possa che essere in linea con quanto due volte stabilito dalla Corte suprema di Cassazione, che non a caso si chiama Corte di legittimità».

Anche la Chiesa di Lecce si stringe attorno a don Cesare: «L’auspicio è che la magistratura giunga ad analoga conclusione anche per il direttore della Fondazione Regina Pacis, per una ipotesi che la Suprema Corte di Cassazione ha già escluso per ben due volte».