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da Liberazione del 13 ottobre 2004

Nella gabbia della comunità. Intervista a Nadeem Aslam

di Guido Caldiron

Se gli si chiede se ha paura della fatwa che potrebbe colpirlo come già accadde per Salman Rushdie, l’intellettuale angloindiano che è tra i suoi maggiori estimatori, Nadeem Aslam scherza per sdrammatizzare e sorride. Ma subito dopo ci tiene anche a aggiungere che “Al Qods”, uno dei maggiori quotidiani arabi del Medio Oriente, ha recensito molto positivamente il suo libro “scandaloso”, Mappe per amanti smarriti.

Con il suo viaggio nel cuore malato di fanatismo di un pezzo della comunità pakistana d’Inghilterra, questo giovane scrittore acclamato oltre Manica come una rivelazione, si è già fatto molti nemici: nel suo libro parla di matrimoni combinati e di delitti d’onore, di una visione totalitaria della religione che nasconde al mondo le proprie zone d’ombra imprigionando giovani corpi e negando perfino l’espressione dei sentimenti. Ma questo romanzo suona anche come un preciso atto d’accusa verso la società britannica e verso quel modello comunitarista che dopo decenni d’immigrazione fa ancora di molti pakistanti degli stranieri sul suolo britannico.

Molti dei protagonisti di Mappe per amanti smarriti parlano dell’Inghilterra in cui vivono come del Dasht e Tanhaii, il deserto della solitudine. Quanto, questa percezione tragica della realtà che li circonda è frutto dei meccanismi di chiusura interni alla comunità e quanto di un incontro andato male con la cultura britannica?
Credo che entrambi questi elementi abbiano il loro peso, anche se la definizione dell’Inghilterra come “deserto della solitudine” appartiene alla prima generazione di immigrati pakistani, vale a dire ai genitori di quelli che vivono oggi nel paese. Più in generale, con questa espressione, questi immigrati volevano sottolineare il forte sentimento di nostalgia per la loro terra. Però c’è anche l’altro elemento della vicenda. A proposito dei personaggi del mio romanzo mi è stato chiesto: “Perché queste persone sembrano aver scelto intenzionalmente di essere infelici? Nel senso che non sembrano avere alcuno slancio verso la gioia, verso la vita”. In realtà non è così, non è vero che non esprimono una loro idea della felicità, solo che sembrano non capire che altri possono pensare alla felicità in modo diverso, fuori dagli schemi della religione musulmana e delle regole della comunità. Tra i miei personaggi c’è chi non ha neppure voglia di imparare l’inglese, di uscire dal proprio quartiere, esattamente come accaduto a molti immigrati pakistani della prima generazione.

Al centro del suo romanzo c’è la scomparsa di una giovane coppia, uccisa dai parenti per lavare il disonore di un amore nato fuori dal matrimonio. Lei parla di questa tragedia, che non supera i confini della comunità pakistana, come di “uno dei tanti piccoli 11 settembre quotidiani, ai quali per troppo tempo non abbiamo prestato attenzione e non abbiamo reagito”. Cosa intende dire?
L’anno scorso sono andato a visitare Ground Zero e ho provato una forte sensazione di oppressione. Ho pensato al fatto che per troppo tempo in molti non hanno detto nulla per condannare tutti quei piccoli “11 settembre” che costellano la nostra vita. Da sempre in Pakistan, e presso la comunità immigrata in Gran Bretagna, vengono compiuti degli omicidi per motivi considerati “d’onore”. O, ancora, le figlie sono picchiate perché non frequentano il fidanzato che ha scelto per loro la famiglia. Ecco, io credo che di fronte a tutto questo sia nostro dovere reagire nel modo più fermo. Quando parlo di “piccoli 11 settembre”, mi riferisco a tutte le situazioni in cui qualcuno cerca di imporre con la violenza il proprio potere sugli altri, come è accaduto con l’attacco alla Twin Towers quando un piccolo gruppo di uomini ha colpito gli Stati Uniti per cercare di imporre la propria visione dell’Islam.

La natura circostante, libera, colorata, felice sembra contrapporsi in questa storia al grigiore e alla gabbia culturale in cui vive la comunità pakistana. È una contrapposizione voluta?
È un’interpretazione molto interessante di quanto ho scritto. Io sono partito dall’entusiasmo che provo per i fenomeni naturali. E volevo porre in contrasto questo spazio libero e creativo con ciò che gli esseri umani possono riuscire a fare, in negativo, a se stessi costruendo sistemi di valori, religioni e forme politiche che conducono a queste prigioni, a queste gabbie. Il mondo è un posto bellissimo, ma la gente sceglie spesso di viverci in modo del tutto infelice.

Le ultime opere di un altro autore inglese che viene dal subcontinente indiano, il regista e romanziere Hanif Kureishi, indicano il corpo, la fisicità e la sessualità come le vie per liberarsi dai vincoli oppressivi della comunità e dell’identità religiosa. È per lei, dove passa la strada della ricerca della libertà?
Penso anch’io che passi per la fisicità, per il corpo. Questo può essere un buon punto di partenza. Non a caso del mio romanzo qualcuno ha parlato come di una storia erotica e effettivamente io parlo a più riprese del sesso come degli organi sessuali o del sangue del ciclo mestruale. Quando dicevo che gli uomini scelgono di vivere male, pensavo proprio alle forme di mediazione religiosa della sessualità, alle gabbie in cui si imprigionano i corpi in base a queste regole. Per questo, il primo passo verso la libertà è quello di liberare il corpo.

Rushdie, Kureishi, lei e, sebbene su un altro piano, lo stesso successo internazionale di un gruppo come gli Asian Dub Foundation, mostrate quanto sia forte la componente di origine asiatica della società britannica. Eppure non si ricorda il nome di un solo deputato o ministro di origine pakistana, perché?
In effetti, il riconoscimento sul piano culturale c’è stato, per quello politico c’è invece ancora molto da fare. Del resto, perlomeno fino agli anni Ottanta, era normale che nel corso di una trasmissione televisiva qualcuno venisse definito “negro” o “paki”, e questo non suscitava alcuno scandalo. Inoltre, oggi gli inglesi si mostrano forse più aperti verso le minoranze, in particolare verso coloro che vengono dal subcontinente indiano, ma questo anche perché il loro rifiuto si indirizza su altri immigrati come quelli che arrivano ora, provenienti dal Kurdistan o dall’Iraq.

Negli anni Ottanta però vi fu anche la rivolta del quartiere londinese di Brixton e una lunga serie di proteste che coinvolsero soprattutto i giamaicani, ma toccarono anche gli asiatici. Vent’anni dopo, il suo libro offre l’immagine di una comunità ripiegata su se stessa, avvelenata dal fondamentalismo. Il segnale della crisi del modello comunitarista anglosassone?
Sì, in effetti c’è una crisi e per vederlo basta osservare le nuove generazioni di anglopakistani che sembrano voler tornare alle proprie radici, a una pratica religiosa ancora più forte di quella dei loro genitori. Credo ci siano diverse motivazioni per spiegare questo atteggiamento, in particolare il fatto che quando si assume una posizione rigida, chiusa, ci si sottrae alla difficoltà di fare delle scelte individuali, perché la fede ti dà regole valide per tutto: ti dice cosa devi fare, pensare, perfino cosa mangiare e come vestirti.