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Nelle zone di confine tra attivismo e ricerca

Intervista a Matilde e la sua esperienza sul campo tra America ed Europa

PH: No Name Kitchen

Matilde ha lavorato sui due confini di terra del Messico tra il 2015 e il 2016, e attualmente sta studiando le modalità di controllo (istituzionale e non) del flusso migratorio lungo la rotta balcanica: come la polizia e le istituzioni, i facilitatori e tutti gli attori coinvolti si relazionano con i migranti.

Nell’intervista abbiamo parlato della sua esperienza sul campo tra America ed Europa e di cosa vuol dire lavorare nell’intersezione tra attivismo e ricerca.

Photo credit: Carmen Durán e Ricardo Montoya (NNK)
Photo credit: Carmen Durán e Ricardo Montoya (NNK)

MP: Partiamo dal tuo progetto di dottorato. Di cosa ti stai occupando?

Matilde: Il focus è sulle pratiche di controllo lungo la rotta balcanica.

Per fare uno studio sul campo sei stata in Serbia, in Grecia, a Trieste. Partiamo da qui. Lo scorso inverno, durante la tua permanenza a Šid, in Serbia, hai scritto un articolo per Melting Pot: tra gli altri temi, trattavi la violenza – verbale, fisica – della polizia non solo verso la popolazione migrante, ma anche verso membri di ONG e volontari. Quest’estate invece sei stata in Grecia. Cosa facevi lì esattamente? Hai trovato delle differenze?

In Grecia sono stata principalmente a Patrasso. Lì ho avuto la possibilità conoscere la realtà degli squat grazie al supporto dei volontari di No Name Kitchen 1, con cui avevo collaborato in Serbia. L’impatto con la realtà migratoria a Patrasso è diverso da quello che si percepisce in Serbia, almeno in un primo momento.

A Šid (al confine tra Serbia e Croazia), complice la conformazione naturale e strutturale del luogo, sembra esista solo la frontiera: all’estremità del paese, con immensi spazi vuoti attraversati solo dalle ferrovie, la boscaglia e, a pochi chilometri, il confine con la Croazia.

A Patrasso invece la realtà migratoria è mescolata con altre dimensioni, è immersa nella vita della città. Anche le violenze e le violazioni esercitate sui migranti, per quanto manifestazioni di una matrice comune, si esprimono in forme diverse. Per esempio, a proposito delle condizioni abitative, in Serbia le persone in transito vivevano per la maggior parte nelle cosiddette jungles, particolarmente esposte alle periodiche incursioni e aggressioni della polizia; a Patrasso invece le persone in transito tendono a occupare grandi edifici abbandonati, dove le condizioni sono altrettanto precarie ma dove le incursioni della polizia sono meno frequenti e in un certo senso meno distruttive.

La circolazione dei migranti poi è un problema comune in entrambi i posti: sia a Šid sia a Patrasso un migrante per strada è sempre esposto al rischio di essere prelevato dalla polizia, trattenuto anche per giorni o settimane in commissariato ed eventualmente condotto forzosamente a un campo di detenzione, dove le condizioni di vita sono umanamente e politicamente inaccettabili. Questi limiti alla libertà di movimento possono avere effetti molto pesanti sulle persone migranti, basti pensare alle difficoltà che incontrano per accedere a servizi sanitari di base. A Patrasso mi è capitato di accompagnare un ragazzo dal dentista, aveva un’infezione a un dente. È stato trattato a male parole, ed io anche. Ho l’impressione che non sia stato neanche anestetizzato a dovere, quasi a volergli far pagare la sua condizione di straniero in transito. C’era aggressività e sospetto, mi sono state fatte varie domande sul perché fossi con questo sconosciuto e perché mi stessi premurando di accompagnarlo dal dentista.

Photo credit: No Name Kitchen
Photo credit: No Name Kitchen

Aggressività e sospetto sono sentimenti comuni nella popolazione greca quando si tratta di migranti in transito?

Me lo sono chiesto spesso e non so darmi una risposta, probabilmente perché non è possibile generalizzare. Quello che continua a sorprendermi, però, è l’opinione sempre più comune che il “problema” sia il settore della solidarietà. Ho intervistato un signore greco che lavora da anni al porto di Patrasso, quindi esposto da tempo alla questione. Dai suoi discorsi sembrava non fosse infastidito tanto dai migranti quanto dalle ONG e dai gruppi di volontari in supporto dei migranti, al punto che, parlando dei network criminali che aiutano le persone ad attraversare le frontiere, ha insistito sul fatto che anche le ONG siano coinvolte nel traffico degli esseri umani, dandolo per un dato assodato. Diciamo che la strategia politica di criminalizzare la solidarietà ha messo radici davvero ovunque e questo è estremamente pericoloso. Alla fine sembra che finché i migranti non si vedono in giro, va bene. Ma il settore della solidarietà dà visibilità alle persone in transito e questo dà fastidio.

A Patrasso c’è il mare. Questo sicuramente segna una differenza nelle modalità della migrazione.

La rotta che passa da Patrasso è principalmente una rotta di mare. La maggior parte dei migranti restano lì per periodi medio-lunghi e cercano di infilarsi sotto i container che poi salgono sulle navi per arrivare in Italia. Il “game” è quindi un po’ diverso rispetto alla Serbia o alla Bosnia ed Erzegovina. I migranti devono attraversare due recinzioni alla luce del sole. Mi è rimasta impressa la scena di questi ragazzi che scavalcano, tutti vestiti di nero e con i guanti, perché le sbarre di ferro della recinzione sono incandescenti sotto il sole dell’estate greca. Ho visto ragazzi tornare indietro con le mani ustionate dal contatto, oltre a tutti gli infortuni che possono verosimilmente capitare quando si cerca di attraversare delle recinzioni. Se poi vieni scoperto dalla polizia, sono botte in molti casi.

Photo credit: Murray Kemp (NNK)
Photo credit: Murray Kemp (NNK)

Hai assistito a queste scene di violenza?

No, ma ci sono numerose testimonianze di ragazzi tornati da un tentativo di game, con i segni evidenti dei pestaggi da parte della polizia.

Il flusso in Grecia come si articola?

Per quello che ho visto io, Atene resta un punto cruciale di smistamento, anche perché il controllo della rete di smuggling si trova spesso nelle grandi città. Un altro luogo che mi viene da nominare a proposito di Atene è il quartiere anarchico di Exarchia, che non definirei di transito ma di permanenza: ci sono spazi occupati nei quali molti migranti hanno deciso di rimanere. Tornando al flusso, è successa una cosa interessante negli ultimi giorni in cui ero a Patrasso: alcuni dei migranti che si trovavano lì da molto tempo, sfiniti da una lunga serie di tentativi falliti di partire per mare, ponderavano l’idea di tentare la rotta di terra, quindi di procedere verso la Bosnia e attraversare i boschi. Andare verso la Bosnia, con l’avvicinarsi dell’inverno, significa rischiare di rimanere bloccati al gelo per mesi, senza molte possibilità di attraversare le frontiere, data la riduzione dei traffici commerciali. D’altra parte, con le giuste risorse economiche è anche possibile riuscire. Questa è una costante di qualsiasi rotta: più risorse economiche ci sono, più è facile andare avanti. Non è una garanzia, ma senza dubbio una facilitazione.

Photo credit: Iraitz Barandiaran e Ricardo Montoya (NNK)
Photo credit: Iraitz Barandiaran e Ricardo Montoya (NNK)

L’attivismo ti permette di fare ricerca stando dentro, in mezzo alle cose. Rispetto al focus del tuo studio, cosa stavi cercando quando sei andata in Serbia e in Grecia? Qual è la lente che ti eri messa addosso?

Quando sono andata in Serbia il mio focus principale erano le pratiche di controllo principalmente dei soggetti statali/istituzionali: polizia, esercito, ecc. Mi interessava soprattutto la questione delle violenze poliziesche sui migranti. Ciò che sto cercando di capire adesso, complice l’attività qui in ***, sono le altre forme di interazione che si generano in questi spazi, non solo per opera di attori istituzionali.

Photo credit: Mateo Reznak(NNK)
Photo credit: Mateo Reznak(NNK)

Parli dei network sommersi dei trafficanti?

Non solo, anche delle reti di solidarietà, che senza generare controllo repressivo costituiscono un attore chiave lungo le rotte. Come attivisti e con finalità solidali, non violente, noi comunque qui in *** osserviamo i migranti e monitoriamo i luoghi della solidarietà. Invece a Patrasso e ad Atene ho cercato di riflettere di più sui modi in cui il mondo della solidarietà si relaziona con i migranti e con tutti gli altri attori coinvolti con le migrazioni.

Photo credit: NNK Team Patras
Photo credit: NNK Team Patras

Hai detto che anche chi opera nelle reti di solidarietà osserva i migranti. L’immagine che il tuo discorso suscita è di una rotta che è letteralmente “fatta” da attori che non sono i migranti stessi, nella quale i migranti devono sapersi incastrare cogliendo gli aiuti e sfuggendo gli ostacoli. Fino a che punto è vera questa suggestione?

Il vincolo rappresentato dalla solidarietà è da analizzare meglio. Se parliamo di solidarietà nel senso dei movimenti collettivi che nascono spontaneamente attorno alle rotte, questi cercano di stabilirsi laddove i migranti transitano e di compensare delle fragilità: in questo caso è la rete solidale che cerca di adeguarsi al flusso in tutti i modi, per generare forme di aiuto. Se invece parliamo di grandi organizzazioni umanitarie, OIM e UNHCR compresi, queste hanno abbastanza potere da condizionare il flusso, nel bene o nel male: basti pensare al grande campo di Lipa appena terminato, gestito dall’OIM, che per le dimensioni e la posizione diverrà punto di passaggio imprescindibile dei migranti in transito, ed è chiaro quante discussioni solleva la modalità dei grandi campi. La mia personale impressione è che flussi migratori e reti della solidarietà si sviluppino insieme, in un dialogo in costante divenire.

Photo credit: Carmen Durán e Ricardo Montoya (NNK)
Photo credit: Carmen Durán e Ricardo Montoya (NNK)

Ti sei mai chiesta come si generino le reti criminali dello smuggling, come avviene il ricambio delle persone coinvolte e come vengono attirate nel meccanismo?

Credo sia necessario fare una distinzione quando si parla di reti criminali. Se è vero che si tratta di un continuum di attori profondamente interconnessi tra loro è anche vero che esiste una differenza fondamentale tra chi coordina e chi agisce “sul campo”. I passeur che si incontrano lungo la rotta occupano spesso gli ultimi gradini della gerarchia, in cima alla quale troviamo invece i grandi network criminali e mafiosi, nazionali e transnazionali. I passeur, spesso, sono a loro volta migranti rimasti incastrati per necessità economiche o con l’adescamento all’interno del network dello smuggling. Nei gradini più bassi è anche bene considerare che esiste una forte connotazione etnica, per cui si possono trovare smugglers pakistani che facilitano il transito di pakistani e smugglers afghani che facilitano il transito di afghani. È chiaro poi che in questi rapporti che coinvolgono quantità talvolta grosse di soldi si instaurano delle relazioni di fiducia: un migrante potrebbe sentirsi più sicuro nel pagare un compaesano per continuare il viaggio, parlano la stessa lingua, magari nel loro paese d’origine erano anche legati da vincoli di parentela o dall’appartenenza a clan o circoli affini. Ma soprattutto, per quanto deplorevole possa essere il lavoro dei passeur dal ‘nostro’ punto di vista, dobbiamo comunque ricordare che i migranti descrivono queste figure come salvatori che gli hanno permesso di attraversare il confine ed eventualmente arrivare a destinazione. Un altro aspetto importante da tener presente è che tendenzialmente le reti di smuggling si creano sulle tracce di altre attività criminali già consolidate.
In Messico c’era e c’è il narcotraffico, oltre ad altri traffici di beni e sostanze; nei Balcani c’è il traffico delle armi rimaste in circolazione dopo la guerra, oltre che del tabacco e degli oppiacei provenienti dall’Afghanistan. A questo proposito, il giornalista Nello Scavo parla delle relazioni tra continente americano, africano ed europeo. Le reti dello smuggling di fatto usano i canali materiali e immateriali di altri traffici. A monte di questi traffici ci sono spesso le grandi organizzazioni criminali capaci di muovere grandi quantità di risorse e persone.

Photo credit: Centro dei Diritti Umani Fray Matías di Tapachula
Photo credit: Centro dei Diritti Umani Fray Matías di Tapachula

Parliamo del Messico. Nel 2015 sei stata a Nuevo Laredo, al confine tra Messico e Texas, e poi sei tornata nel 2016 a Tapachula. Che forme hanno in Messico le violenze verso i migranti?

Quando penso alla rotta centro-americana che passa per il Messico, la prima associazione che mi viene da fare è con la criminalità organizzata. Il Messico è un narco-stato e questa grossa presenza criminale si sente. La più grossa differenza che ho notato tra quella rotta e la rotta balcanica in termini di violenza è che nei Balcani le violenze più efferate vengono perpetrate dalle cosiddette forze dell’ordine, mentre in Messico dai soggetti della criminalità organizzata. C’è poi un discorso di visibilità: nonostante ci sia molto razzismo verso i centro-americani, manca la componente visiva, se così possiamo dire, che distingue anche esteriormente i neri dai bianchi, gli asiatici dagli europei. In termini di sostegno del fenomeno migrante, invece, in Messico molto è nelle mani degli organismi cattolici.

Photo credit: Animal Político
Photo credit: Animal Político

Come ti sei spiegata quest’ultima differenza?

In Messico fare attivismo per i diritti umani mette a rischio la vita, oggi come un tempo. Forse, le associazioni religiose, facendo parte di una dimensione più istituzionale, riescono a offrire supporto correndo qualche rischio in meno. Tendenzialmente. Poi in Messico sembra che nessuno sia realmente al sicuro dalle minacce del narco-stato. Ad alcune di queste realtà religiose, infatti, sono arrivate anche minacce di morte. In Messico la componente religiosa è così istituzionalizzata anche perché la quasi totalità della popolazione è cattolica. Sarebbe impensabile una tale uniformità nei Balcani, dove convivono cristianesimo ortodosso, cattolicesimo e islamismo.

Nel periodo che hai passato a Tapachula ti sei occupata della ricezione di richiedenti asilo e rifugiati. Cosa facevi precisamente?

Si trattava di raccogliere le prime interviste quando arrivavano nel paese e poi di incanalarli verso i diversi servizi del territorio. Siamo partiti con una decina di migranti al giorno, ad un certo punto abbiamo raggiunto picchi di cento persone.

Photo credit: Animal Político
Photo credit: Animal Político



Erano tutti richiedenti asilo? Come funziona in Messico il sistema di protezione internazionale?

La maggior parte di loro erano richiedenti asilo; solitamente dopo aver visto noi si recavano alla COMAR, l’ente addetto a processare le richieste, per rimanere in territorio messicano. Certo, ci sono state anche persone che hanno dichiarato di voler proseguire verso gli Stati Uniti, consapevoli del fatto che la vita in Messico non sarebbe stata molto migliore di quella dei loro paesi d’origine. Soprattutto al confine Sud del Messico, poi, la maggior parte delle persone che arrivavano fuggivano dalle pandillas e dalle maras, i gruppi criminali del triangolo Nord del Centro-America; e questi gruppi di solito continuano a seguire chi fugge anche al di fuori dal paese.

Stiamo parlando di Stati Uniti e Unione Europea, i due pezzi di mondo in cui vige lo stato di diritto, con una lunga storia di vanto dei valori democratici.

Sì, dal punto di vista teorico, strettamente giuridico, Stati Uniti e Unione Europea, conformemente con lo stato di diritto e nel rispetto dei diritti umani, aderiscono alla convenzione di Ginevra. È pur vero però che negli USA le norme sono scritte in un modo tale che c’è più spazio legale per impedire l’ingresso dei migranti nel territorio. Tuttavia nei fatti i respingimenti, la militarizzazione dei confini, la violazione dei diritti dei richiedenti asilo sono pratiche proprie tanto degli USA quanto dell’Unione.
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Tu sei una ricercatrice impegnata, e spesso il tuo lavoro è di evidenziare le contraddizioni e i fallimenti delle politiche in materia di migrazioni: di solito ti trovi dunque ad essere una voce in netta contrapposizione con le prassi e le politiche. Eppure la ricerca dovrebbe essere finanziata dai governi anche in vista di un’utilità pratica. Dove crolla la comunicazione tra mondo della ricerca e istituzioni?

Ci sono molte contraddizioni. Personalmente penso che possa essere molto utile tenere insieme ricerca e attivismo, ma è anche vero che la ricerca impone dei limiti alla coerenza delle proprie motivazioni e che l’attivismo talvolta si perde nell’urgenza delle circostanze. Personalmente, stare nell’accademia mi aiuta a riflettere sul mio attivismo e sul mio volontariato, mi permette di mettere in discussione tanto la pratica umanitaria quanto l’antagonismo politico. Mi aiuta anche a mettere un po’ di distanza tra me e le realtà cui mi appassiono. A volte non è facile gestire l’impatto emotivo e psicologico che certe realtà suscitano in noi, soprattutto quando si tratta di mondi e violenze cui non siamo propriamente socializzati dalla nascita.

Photo credit: No Name Kitchen
Photo credit: No Name Kitchen

Un’ultima cosa. Lo studioso di migrazioni e l’attivista sono due esperienze diverse. Di certo lavorare sul campo è fondamentale per supportare la ricerca. Ma in che modo lo studio può supportare l’attività di piazza o di confine nella vita di tutti i giorni, lungo la rotta?

La ricerca in accademia può essere uno strumento utile di analisi, ma alla fine secondo me quello che conta è informarsi e riflettere. Dobbiamo interrogarci sui sistemi e sulle pratiche in cui siamo immersi. Questo ci può aiutare a mettere in prospettiva l’incontro con quel preciso individuo e a fare pratica politica o attivismo con più coscienza del contesto. Conoscere le realtà può anche aiutare a non perdersi nel quotidiano: distribuire cibo, vestiti e scarpe è un’attività fondamentale, ma rimane fine a sé stessa se attorno al tema non si genera un dibattito che straborda dal luogo in cui le pratiche di solidarietà vengono portate avanti. E poi essere informati può aiutare a fare valutazioni più lungimiranti sui rischi collegati a certe attività: dal momento che spesso, specie sulla rotta Balcanica, la solidarietà come pratica politica si trova ad operare in un clima di ostilità istituzionale, avere una prospettiva più ampia delle dinamiche permette di evitare che certi slanci e quegli impulsi – comprensibili di fronte a casi di estremo bisogno – compromettano la pratica sul lungo periodo. Poi non basta la conoscenza teorica, servono empatia e sensibilità, capacità di relazionarsi, e anche capacità di prendersi cura di sé durante l’attività: veniamo da società che non sono sensibilizzate al tipo di dolore e di sofferenza che viene portato allo scoperto da un migrante. Monito innanzitutto per me stessa: imparare a dosarmi, a darmi consapevolmente, per evitare di bruciarmi.

  1. Visita il blog di No Name Kitchen

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.