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Nera, migrante, prostituta

La storia di Favour, del suo viaggio verso l'Europa

Photo credit: Save the Children

Oggi ho conosciuto Favour*. Il giorno del mio compleanno, il 6 novembre 2017, è arrivata a Vicenza, in Italia, intrappolata in una rete di trafficanti di esseri umani. Si ricorda perfettamente in che via abitava, in quale viale lavorava di notte, il nome di uno dei suoi clienti, quello che l’ha aiutata a scappare, Gian Paolo. Per lei, il 6 novembre 2017 segna l’inizio di un incubo.

Siamo nel mio ufficio di operatrice sociale in un centro di accoglienza per persone vulnerabili, a Grenoble. Ho attaccato alcuni poster alle pareti, immagini dei Minions, cartine geografiche dei paesi da cui provengono i nostri ospiti: Afghanistan, Nigeria, Guinea, Corno d’Africa. Ho fatto di tutto per rendere questa stanzetta più leggera. Perché qui dentro si parla spesso di cose pesanti come macigni.

Le avevano promesso che avrebbe lavorato in un negozio di makeup, una cosa alla moda, in Italia. Un lavoro figo: il massimo. Non la prostituta.

Favour ha 19 anni, forse. È nata in Nigeria, nell’Edo State, uno stato del sud la cui capitale è Benin City, una città grande e densamente abitata. Lei viene dalla campagna, ha studiato pochissimo, i suoi genitori sono morti quand’era piccolissima. È cresciuta con la nonna. Per qualche spicciolo, vendeva la frutta al mercato, per conto di qualcun altro, ma i soldi non bastavano mai.

Un giorno, una signora che conosceva di vista è venuta a parlarle. Le ha fatto un sacco di complimenti, “ma quanto sei carina, hai un bel sorriso”, “lavori duro per la tua famiglia”, “ti ho visto anche in chiesa, sei una brava ragazza”. E poi le ha proposto di andare in Europa. Figata! Favour si immaginava già commessa in uno di quei negozi pulitissimi con tanti specchi, a consigliare le giovani clienti, della sua età.

La notizia naturalmente è stata accolta con gioia dalla nonna che le ha perfino proposto di accompagnarla dalla signora, si chiamava Esther, per discutere dei dettagli del viaggio. Poi è arrivata la vigilia della partenza, un venerdì.

Favour ha messo il suo vestito preferito, si è truccata bene per non fare brutta figura. Arrivate a piedi a casa della signora Esther, sono state accolte da una strana atmosfera. C’era anche quello che le sembrava un sacerdote che le ha chiesto di spogliarsi e di andare verso di lui.

Non sapeva ancora che si trattava di un rito chiamato juju: un sacerdote, una madam che assicura lo svolgimento del viaggio dall’Africa e all’Europa, e sua nonna, testimone del giuramento. La procedura del rituale è rigorosamente codificata. Peli pubici, capelli, unghie e a volte del sangue mestruale vengono prelevati dalla ragazza e messi in un vasetto sigillato, simbolo dell’impegno indissolubile preso con la madam. A volte il sacerdote scarifica il volto della ragazza, perché essa abbia sempre presente il patto stretto, quando si guarda allo specchio.

Durante il rituale si parla anche del debito che la ragazza contrae per il finanziamento del viaggio e che si impegna a rimborsare. Col juju, il contratto assume una forma concreta e che prevede che qualora il giuramento venga spezzato, i peggiori mali si abbatteranno sulla famiglia: malattia, follia, sterilità, morte della ragazza o dei suoi cari. Infine la ragazza viene lavata e coperta da un lenzuolo bianco: è ora pronta per partire.

Favour non ne sapeva niente. Non se lo aspettava. Ma una volta lì cosa puoi fare? Rinunciare al viaggio agognato? Deludere la nonna? E tutte le persone che hanno saputo che parti in Europa? Coi soldi che guadagnerai i tuoi fratelli avranno una vita migliore! Certo non sarà facile, devi rimborsare un debito di 50.000 euro, ma ti hanno assicurato che in due mesi è fatta, sei libera: è facile… .

Favour non ha idea di quanto siano 50.000 euro. Non ha idea a quanto ammonti lo stipendio di una cassiera. Ma l’Europa è simbolo di ricchezza, di un grosso e sicuro guadagno.

Favour parte. Prima in pickup fino a Lagos, con lei ci sono altre tre ragazze che hanno stretto lo stesso patto con Esther. Poi a bordo di una corriera ha attraversato il Niger, poi di nuovo pickup nel deserto libico. E poi Tripoli.

Ha subito ogni tipo di violenza, durante il viaggio, in Libia, sul barcone, poi in Italia, e poi ancora in Francia. È stata violentata, bastonata, insultata. Ha fatto astrazione dal suo corpo a ogni colpo, ogni cinghiata, ogni pugno nella pancia, come fa da quando era bambina, dopo che era stata stuprata dal vicino di casa di sua nonna. Lei in quel corpo non c’è. Non sente niente. Lei è un’altra.

Questa sensazione di corpo anestetizzato, di sdoppiamento della personalità, di frattura interiore se la porta dietro in ogni suo giorno da prostituta. In Italia, la realtà si è rivelata rapidamente, cruda, violenta. Ha chiamato il numero che le aveva dato Esther, uno scagnozzo della madam in Italia è andato a prenderla fuori da un centro di accoglienza di Roma. Lì ha scoperto che il lavoro da commessa non esisteva proprio e che avrebbe lavorato in strada, di sera, di notte, d’inverno, d’estate e sotto gli occhi scuri e attenti della maîtresse. È il 6 novembre, alla nonna al telefono ha detto che va tutto bene.

In realtà è in una prigione di illegalità, dipendenza, sfruttamento, denaro sporco e abuso. Di corse dalla polizia, di clienti frustrati, di debiti che assumono un valore reale, quello dell’euro e cambia tutto. Per rimborsare il debito Favour dà tutto quello che prende alla madam. Una parte serve a pagare l’affitto e il cibo, e non è nemmeno contata nel rimborso della somma totale. La donna che la tiene in schiavitù sta bene attenta a non farsela scappare. Quando Favour protesta le ricorda il juju, la promessa indissolubile, il suo investimento.

Denaro, maledetto denaro. Denaro che passa dal cliente alla prostituta, dalla prostituta alla madam, allo Stato, alla famiglia. Denaro che non resta mai per lei, che scivola via velocemente e in modo subdolo perpetra il meccanismo della prostituzione. Favour guadagna tanto, ogni notte, e lo sa. Fa circa 2.000 euro a settimana. Quel che resta per lei sono briciole con cui si compra i vestiti per il suo lavoro e ogni tanto qualche abito per se stessa, o delle medicine quando proprio necessario.

Favour odia questa vita. L’hanno fregata. È bloccata in un corpo in cui non può riconoscersi.

Ma cosa ci fa Favour nel mio ufficio, al di là delle Alpi?

Favour ha chiesto asilo politico alla Francia, per questo è ospite nel centro in cui lavoro. Mi ha raccontato tutte queste cose perché stiamo scrivendo insieme la sua storia.

A Grenoble, è arrivata in treno. Gian Paolo era un cliente abituale, vicentino, gentile, padre di famiglia. Ogni tanto le lasciava una mancia. Una sera Favour era disperata, aveva i lividi sul collo, si sentiva soffocare, non ce la faceva più. Gian Paolo l’ha portata in stazione, ha comprato il biglietto per Milano, poi le ha detto che sarebbe potuta andare in Francia, bisognava passare Torino. Favour aveva una paura folle. “Ho gettato la SIM dalla finestra del treno, nel dubbio che potessero rintracciarmi.” Cosi è arrivata qui, a Grenoble dove, mi dice, vuole rifarsi una vita e avere un lavoro vero.
Mente.
E questa è la parte più difficile del mio lavoro.

Mente, perché è obbligata a mentire. La sua madam francese la tiene sotto scacco.

Se dice una parola di troppo è finita. E io lo so.

Durante il nostro appuntamento, Favour riceve sette chiamate dalla stessa persona e quattro messaggi. Parla pidgin english tre secondi al telefono e dice “sono con la mia assistente”, riattacca. È sorvegliata. Favour crede profondamente nel juju. Non ce la fa a romperlo così facilmente, facendosi aiutare da un cliente gentile, ma che in realtà se l’è scopata e se ne frega della sua condizione di schiava. Ha ricevuto da poco una chiamata di sua nonna che le ha detto di “fare quello che le dicono” altrimenti la uccidono.

Incontrerò Favour durante numerosi altri appuntamenti, a volte tesissimi, altri meno. Andrò nell’appartamento in cui vive, vedrò le scarpe coi tacchi alti, gli stivali, i vestiti osé appesi allo stendino. La Francia attribuisce l’asilo politico alle vittime di tratta unicamente se dimostrano di esserne uscite, uscite veramente, non “in processo di uscirne”.

Il mio lavoro con lei è aiutarla a uscire dal meccanismo mentale di prigionia del juju e della rete di trafficanti, mostrarle che un’altra vita è possibile. Per fare ciò, deve dire la verità, tutta la verità, e dimostrate di essere sincera davanti a tre giudici della Corte Nazionale del Diritto di Asilo.

Forse un giorno mi dirà che sapeva fin dall’inizio, in Nigeria, che sarebbe andata a prostituirsi. Molte ragazze lo sanno: nel tempo, il lavoro di prostituta per i bianchi è diventato prestigioso. Forse un giorno mi dirà che Gian Paolo non esiste. O forse Gian Paolo semplicemente lavora per il network delle tratte e ha portato Favour alla stazione perché doveva farlo. Forse un giorno mi racconterà che è stata proprio la madam in Francia ad accompagnarla a chiedere l’asilo, e a fornirle la prima trama della storia che ha iniziato a raccontarmi.

Succede sempre così: la maîtresse spinge la ragazza a chiedere l’asilo perché così troverà un posto in una struttura come la mia, quindi le costerà ancora meno mantenerla. Se le va bene all’interno della struttura riuscirà a ingaggiare altre ragazze nigeriane nel circolo vizioso della prostituzione di strada.

Forse un giorno Favour capirà che sua nonna è complice. Che è stata proprio lei a prendere contatto con Esther e fare in modo che tutta la sceneggiata sia stata messa in atto perché Favour andasse a prostituirsi in Italia, col sogno di fare la commessa.

Forse un giorno Favour otterrà l’asilo politico perché sarà riuscita ad identificare il rapporto di dominazione sessista, razzista e capitalista che costituisce la base del sistema di sfruttamento sessuale di cui è vittima. Sarà riuscita a liberarsene, non senza uno sforzo incredibile per cui avrà rimesso in discussione una quantità di costrutti culturali e sociali con cui è nata e cresciuta.

Linda Bergamo

Una grande passione per l’Afghanistan mi ha portato a far parte dell'Associazione Cisda ONLUS in sostegno alla Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA).
In parallelo a un Dottorato di ricerca all’Università di Grenoble, lavoro come operatrice sociale con le vittime di tratta degli esseri umani per sfruttamento sessuale.