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Nigeria, protezione umanitaria – Il richiedente perfettamente integrato in Italia in caso di rientro in patria potrebbe subire la privazione dell’esercizio di diritti umani

Corte d'Appello di Lecce, sentenza n. 937 del 30 settembre 2020

Photo credit: Vanna D'Ambrosio

La più recente giurisprudenza di legittimità, ai fini del rilascio del permesso di natura umanitaria, assegna rilievo centrale alla “valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455 e, da ultimo, Cass. SU 29460/2019 del 13 novembre 2019).

Nel caso di specie, alla luce della situazione personale del richiedente – il quale si è allontanato dal suo Paese di origine sin dal 2014, con conseguente sradicamento dalla situazione socioeconomica della Nigeria, certamente suscettibile di determinare, in caso di rientro, una difficoltà di reinserimento sociale e lavorativo – può ritenersi che il medesimo versi in una condizione di vulnerabilità quantomeno temporanea, suscettibile di essere rivalutata nell’immediato futuro, poiché, in caso di rientro nel paese di origine, è elevato il rischio che egli veda compromessi alcuni dei fondamentali diritti della persona, come quello alla dignità e alla sicurezza di vita.

Siffatta condizione di vulnerabilità assume, nel caso specifico, concretezza per avere dimostrato il richiedente di essersi integrato sul territorio italiano, mediante lo svolgimento di regolare attività lavorativa come bracciante agricolo, in forza di contratti, che, sebbene a tempo determinato, si connotano per una sostanziale continuità (cfr. estratto contributivo, depositato nel corso del giudizio di appello in data antecedente all’udienza di precisazione delle conclusioni, da cui risulta l’assunzione del richiedente, a far data dal novembre 2017 e per periodi pressoché continuativi, alle dipendenze di aziende agricole, da ultimo in forza di contratto stipulato il 1° gennaio 2020 con durata sino al 30 aprile 2020)

Ricorre, pertanto, a parere del collegio, un caso in cui, all’esito di una “valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente, con riferimento al paese di origine”, può essere riconosciuto il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, avendo egli realizzato un “grado adeguato di integrazione sociale in Italia” e potendo soffrire, in caso di rientro in patria, della privazione dell’esercizio di diritti umani “al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione di integrazione raggiunta nel paese di accoglienza” (Cass. I sez. civ. nr. 4455/2018).

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Corte d’Appello di Lecce, sentenza n. 937 del 30 settembre 2020