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No Borders: appunti di lotta e di pratiche solidali sui confini settentrionali

La risposta della Val di Susa alla provocazione mediatizzata degli “identitari” sulla zona di confine tra la Francia e l’Italia è un evento che non ci coglie di sorpresa.

La cronaca e i social di movimento hanno già restituito pienamente la marcia che la scorsa domenica ha varcato il confine, raccontando una giornata di lotta e sorrisi, una giornata decisamente energica e che, ne siamo convinti, ha il merito di alimentare un dibattito sulle pratiche solidali che come attivisti/e possiamo produrre per mettere in crisi le restrizioni alla libertà di circolazione perlomeno dentro lo spazio Schengen.

Proviamo perciò ad avanzare alcune riflessioni, dando immediata solidarietà a Eleonora, Theo e Bastien accusati di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in concorso” ed evitando, volutamente, di soffermarci sulla pagliacciata di generazione identitaria che, dopo la figuraccia estiva della nave C-star, ha usato mezzi cinematografici per una costosa messinscena. Se non fosse per l’enfasi data dal circo mediatico che si muove con un riflesso pavloviano, o per le minacce verso gli attivisti e migranti, probabilmente non se li sarebbe filati nessuno. Non sono sicuramente da sottovalutare, ma chiarire immediatamente che si tratta di nazisti eviterebbe di farli passare come dei “difensori”.

Per prima cosa ci sembra importante dire che, ogni volta che la lotta per la libertà di movimento riesce a darsi una forma pubblica e coniugare pratiche solidali con il protagonismo dei e delle migranti, i dispositivi di governo contro la mobilità migrante, quello che Commissione e Consiglio europeo hanno sancito come contrasto ai “movimenti secondari”, saltano. La forzatura dei manifestanti del blocco di confine della polizia francese a Claviere ha riproposto un piano di rivendicazione che in questi ultimi anni, anche se in forme non del tutto cristalline, ha attraversato le principali manifestazioni no borders, costruendo un immaginario pubblico che immediatamente è alternativo sia alle spinte nazionaliste e sia alle tecnocrazie europee.
Al tempo stesso, ci appare chiaro che la possibilità di creare fratture nell’articolato sistema di gestione del confine assume maggiore forza se il conflitto viene praticato dalle soggettività politiche che agiscono nel territorio e quotidianamente costruiscono legame sociale.

I confini settentrionali: luoghi di sperimentazione

I confini interni dell’Unione europea, e più precisamente quelli del nord Italia, sono diventati, e non da ieri, laboratori di contrasto delle migrazioni. In attesa che l’Ue concluda l’iter di riforma strutturale del sistema europeo comune di asilo – che tra le varie cose prevede forti restrizioni nell’applicazione del diritto d’asilo e un profilo ancor più repressivo sui migranti considerati economici – la Francia di Macron con la nuova legge sull’immigrazione e l’asilo cerca di dettare la linea e smuovere l’inerzia di Bruxelles.

Se da un lato la politica degli Stati membri si configura proprio in un’ottica di irreggimentare i controlli alle frontiere, dall’altro è ormai chiaro quanto tutto ciò avrà ricadute sempre più dure. Già oggi per un migrante senza titolo di viaggio tentare di attraversare una frontiera è quasi impossibile senza pagare la libertà a un passatore o senza percorrere vie impervie, rischiando di perdere la vita. Ci sono testimonianze e dossier puntigliosi che denunciano gli abusi e le violenze dei respingimenti arbitrari: insomma, anche se questo corollario produce ancora troppo poca indignazione, le notizie circolano da molto tempo.
Meno, invece, si ha conoscenza dell’ampiezza numerica delle azioni di sostegno ai migranti, degli strumenti utilizzati, di quelli che sono risultati efficaci o inefficaci; di solidarietà attiva spesso si parla solo quando i cittadini solidali incappano nelle maglie repressive della criminalizzazione.

Esiste una molteplicità di soggetti attivi in esperienze e pratiche di aiuto molto differenti tra di loro, derivanti da attitudini e modalità di rapportarsi e supportare le persone migranti non omogenee. Questo moltiplicarsi di azioni viene genericamente definito “solidarietà”, ma si articola in sportelli legali e di assistenza sanitaria, in attività di osservatorio e monitoraggio nelle stazioni e nei valichi di frontiera, in distribuzione di vestiario e cibarie, in ospitalità temporanea presso “rifugi solidali”.
Semplificare eccessivamente un campo dinamico nel quale le peculiarità territoriali e soprattutto il legame sociale costruito dalle realtà di base che vi operano sono storie diverse, non contribuisce a comprenderlo appieno. Ad esempio la Val di Susa, dove è radicata una storia di resistenza partigiana e di lunga lotta No Tav, non è minimamente confrontabile con l’Alta Valle Isarco: come evidenzia Wu Ming 1 nel libro “Un viaggio che non promettiamo breve” è da venticinque anni che il movimento popolare valsusino sperimenta attingendo dal passato forme nuove di partecipazione, autogestione, condivisione. E così Ventimiglia non è Como, Tarvisio o Gorizia.
Si può tranquillamente dire che dove esistono delle comunità resistenti che hanno in sé principi e pratiche di solidarietà e di mutualismo, che agiscono da contrasto alla frammentazione sociale odierna e all’individualismo spinto, tutto è possibile.

La solidarietà verso i migranti che cercano di attraversare quei confini si esprime perciò a seconda della soggettività che in quei territori si manifesta. In alcuni territori aridi di movimenti o di gruppi di volontari, il massimo che può accadere è che sia una Ong a riempire un vuoto. In altre zone, invece, sarà la collaborazione tra Ong e società civile a mitigare gli abusi provocati dal regime del confine.
Ci pare evidente che sarà improponibile pensare di risolvere le differenze esistenti raffigurando un luogo avanzato di lotta per la libertà di movimento e pensare che altri territori possano riprodurre quelle specificità. Come questo meccanismo non produce nulla di fronte ad una lotta contro una grande opera così non funzionerebbe in questo caso. La domanda che vale la pena di porsi è: come condividere esperienze e conoscenze? Come dare strumenti alle realtà sociali in un territorio di confine a crescere e consolidarsi?
Immaginiamo che tra queste possa esserci uno scambio proficuo, che possano arrivare degli spunti dettati dall’esperienza diretta, da pratiche virtuose o dalle difficoltà riscontrate affinché ci sia confronto e un contributo comune per ricercare potenziali soluzioni.

Sinergie meticce

Operare sul confine è logorante e frustrante, e capita che dove l’intervento sia dettato esclusivamente da ragioni umanitarie provochi, anche se non voluti, atteggiamenti paternalistici o un approccio ri-vittimizzante. Di fronte non ci sono solo persone bisognose di aiuto, ma soggetti attivi che hanno strumenti forgiati nelle difficoltà proprie del viaggio migratorio. Certo, le associazioni, i gruppi informali, le ong hanno il dovere di fornire informazioni dettagliate sulla legislazione per orientare nella comprensione delle leggi, ma sempre con l’obiettivo di condividere elementi che contribuiscano a favorire l’autodeterminazione della persona migrante.

Occorre perciò considerare come elemento centrale, dal quale partire, la libertà del migrante di decidere autonomamente e di autodeterminarsi. Questo principio deve direzionare qualsiasi intervento, anche quello umanitario, pur se la scelta dei e delle migranti non è quella ottimale. Se un migrante vuole attraversare un confine, lasciare un paese per cercare di costruirsi un presente in un altro, anche se questo è incerto e lo metterà potenzialmente in situazioni di difficoltà e ulteriore precarietà, è giusto che sia supportato nel farlo.
Non va reiterata la stessa logica della politica sull’immigrazione che non tiene conto e annulla i desideri delle persone.

Se guardiamo al pacchetto di riforme delle politiche europee in tema di immigrazione, non prevediamo, quantomeno nel medio periodo, che ci siano passaggi che porteranno ad un alleggerimento dell’attenzione sui nostri confini. Macron, in questo momento, detta le priorità interne dell’agenda europea sull’immigrazione. Allo stato attuale delle cose, non è pensabile di attendere il tempo della politica istituzionale: è possibile, quindi, costruire convergenze dal basso per aprire i confini con la determinazione dei propri corpi o con l’intelligenza diffusa delle pratiche solidali? E’ possibile aggredire il nodo dei confini attraverso una agenda di movimento che sappia coinvolgere tutti quei cittadini che riconoscono la libertà di muoversi all’interno dello spazio europeo come la base di una cittadinanza comune europea?

L’assemblea del 6 maggio a Genova, promossa dal Progetto20K per costruire una grande mobilitazione a Ventimiglia il 14 luglio, può essere uno dei momenti nel quale confrontarsi e provare a costruire un movimento no borders all’altezza della sfida.

Redazione

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