Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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da Liberazione del 28 dicembre 2003

Non si scorda una strage di Stefano Galieni

Oggi a Trapani, a quattro anni dal rogo del Vulpitta

Un flash. I ricordi tornano a quella domenica di gennaio del 2000. La tragedia si era consumata da pochi giorni, in una notte maledetta, quella del 28 dicembre 1999, di quelle che si fatica a rimuovere. Fra i primi ad entrare nella cella del “Serraino Vulpitta”, il Cpt di Trapani, c’era anche Dino Frisullo. Si era precipitato ed aveva convinto in molti a mollare la tranquillità delle feste, per dare man forte ad una manifestazione di protesta e di denuncia indetta dal Coordinamento trapanese per la pace. Qualcuno dalla prefettura aveva già trovato il tempo per far imbiancare le pareti, ma il pavimento era ancora nero, nere erano le sbarre delle celle e nell”aria si percepiva ancora l’odore aspro della gomma piuma bruciata. Una notte come le altre quella del 28 dicembre, interrotta dall’ennesimo tentativo di fuga.
Non era la prima volta che qualcuno tentava di rifiutare quella che per lo Stato era “ospitalità”. Avevano annodato le lenzuola e si erano calati dal secondo piano della palazzina, un tempo adibita al ricovero per anziani, poi, come al solito, era cominciata la caccia all’uomo. L’elicottero che si alza e illumina a giorno le strade laterali, le volanti che sfrecciano, gli abitanti della zona che assistono con fatalista indifferenza. Un’operazione efficiente: in poche ore i fuggitivi sono ripresi e, con le buone o con le cattive, ricacciati nelle loro stanze. Passa poco tempo e dalla palazzina si alza un fumo ed un odore acre. Scatta l’allarme, i 12 agenti di guardia non riescono a trovare le chiavi, c’è un buco nero in quello che accade in quella mezzora. La responsabilità è del Prefetto? Degli agenti? Del mancato funzionamento degli estintori? A dare fuoco ai materassi uno dei prigionieri, disposto a tutto pur di evitare il rimpatrio. C’è un processo ancora in corso ma in quei frenetici momenti ci fu chi ebbe la prontezza di far rispedire, nei paesi di provenienza, i testimoni diretti della strage. Già una strage. Come altro definire la morte atroce di sei persone colpevoli solo di voler vivere nella nostra ricca Europa? Perché quando finalmente qualcuno ha tirato fuori il mazzo di chiavi e chiavistelli che avrebbe permesso forse di evitare la strage, tre ragazzi magrebini erano già morti carbonizzati. Gli altri se ne sono andati lentamente con l’irraccontabile dolore del reparto “grandi ustionati” dell’ospedale di Palermo. Un altro flash, il racconto commosso e partecipe di Mimma che ha seguito il mese e mezzo di agonia dell’ultima delle vittime, in un alternarsi incalzante fra speranza e disperazione. Diceva di chiamarsi Nasim ma il suo nome era Feisal. Ci sono voluti venti giorni per dargli un nome e restituirlo alla famiglia. Nel frattempo i compagni che avevano sperato, ne vegliavano la salma con uno striscione “Nasim: mai più senza nome”.

Il nome è la prima cosa che si perde in un Cpt, una rinuncia per non farsi identificare, per evitare la sconfitta del rimpatrio ma anche una condizione tipica delle istituzioni totali come carceri e manicomi. Ai nomi, alle singole storie che dietro i nomi si nascondono, è legato il lavoro silenzioso e necessario del Coordinamento trapanese per la pace. Valeria Bartolino, che ne è animatrice, è ancora lì, come quattro anni fa, a raccogliere testimonianze, a prendere le difese degli sconfitti, tentando di strapparne qualcuno alle maglie della xenofobia legislativa. In quattro anni ne sono successe tante: non si contano i tentativi di fuga, di suicidio, gli atti di autolesionismo e le rivolte messe in atto. La situazione si è inasprita con la Bossi Fini che raddoppia i tempi di permanenza nel centro: sessanta giorni senza poter far nulla, in attesa e in gabbia. Chi non impazzirebbe?

Oggi il “Vulpitta” è chiuso per ristrutturazione, capita spesso, troppo spesso, forse solo l’ennesima trovata per ampliare il cospicuo business che già circola grazie ai Cpt. Nel frattempo, a pochi chilometri dal centro, in località Salina Grande, è stato aperto un “Centro per l’identificazione dei richiedenti asilo”. Ci finiscono coloro che provengono da Lampedusa, pare che ricevano un trattamento migliore, ma non esiste ancora alcuno straccio di regolamento attuativo che ne definisca lo status.

E oggi si torna a Trapani per non dimenticare, per non lasciare allo stanco procedere di un dibattimento processuale, una memoria che coinvolge tutti. Alle 9 ci si incontra in assemblea alla Cittadella della salute, alle 14 si tiene un presidio a Salina Grande, una delegazione entrerà a visitare i locali: ne faranno parte parlamentari nazionali e regionali del Prc insieme a compagne e compagni del movimento. Alle 16 partirà un corteo da Piazza Vittorio Emanuele, raggiungerà il “Vulpitta”dove si fermerà in attesa dell’ingresso di un’altra delegazione. La preparazione della manifestazione ha visto compartecipi a pieno titolo molte realtà del movimento antirazzista siciliano e nazionale, molti arrivano con pullman organizzati anche dalle federazioni del Prc, molti con i propri mezzi, qualcuno giunge dall’Austria, dal Belgio, dalla Germania, perché il cancro dei Cpt è qualcosa che dilaga nell’intera Europa. Vengono per dire che non c’è spazio nel diritto per luoghi come questi, che le persone non possono essere private della libertà di muoversi da un paese all’altro. Vengono a rivendicare il diritto alla fuga. Il 31 gennaio in tutta Europa, si manifesterà in nome e per conto dei senza diritti, per una cittadinanza universale e non sottomessa alle esigenze del mercato.

Quella di oggi è una tappa.