Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Note a margine del disegno di legge governativo in materia di cittadinanza

A cura dell' Avv. Stefano Rossi

Riceviamo e pubblichiamo il materiale inviatoci dall’Avv. Rossi*, che ringraziamo.

Premessa

Al 1° gennaio 2006 gli stranieri residenti in Italia sono 2.670.514 (1.350.588 maschi e 1.319.926 femmine). Rispetto all’anno precedente gli iscritti all’anagrafe aumentano di 268.357 unità (+11,2%).
L’incremento è inferiore a quello registrato nei due anni precedenti, quando l’aumento dei residenti stranieri era stato determinato in larga misura dagli ultimi provvedimenti di regolarizzazione (Legge n.189 del 30 luglio 2002, art. 33, e Legge n.222 del 9 ottobre 2002), grazie ai quali numerosi immigrati, già irregolarmente presenti in Italia, avevano potuto sanare la propria posizione e iscriversi successivamente all’anagrafe.

La crescita della popolazione straniera residente nel nostro paese è dovuta anche all’aumento dei nati di cittadinanza straniera (figli di genitori entrambi stranieri residenti in Italia) che nel 2005 si traduce in un saldo naturale (differenza tra nascite e decessi) in attivo di 48.838 unità. Il saldo, pur essendo nettamente inferiore rispetto a quello determinato dai flussi migratori, è particolarmente significativo soprattutto se contrapposto al bilancio naturale della popolazione residente di cittadinanza italiana, che risulta invece negativo per 62.120 unità. [1]

Questi dati ci interrogano e sollevano un problema che necessita di una risposta, attesa ormai da un decennio, che si deve tradurre necessariamente in un ripensamento della legge che regola l’acquisizione della cittadinanza in Italia.

La revisione di una legge non è però sufficiente, è indispensabile ripensare la stessa nozione di cittadinanza alla luce dei mutamenti sociali che hanno coinvolto anche il nostro paese. Si tratta infatti di porre al centro della nostra riflessione una categoria centrale della concezione liberale di democrazia, un concetto “strategico” per chi voglia studiare il funzionamento delle istituzioni democratiche poiché consente, unendo l’approccio giuridico a quello sociologico, di associare il tema dei diritti soggettivi a quello delle ragioni “pregiuridiche” dell’appartenenza o dell’esclusione dal contesto politico che li garantisce e nel quale si attuano. [12]

Partendo da questo approccio complesso ci si può domandare: chi è oggi il cittadino? Egli ci appare immediatamente come colui che appartiene, per discendenza familiare o connessione territoriale, ad un certo Stato nazionale. Può essere distinto dallo “straniero” perché è soggetto alla legislazione del proprio Stato: gode infatti dei diritti in essa stabiliti, e deve adempiere agli obblighi che essa pone. La cittadinanza, quindi, è uno status soggettivo che denota l’appartenenza ad una comunità politica, e ha come conseguenza la titolarità di una serie di diritti, riconosciuti e garantiti dalla comunità medesima.

Ma non solo, infatti, la polisemia della lingua italiana consente al concetto di “cittadinanza”, categoria fondamentale sia dell’analisi socio-politica sia di quella giuridica, di assumere una pluralità di significati, venendo usata in particolare [13] :
a) per indicare la condizione di chi fa parte di uno Stato, essendo soggetto alle leggi di questo e godendo, in virtù dell’appartenenza, di specifici diritti ed obblighi tra i quali in particolare i diritti politici e l’obbligo di effettuare determinate prestazioni (cittadinanza-appartenenza);
b) per indicare il complesso di diritti che fanno di una persona un vero cittadino (cittadinanza-partecipazione), con particolare riferimento alla graduale acquisizione di nuove categorie di diritti.[14]

La complessità del concetto può essere semplificata attraverso l’utilizzo della metafora dell’albero, il cui tronco, insieme con le radici, è costituito dallo statuto giuridico di persona, internazionalmente riconosciuto come tale, i cui rami sono costituiti dalle cittadinanze nazionali e sub-nazionali: la cittadinanza della persona, quindi, messa in relazione alle esigenze di una nuova organizzazione politica, economica e comunicativa del mondo su più livelli, è una cittadinanza plurima, contemporaneamente universale (o primaria, identica per ogni persona ovunque questa si trovi), europea nel nostro caso, nazionale, regionale e anche municipale [15]

La cittadinanza dunque, con il suo corredo di diritti, non è un concetto astratto, bensì va necessariamente contestualizzata nella comunità di appartenenza del soggetto, comunità formata da individui legati da rapporti di reciproco riconoscimento e fiducia. Storicamente questa comunità ha coinciso con l’ethnos, in ragione del carattere immediato e coinvolgente che esso comporta; ma una volta consolidata, accanto alla tradizione “etnica”, anche una tradizione democratica di partecipazione e di esercizio dei diritti, nulla vieta di allargare i criteri di ascrizione alla comunità, facendo della fiducia e la comprensione reciproche tra i suoi membri caratteristiche imprescindibili della sua stessa esistenza. [16]

Se è così, allora la cittadinanza potrà svolgere, anche in questo momento di crisi dello stato nazionale e di affermazione di uno scenario politico ed economico globale, quel ruolo di promozione dei diritti e di democratizzazione che ha contraddistinto la formazione dello Stato moderno, solo nella misura in cui verrà riformulata in una maniera adeguata a questo nuovo contesto.

In questo senso bisogna prendere atto che, come nel resto d’Europa, anche in Italia l’entità del fenomeno migratorio e le sue caratteristiche stanno trasformando la nostra società in modo radicale e strutturale.

Prodighi di opportunità, ma anche di rischi, i mutamenti sociali devono essere dunque accompagnati da modifiche del tessuto normativo : per questo la riforma della legge sulla cittadinanza, costituendo l’architrave di una coerente politica migratoria e di integrazione, appare così rilevante da non poter essere affrontata in modo affrettato e distratto.

E’ necessario quindi che su questi temi venga promossa una discussione impegnata e profonda che sia all’altezza del problema. Se fino a ieri erano altri a dire si o no ai nostri emigranti che bussavano alle loro porte, oggi tocca a noi definire una nostra politica sull’immigrazione e ciò comporta un cambio di prospettiva in quanto non possiamo rimanere gli stessi di ieri : non interviene un cambiamento di status e di statura geo-politica tanto importante senza una riflessione sulla natura e la qualità della nostra identità nazionale.

Questo cambiamento riguarda innanzitutto le istituzioni e il loro modo di essere e di lavorare. Non ci si trasforma da terra di ex emigranti in terra di immigrazione senza cambiare a fondo almeno alcuni punti del carattere nazionale. In questa materia, infatti, non ci si può limitare a sommare, senza correre seri rischi, passato e futuro. In fondo oggi, come dopo l’Unità si pone, sia pure in tutt’altro contesto, il problema che ha assillato tanti: come fare gli italiani. [2].

Brevi cenni sulla legislazione vigente

Dopo la Legge Martelli nel 1990, la Legge di riforma dell’acquisizione della cittadinanza (L. n.91/92) poteva essere (ed in molti ci aspettavano che fosse) un completamento necessario della legge sull’immigrazione, nel senso di dare una prospettiva nuova e positiva alle persone immigrate regolarmente soggiornanti; in altre parole, poteva essere un’occasione per dare un messaggio di inclusione, invece, così non è stato: la legge del 1992 ha peggiorato alcuni aspetti della legge precedente a partire dai 10 anni anziché 5 di residenza per l’acquisto della cittadinanza richiesti alle persone immigrate. [8]

Sulla base di una impostazione ormai anacronistica, nonostante che nel 1992 si stesse consolidando l’immigrazione verso l’Italia da paesi non appartenenti all’Unione Europea, il legislatore dell’epoca ideava una legge volta a tutelare più l’emigrazione degli italiani (fenomeno ormai limitato) che non l’immigrazione di stranieri verso il nostro paese: al punto che il relatore della L.n.91/92 definì, durante l’iter della stessa, l’immigrazione extracomunitaria in Italia una “ipotesi residuale”.

Il legislatore del 1992, premesso che i disegni di legge in materia (del Governo e del Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige) risalgono al dicembre 1988 – luglio 1989, e perciò a poco prima dell’approvazione della c.d. legge Martelli (d.l. 30.12.1989, n. 416 conv. in l. 28.2.1990, n. 39) non aveva ancora una visione corretta e obiettiva del fenomeno immigratorio, e nemmeno una previsione lungimirante. [9]

Dominante, allora, era la considerazione dell’emigrato italiano ovvero la preoccupazione della tutela o rivitalizzazione delle “radici italiane” che, pel fatto dell’emigrazione, si erano troncate a seguito della perdita dello status civitatis. Prevalente era anche la necessità di consacrare in norme compiute quei principi che avevano ispirato la riforma del diritto la famiglia, la parità fra i coniugi e fra i sessi, fra discendenza paterna e materna.[10]

Tale adeguamento della normativa comportava, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale circa la salvaguardia della volontà del singolo dal momento che si verteva (e si verte) in tema di diritti personali, l’eliminazione di qualunque automatismo nell’acquisto o perdita dello status civitatis, ovvero subordinare tali effetti a condizioni rigide, connesse ad un comportamento del singolo da cui si deducesse, direttamente o indirettamente, comunque in modo inequivocabile, la sua volontà.

All’epoca, quindi, nel tentativo di adattare la legislazione allo spirito democratico ed egualitario contenuto nel preambolo dell’Atto unico europeo, il legislatore, pur provvedendo ad adeguare la normativa sulla cittadinanza al dettato costituzionale e ai mutamenti di costume sotto il profilo della parità di sesso, ha finito per accentuare il divario tra cittadini “comunitari” e “non comunitari”, aumentando per questi ultimi, da cinque a dieci anni il periodo di residenza necessario per l’acquisizione del nostro status civitatis [11]

Conseguenza di tale impostazione è che, nella legge del ’92, il principio dello ius sanguinis è ancora dominante, mentre lo ius soli ha rilievo assai modesto e trova applicazione in casi limitati, in particolare :
A) Persona nata in Italia qualora a) entrambi i genitori siano ignoti oppure b) siano apolidi; c) il figlio non segua la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale essi appartengono (cfr. art. 1, 1° comma, lett. b; un accertamento in tal senso è richiesto dall’art. 2 del d.P.R. n. 572/93, ponendo peraltro limiti discutibili, che dipendono dalla legge straniera dei genitori: l’acquisto jure soli è impedito se tale legge richiede una dichiarazione espressa del genitore o l’adempimento di formalità amministrative da parte dello stesso).
B) Persona nata in Italia (straniero, quindi, alla nascita perché figlio di straniero) che abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno da tale data. In tal caso l’acquisto della cittadinanza italiana non è automatico, ma è richiesta una specifica manifestazione di volontà (cfr. art. 4, 1° comma, lett. c).
C) Persona nata in Italia ma che, diversamente dall’ipotesi precedente, non abbia maturato il periodo di residenza richiesta, bensì soltanto un periodo di residenza legale di almeno tre anni. In tal caso l’acquisto della cittadinanza si verifica a seguito di decreto di concessione del Presidente della Repubblica, e perciò in virtù del procedimento di naturalizzazione (cfr. art. 9, lett. a).
D) Persona “trovata” in Italia (e pertanto nata nel territorio nazionale ovvero all’estero), che sia figlia di ignoti e non venga provato il possesso di altra cittadinanza (cfr. art. 1, 2° comma).

Per cui la legge vigente ha introdotto quindi norme più severe e restrittive rispetto a quelle contenute nella legge 13 giugno 1912 n. 555, per quanto concerne l’applicazione dello ius soli, consentendo l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli stranieri solo in presenza del requisito della residenza continuativa nel Paese dal momento della nascita fino alla maggiore età (art. 4 co. 2).

Ma vi sono molti altri punti critici nella legislazione vigente, che necessitano di un ripensamento, e che possono essere sintetizzati attraverso il riferimento agli snodi fondamentali della normativa: a) la permanenza di discriminazioni fra uomo e donna (marito o padre, e moglie o madre) nell’acquisto e riacquisto della cittadinanza (i figli nati da madre che abbia riacquistato la cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 219 della legge n. 151/75 di riforma del diritto di famiglia, o i figli nati prima del 1948 da madre italiana sono tuttora ritenuti stranieri); b) il mancato rispetto della volontà del singolo e la presenza di effetti automatici estranei alla volontà, peraltro censurati dalla Corte costituzionale (sentenze del 16.4.1975, n. 87 e del 9.2.1983, n. 30; si ricorda, per esempio, l’automatico riacquisto della cittadinanza italiana da parte di chi l’abbia perduta ed abbia risieduto in Italia per un anno, ex art. 13, 1° comma, lett. d); c) l’eccessiva durata del procedimento di concessione della cittadinanza per naturalizzazione ovvero di acquisto a seguito di matrimonio con cittadino italiano; d) la condizione di residenza in Italia per un periodo eccessivamente lungo, ai fini della naturalizzazione, considerata sia la condizione privilegiata dei cittadini comunitari e la previsione nel Trattato sull’Unione europea dello specifico istituto della “cittadinanza dell’Unione” (art. 8 ss.); sia l’introduzione della “carta di soggiorno” ex art. 9 t.u. in materia di immigrazione, che è segno distintivo della sostanziale parità di diritti fra stranieri e cittadini (pur con alcuni, discutibili limiti) e che si ottiene dopo sei anni di residenza in Italia (la naturalizzazione ex lege n. 91/92, art. 9, 1° comma, lett. d, f si ottiene dopo quattro anni per i comunitari e dieci per gli extracomunitari); e) l’incertezza di previsioni circa la disponibilità di redditi richiesta ai fini della naturalizzazione; f) la previsione dello “svincolo” dalla cittadinanza originaria (posto come condizione della naturalizzazione) da parte dello Stato di appartenenza dello straniero; g) la necessità di introdurre una semplificazione nelle procedure per la produzione di documenti (in particolare da parte dei rifugiati).[12]

In particolare è stato oggetto di critiche ed anche sospettato di incostituzionalità l’art. 9 che stabilisce periodi assai diversi di legale residenza nel territorio italiano per la concessione della cittadinanza (per decreto del Presidente della Repubblica) a seconda che si tratti di un “cittadino comunitario” o “extracomunitario”. Quest’ultimo – come detto – può diventare cittadino italiano se risiede legalmente da dieci anni nel territorio della Repubblica, il primo, invece, soltanto quattro anni. Il dubbio di costituzionalità – per contrasto con l’art. 3 Cost. che sancisce il principio di eguaglianza- è stato sollevato dinanzi al tribunale regionale amministrativo del Trentino—Alto Adige nel 1995 che però non ha investito la Corte costituzionale della questione, ritenendola manifestamente infondata .

Il fatto, tuttavia, che l’art. 9 possa non essere incostituzionale, non significa che sia anche opportuno e che soddisfi esigenze da privilegiare. Sembrano invero giustificate le critiche alla eccessiva lunghezza del termine previsto per la concessione della cittadinanza agli “stranieri” e all’eccessiva diversità di trattamento rispetto ai cittadini “comunitari” (e già per essi il termine di quattro anni è stato da molti criticato come eccessivo): di certo un termine di dieci anni non favorisce l’integrazione.

Su questo punto si esprime la proposta, oggetto della presente analisi, diretta ad una riduzione del termine stesso (a cinque anni) per gli stranieri regolarmente residenti nel territorio dello Stato. Ed in proposito va ricordato che già in sede di approvazione della legge del’92 era stato proposto un emendamento diretto ad abbassarlo ad otto anni. Ciò sarebbe anche in armonia con la Convenzione di Strasburgo sulla nazionalità del ‘97 la quale all’art. 5 comma 3, stabilisce che ciascuno Stato parte deve prevedere la possibilità della naturalizzazione per “le persone che risiedono legalmente ed abitualmente nel suo territorio; e che non deve essere previsto, tra le condizioni richieste, “un periodo di residenza superiore a dieci anni”, anteriore alla richiesta di acquisto della cittadinanza. E’ facile osservare che i dieci anni previsti dalla legislazione italiana costituiscono il limite massimo non valicabile: quindi la loro modifica appare maggiormente in linea con la Convenzione.[13]

Il disegno di legge governativo

Dopo oltre un decennio della riforma, la vigente legge del 5 febbraio 1992, n. 91, recante “Nuove norme sulla cittadinanza”, cui è seguito il d.P.R. del 12 ottobre 1993, n. 572 contenete il regolamento di esecuzione della stessa, anche alla luce della prassi e dei mutamenti sopravvenuti nella società italiana, richiede da un lato aggiustamenti strumentali rispetto alle esigenze sorte ed evidenziatesi nel tempo e, dall’altro lato, modifiche che tengano conto del fenomeno dell’immigrazione in Italia, ormai consolidatosi nel contesto nazionale.

A fronte di un’immigrazione stanziale e di una crescente sensibilità per i diritti dei minori, quasi tutti i paesi europei hanno introdotto nel dopoguerra, o rafforzato se già l’avevano, l’elemento dello jus soli, accogliendo il principio della attribuzione automatica in caso di doppia nascita sul territorio. Così molti paesi europei favoriscono i nati sul territorio con forme di naturalizzazione facilitata, persino la Germania già con la legge del 1990 ha favorito l’acquisizione della cittadinanza per i giovani tra i 16 e i 23 anni che abbiano vissuto lì per 8 anni e abbiano frequentato la scuola per 6 (4 dei quali alle secondarie), e addirittura con la riforma del 1999 la condizione della frequenza scolastica è stata soppressa [14]

Il disegno di legge governativo non rappresenta certo una delle soluzioni più avanzate, anzi si assesta in una prudente mediazione: infatti mentre esclude l’introduzione generalizzata anche in Italia del principio dello jus soli per l’acquisizione automatica alla nascita, dall’altra, modificando il co. 2 dell’art. 4 della legge n. 91/1992 prevede la possibilità di acquisire la cittadinanza per il minore figlio di genitori stranieri, di cui almeno uno residente legalmente in Italia senza interruzioni da almeno cinque anni e in possesso del requisito reddituale per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, che, anch’esso legalmente residente in Italia senza interruzioni per un periodo non inferiore a cinque anni, vi abbia frequentato un ciclo scolastico o un corso di formazione professionale o vi abbia svolto regolare attività lavorativa per almeno un anno.

Il principio ispiratore della riforma proposta costituisce una precisa alternativa sia allo ius sanguinis sia allo ius soli: è il cosiddetto ius domicilii, che si affianca allo ius soli per chi non e` nato in Italia ma si trova a vivere nel nostro Paese gli anni decisivi della formazione della sua personalita`.

In mancanza di nascita sul territorio (o di possibilità di provarla), il disegno di legge quindi richiede – come nei paesi scandinavi – la residenza in Italia del minore per un periodo minimo di 5 anni continuativi, consentendo l’acquisizione della cittadinanza per i figli di stranieri che siano in possesso dei requisiti reddituali propri dei soggiornanti di lungo periodo e dello stesso tempo di permanenza che permetterebbe loro di presentare domanda di naturalizzazione.

La domanda congiunta da parte dei genitori (o del genitore esercente la potestà) è consentita, non alla nascita come avviene in Gran Bretagna, ma quando si evidenzi un progetto di stabilità per il bambino, cioè dopo che quest’ultimo abbia frequentato un ciclo scolastico o un corso di formazione professionale o purchè abbia svolto regolare attivita` lavorativa per almeno un anno, in modo da garantire un buon livello di socializzazione.

In queste ipotesi, essendo la scelta stata fatta dai genitori, il ragazzo – come avviene in altri paesi – potrebbe rinunciare alla cittadinanza italiana alla maggiore età, avendo a disposizione un arco di tempo ragionevole (un anno) dal compimento della stessa.

Il disegno di legge integra l’art. 1 della legge aggiungendo le lett. b bis) e b ter) limita l’applicazione del principio dello jus soli a chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno sia nato e residente in Italia ovvero sia quivi legalmente residente senza interruzioni da almeno cinque anni al momento della nascita ed inoltre sia in possesso del requisito reddituale per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

Tale disposizione evidentemente è volta a superare i vincoli all’acquisizione della cittadinanza insiti nella normativa vigente, tra le più severe in Europa con i figli di stranieri nati nel territorio dello Stato poiché rispetto alla precedente legge del 1912 ha introdotto il requisito, difficile da provare e da rispettare, della residenza continuativa. Ciò in controtendenza rispetto ad altre legislazioni : ad es. quella inglese o portoghese che consente l’acquisizione su richiesta addirittura alla nascita ai nati sul territorio da genitori che abbiano un permesso di soggiorno permanente o dopo dieci anni di residenza.

L’acquisto jure soli della cittadinanza italiana viene quindi favorito modificando la norma che impone la residenza, continuativa, per almeno diciotto anni quale è normalmente il periodo richiesto ai fini del conseguimento della maggiore età (art. 4, 2° comma in combinazione con l’art. 1 d.P.R. n. 572/93).

Permane comunque il requisito della residenza “legale”, non imposta dalla legislazione previgente (al punto che era sufficiente dimostrare la residenza di fatto), che impone un ingresso e soggiorno regolare in Italia e l’iscrizione anagrafica, con la conseguenza che il figlio di irregolari non può beneficiare della norma, bensì solo richiedere la naturalizzazione, sussistendone i presupposti (art. 9, 1° comma, lett. a).

In generale la proposta governativa si pone in una linea di continuità con le discipline europee: infatti mentre la Francia consente la naturalizzazione prima dei 18 anni, proprio per evitare una percezione di diversità e di emarginazione ai bambini, e riconoscendo ai genitori la facoltà di richiedere la cittadinanza per i figli a partire dall’età di 13 anni, se il bambino nato in Francia, risiede lì dall’età di 8 e vi sia stato per 5 anni, la Germania, invece, con la riforma del 1999, ne prevede l’acquisto alla nascita, se almeno un genitore vive da 8 anni in Germania, ponendo quali requisiti indispensabili o una consistente presenza del figlio dopo la nascita, o una consistente presenza dei genitori prima della nascita, perché entrambi questi fatti sono garanzie di inserimento e di impegno.[15]

Le condizioni poste dal disegno di legge (riprese in parte dalle altre legislazioni europee) sono inoltre essenzialmente volte a favorire l’integrazione sociale attraverso l’acquisto della cittadinanza italiana degli immigrati della terza generazione, i cui genitori (o anche uno solo di essi) siano nati in Italia e, risiedendovi al momento della nascita del figlio, dimostrino implicitamente di aver fissato nel nostro paese la loro stabile dimora e di essersi quindi inseriti nel tessuto sociale, pur senza essere divenuti, per naturalizzazione, cittadini.

E’ utile ribadire che l’Italia si colloca, dopo la legge del 1992, nella fascia di severità estrema, che è anche la soglia massima prevista dalla convenzione del Consiglio D’Europa del 1997, ma il fatto più singolare è che l’Italia è l’unico paese che, nel dopoguerra, ha aumentato e non ridotto gli anni di residenza richiesti, passando da 5 a 10 per i non comunitari.

Così mentre quasi tutti i paesi considerano relativamente più importante il vivere nel paese, il conoscerlo, l’esservi inseriti che non essere uno straniero con un nonno o un genitore cittadino ma lui stesso nato, istruito e vissuto sempre all’estero, quest’ultima in Italia costituisce una condizione di vantaggio tale da abbassare il requisito della residenza da 10 a 5 anni.

La proposta, contenute nel disegno di legge (art. 4 co.2) di ridurre il divario nell’attesa tra i discendenti di italiani, i cittadini dei paesi dell’Unione e i non comunitari appare dunque opportuna : si tratta, sostanzialmente, di diminuire i tempi di residenza per gli immigrati non comunitari, riportandoli ai 5 anni della legge del 1912 e delle disposizioni prevalenti in Europa. Tale modifica della disciplina però non è sufficiente in quanto per risultare efficace dovrebbe essere accompagnata da una semplificazione delle procedure, standardizzandole a livello nazionale, prevedendo, inoltre, un tempo massimo di attesa di un anno, trascorso il quale il richiedente può rivolgersi al giudice ordinario per ottenere la cittadinanza, come nel caso di naturalizzazione per matrimonio.

Infine il disegno di legge, con l’introduzione dell’art. 9 bis, intende sottoporre tutte le naturalizzazioni – anche quelle per matrimonio – ad una verifica della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero nel territorio dello Stato, che si potrebbe concretare nella previsione di un elementare test linguistico e di cultura italiana, accompagnato dalla fornitura gratuita di un corso che aiuti a sostenerlo.

Tale modifica appare in linea con la maggioranza dei paesi dell’Unione che richiedono la conoscenza della lingua come condizione per la naturalizzazione, oltre al requisito di non aver commesso reati, anche esso presente in quasi tutte le legislazioni.

Si deve infine rilevare una contraddizione nell’attuale disciplina rappresentata dalla circostanza che mentre in materia di minori e naturalizzazione degli stranieri non comunitari, l’Italia presenta una legislazione decisamente severa, al contrario decisamente più generosa è la disciplina sulla naturalizzazione per matrimonio.

Questa ultima è diventata però per l’Italia un problema soprattutto a seguito dell’adozione della risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 1997 che individuava, tra le priorità di collaborazione degli Stati aderenti nei settori della giustizia e degli affari interni, anche prima dell’entrata in vigore del trattato di Amsterdam, la “lotta ai matrimoni fittizi”.

La estrema facilità con cui, in Italia, si ottiene la cittadinanza per matrimonio costituisce una vera e propria anomalia giuridica: bastano sei mesi di matrimonio ai residenti in Italia e tre anni ai residenti all’estero. Ad aggravare la situazione è intervenuta la giurisprudenza del Consiglio di stato (Parere Adunanza Generale 30.11.1992) che ritiene non necessaria la persistenza del vincolo ancora al momento del decreto di naturalizzazione e dato che per questa procedura è già previsto un termine di scadenza certo (2 anni) passato il quale si può chiedere al giudice la registrazione, si comprende quindi perché, in Italia il grosso delle naturalizzazioni (nel 2005, 11.854 contro 7412 per residenza) avvenga per questa via.

In altri paesi, al contrario, si è cercato di porre un argine a quest’uso strumentale del matrimonio, prevedendo soglie rigide ed elevate : così gli anni di matrimonio e di residenza richiesti sono 3 in Olanda e in Belgio (stessa regola vale per i conviventi), la Danimarca chiede 3 anni di matrimonio e 4 di residenza, la Francia 1 anno di matrimonio e di residenza o un figlio in comune.

In questa direzione si situa il nuovo art. 5 della proposta governativa di modifica della legge del 1992 prevedendo che “Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano acquista la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni se all’estero, qualora, al momento dell’adozione del decreto di cui all’articolo 7, comma 1, non sia intervenuto scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista separazione personale dei coniugi”.

Un’ultima questione che non appare affrontata nel disegno di legge è quella relativa alla doppia cittadinanza : l’Italia dal 1992 ha introdotto la doppia cittadinanza, l’aveva però poi di fatto impedita (tranne nei soliti casi ammessi anche dai paesi che la vietano e per gli stranieri di origine italiana) con un decreto ministeriale 22 novembre 1994.

Con il decreto del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2004 si è abrogato il punto 3) del DM 22.11.1994, che imponeva di allegare alla richiesta di naturalizzazione il “certificato di svincolo della cittadinanza” rilasciato dalle autorità consolari del paese d’origine. Tale certificato costituiva solo il primo passo del processo di rinuncia alla cittadinanza, non era un atto irreversibile e chi ne faceva richiesta doveva comunque dare ancora il suo assenso prima di essere cancellato dall’elenco dei cittadini del suo paese d’origine: ciò comportava, tra l’atro che spesso molti consolati, pur rilasciando il certificato, non davano nessun seguito alla richiesta.

Tale modifica delle normativa è stata determinata dall’opportunità di uniformare la concessione della cittadinanza italiana al principio del riconoscimento della nazionalità plurima, anche quale fattore di integrazione nell’ambito della società e di adeguare la procedura di concessione dello status civitatis a criteri di razionalizzazione e semplificazione, eliminando dunque lo “svincolo diplomatico” introdotto con decreto ministeriale del 1994.

In questo senso ha militato anche la circostanza che alcuni paesi del Sud del mondo i quali non ammettevano la doppia cittadinanza hanno cambiato indirizzo negli ultimi anni per tenere conto della quota crescente dei propri cittadini che emigrano e come modo per non far perdere loro i legami con il paese d’origine ed i parenti.

Un’indagine effettuata nel 1998 ha evidenziato che, delle prime trenta nazionalità presenti in Italia, solo in sette paesi le leggi nazionali non ammettono la doppia cittadinanza : questo vuole dire che i cittadini di una maggioranza dei paesi dai quali si emigra verso l’Italia potrebbero essere interessati all’acquisto della cittadinanza qualora le condizioni d’accesso fossero meno restrittive.

Il difficile congegno della doppia cittadinanza è certamente una misura utile tanto che alcuni studiosi ritengono che la doppia cittadinanza sia il più forte incentivo alle naturalizzazioni [16], ma essa è comunque un incentivo da usare con cautela ed accortezza, uno strumento che richiede una continua manutenzione e che è esposto a rischi e contraddizioni. Se i paesi che vietano la doppia cittadinanza non possono fare a meno di ammetterla in molti casi, i paesi che l’ammettono non possono trascurare di corredarla ad accordi bilaterali con i paesi coinvolti, tali da dare soluzioni organiche ai molteplici problemi che la doppia cittadinanza pone (si pensi alla questione più banale dell’adempimento degli obblighi di leva).

Concludendo, accorciare i tempi di attesa e predisporre una concessione della cittadinanza, non discrezionale per i nati in Italia, più in generale ridurre tempi e discrezionalità nelle naturalizzazioni da un lato, dall’altro richiedere segni di comportamento corretto e di disponibilità all’inserimento per chi voglia naturalizzarsi, contrastare i matrimoni di comodo, adoperare con cautela la doppia cittadinanza, significa inserire le normative sulla cittadinanza in un progetto di integrazione ragionevole, un progetto che non pretende assimilazioni culturali a tappe forzate, ma richiede il rispetto della legalità e la disponibilità ad apprendere gli strumenti culturali necessari ad interagire con la società in cui si risiede e dove si intende vivere.

Conclusioni

Sono quasi tre milioni gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, il 4,8 per cento della popolazione, dato vicino alla media europea. Di loro, circa il 30 per cento risiede stabilmente sul nostro territorio da oltre cinque anni. E`un’immigrazione articolata per provenienza, distribuita nelle grandi citta` e nei piccoli centri, che rende sempre più indispensabile, quindi, l’obiettivo di interesse comune dell’integrazione reciproca.

In ragione di quanto sopra, sia in ambito internazionale che nazionale, è stato fortemente auspicato un rinnovamento del concetto di cittadinanza che superasse le radicate concezioni di stampo etnico-territoriale, per dare vita a una idea di cittadinanza « aperta » di stampo socio-culturale, connessa all’effettività dell’inserimento economico, sociale e politico di coloro che intendono stabilirsi nel nostro Paese [17]

La cittadinanza diventa così un’idea unificante, non lo strumento che distingue e divide le persone. Individua un patrimonio comune che appartiene a ciascun essere umano, «un crocevia di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l’identità politico-giuridica del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica, l’intero corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri» [18]

Ecco, allora, che la cittadinanza si proietta al di là degli schemi formali, ne mostra l’inadeguatezza. La vecchia idea di cittadinanza non scompare, mantiene una funzione, ma sempre più spesso si presenta come un ostacolo proprio per la realizzazione di quei diritti della persona che aveva voluto fondare.

In questo senso il disegno di legge governativo costituisce un tentativo efficace di avvicinare su scala nazionale la nuova cittadinanza sostanziale, attributiva a tutti di un nucleo duro e incomprimibile di diritti, e l’antica cittadinanza formale, estendendo quest’ultima al un numero crescente di stranieri che vengono a vivere e lavorare nel nostro paese [19].

L’integrazione, tuttavia, non dev’essere considerata come un risultato già pienamente realizzato, ma piuttosto come un processo che proprio l’acquisto della cittadinanza può agevolare e portare a compimento.

Un processo, però che dev’essere costantemente guidato da una lungimiranza politica che impedisca il formarsi di ghetti etnici e culturali, che producono conflitti come quelli che sono emersi in Gran Bretagna o nella Francia delle banlieues.

E’ necessario valutare con cautela in che misura politiche di integrazione possano convivere con teorizzazioni di stampo comunitarista che tendono alla «concessione di diritti diversi a membri di gruppi diversi», in quanto permettere alle varie aggregazioni su base etnica o religiosa di continuare a praticare il proprio stile di vita comunitario e alle minoranze nazionali di attuare forme di autogoverno locale o clanico, da un lato persegue un interesse costituzionalmente rilevante, cioè quello di evitare che le prime vengano forzatamente riassorbite nella cultura di maggioranza e le altre siano private della possibilità di conservare il loro specifico modo d’essere nell’ambito di una particolare regione. [20]

Dall’altro, però, l’ipotesi differenzialista rappresenta un rischio per la tenuta della democrazia poiché spezza l’orizzonte universalistico della cittadinanza, fondato sul riconoscimento della pari dignità degli individui-cittadini indipendentemente dalla loro affiliazione identitaria e da quali credenze essi abbiano. Infatti vincolando l’assegnazione dei diritti a una specifica appartenenza di gruppo, si giunge a prospettare una sorta di cittadinanza multiculturale, diversificata in base alle connotazioni etniche, culturali e religiose delle varie comunità presenti all’interno dello Stato, che ripropone – in forma attenuata – quella scomposizione sociale, in cui allo status della persona corrispondevano determinati diritti, che credevamo di aver superato grazie alle conquiste della Rivoluzione francese.

Qualora prevalesse questo modello, si costituirebbero tante «piccole patrie» identitarie, ciascuna retta da un proprio «ius singolare» , il che renderebbe impossibile un progetto condiviso e stabile di esistenza collettiva e la società diventerebbe, come qualcuno ha detto, una specie di patchwork di toppe colorate, al quale ognuno aggiunge la propria fino a che non si capisce più di quale stoffa sia fatto.

Un’eventualità, quest’ultima, non così remota, se si pensa alla crescente domanda di politiche pubbliche differenziate, compresa la richiesta di speciali diritti di rappresentanza, avanzata da comunità di immigrati che perseguono credenze e valori non assimilati a quelli occidentali, o all’emergere, in diverse aree geografiche, di pretese di identità regionale e di istanze separatiste, in antagonismo con la sovranità nazionale.

Al pericolo di una segmentazione del sistema giuridico e legislativo, è necessario opporre un’ idea di democrazia che non poggia su vincoli dati, ma su legami scelti, nel senso che essa sia il frutto di un patto di convivenza tra diversi, di un accordo tra individui che, pur divisi da credenze, affiliazioni identitarie, modi d’essere e di pensare, decidono di condividere una comune condizione di cittadinanza, al di là delle distinzioni di appartenenza.

In questa prospettiva in cui la nazione deve diventare dunque un grande fattore di solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici che si sono fatti e di quelli che si è disposti a fare ancora, assume particolare rilevanza la previsione per i nuovi cittadini dell’obbligo di prestare giuramento (art. 10) alla Costituzione e alla Repubblica, rappresentando un gesto che va oltre il suo valore simbolico sublimando l’ingresso dell’individuo nella comunità nazionale.

Così – citando Ernest Renan – se «la nazione presuppone un passato. Essa tuttavia si ricapitola [anche] nel presente per un fatto tangibile: l’assenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare la vita comune. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni, come l’individuo è una affermazione perpetua di vita».[21]

Con questo spirito, dunque, il nuovo patto di cittadinanza – pur radicato nella storia e cultura della nazione – deve trovare fondamento nel consenso, consenso che, malgrado la diversità culturale e linguistica, gli immigrati dimostrano attraverso un plebiscite de tous les jours, una volontà riaffermata nel quotidiano di far parte della nazione italiana: è la loro volontà di costruirsi un futuro nel nostro paese a renderli cittadini italiani e sta a noi – anche attraverso una riforma della legge n. 91/92 – esprimere la volontà politica di condividere con loro il futuro.

* Studio legale Galante, Bergamo

[1] www.istat.it Rapporto Istat 2006, diffuso il 17 ottobre 2006;
[2] Danilo Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità e diritti, Laterza, Roma-Bari, 1994;
[3] Sono debitore di alcune delle riflessioni di quest’ultimo paragrafo da Benedetta Pericolo, Nazionalità, cittadinanza e diritti umani: la molteplicità dei demoi, Tesi di specializzazione in tecniche di tutela dei diritti umani, Università di Padova, anno 2001-2002;
[4] T.H.Marshall, Cittadinanza e classe sociale, UTET, Torino, 1976, p. 7. Si veda, per un’ampia ricostruzione delle tesi di Marshall e dell’approccio storico e sociologico allo studio della questione, D.Zolo, Cittadinanza: storia di un concetto teorico-politico, in Filosofia politica 1/2000, p. 5;
[5] Antonio Papisca, Riflessioni in tema di cittadinanza europea e diritti umani, in “Pace, diritti della persona, diritti dei popoli”, 1, 2004;
[6] Pastore, Identità comunitarie e coesione sociale: valori comuni e istituzioni locali, Relazione alla IX ed. del Seminario permanente di ricerca sulla pace dell’Istituto “Maritain” di Preganziol, 1998;
[7] Guido Bolaffi, Intervento al convegno “Riformare la legge sulla cittadinanza”, 22 febbraio 1999, Roma;
[8] Bruno Nascimbene, Promemoria sulla cittadinanza, atti convegno “Riformare la legge sulla cittadinanza”, 22 febbraio 1999, Roma;
[9] Bariatti , S.(1996), La disciplina giuridica della cittadinanza italiana, vol II, Legge 5 febbraio 1992 n.91, Giuffré ed.; Clerici, R. (1993), La cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano, Padova, CEDAM.; Farfan. M.M. (1995), Naturalizzazione italiana: la via della cittadinanza per gli stranieri, in “Tutela”, 2/3.; Grosso, E. (1997), Le vie della cittadinanza, Padova, CEDAM;
[10] Paolo Bonetti, Ammissione all’elettorato e acquisto della cittadinanza : due vie dell’integrazione politica degli stranieri – profili costituzionali e prospettive legislative, in www.federalismi.it;
[11] Relazione accompagnatoria al disegno di legge governativo comportante “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91 recante nuove norme sulla cittadinanza”, atto Camera n. 1607;
[12] Bruno Nascimbene, Promemoria sulla cittadinanza, cit;
[13] Lorenza Carlassarre, Proposta di modifica della legge sulla cittadinanza, atti convegno “Riformare la legge sulla cittadinanza”, 22 febbraio 1999, Roma;
[14] Nascimbene, B., a cura di, (1996), Nationality Laws in the European Union, Milano, Giuffré ed.; Weil , P. (1998), Nationality, Citizenship and Convergence: France, Germany, Europe, Conferenza internazionale su “Nationality Law, Immigration and Integration in Europe”, Parigi, 25-27 giugno, German Marhall Fund- Ministero Francese del Lavoro e degli Affari Sociali, in P. Weil, a cura di, Nationality and Citizenship, La Decouverte & MacMillan;
[15] Giovanna Zincone, Essere cittadini oggi, atti convegno “Riformare la legge sulla cittadinanza”, 22 febbraio 1999, Roma; Il teorema delle politiche impossibili, in Micromega, 2/1992; Da sudditi a cittadini, Bologna, Il Mulino, 1992;
[16] Brubacker, W.R., Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge Mass., Harward University Press, 1992;
[17] Relazione accompagnatoria al disegno di legge, cit;
[18] Pietro Costa, Cittadinanza. Laterza 2005; Civitas, storia della cittadinanza in Europa, Laterza 1999;
[19] Stefano Rodotà, Cittadinanza. Quel diritto che ci rende più eguali, Repubblica, 15 agosto 2006;
[20] W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, Bologna,Il Mulino,1999, p. 87;
[21] Ernest Renan, Qu’est-ce qu’une nation, Paris, Calmann Levy, 1982, p.18.