Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Ordinanza Tribunale di Bologna del 7 settembre 2007

Pubblico impiego, partecipazione a concorso pubblico

Il Sig. ***, cittadino Egiziano, ha presentato domanda di partecipazione al
Pubblico Concorso bandito dalla Università di Bologna per “numero 4 unità di
personale, categoria Elevata Professionalità, posizione economica 1, area tecnica,
tecnica scientifica ed elaborazione dati – valorizzatore della ricerca
” ed è stato
escluso dai candidati perché non cittadino italiano; il candidato è ricorso il
19.7.2007 al Tribunale di Bologna, a sensi dell’art. 44 del D. Lgt. 286/1998, che ha
accolto il suo ricorso ordinando la sua ammissione al concorso, in tempo per la
partecipazione alle prove concorsuali.
Tale ordinanza (immediatamente esecutiva) disattende – come altre pronuncie di
merito recenti – le ragioni della Cassazione che recentemente si era espressa in
senso contrario. L’ordinanza bolognese annota che “la soluzione da ultimo offerta
dalla Suprema Corte (Cassazione – Sezione Lavoro – Sentenza 13.11.2006 n.24170) non
appare convincente, essendo il principio di diritto là enunciato realmente
supportato da una semplice norma regolamentare – l’art.2 del DPR n.487/1994 – unica
ancora che preveda il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso al
pubblico impiego, e non essendovi alcun ragionevole motivo per riservare un diverso
trattamento ai cittadini italiani, o comunque comunitari, e ai cittadini
extracomunitari relativamente all’accesso al lavoro presso la Pubblica
Amministrazione nel vigore di altra normativa di grado superiore (Legge di ratifica
della Convenzione OIL n.143/1975, T.U. sull’immigrazione e D.L.vo n.215/2003) di
segno diametralmente opposto, costituzionalmente corretto”.
Mahmoud ha superato le prove scritte a settembre, tra breve avrà le prove orali.
Buon viaggio, Mahmoud. Siamo con te.

**************

Riferimenti del procedimento:
N.3083 Registro Generale 2007 Volontaria Giurisdizione Tribunale di Bologna
Ricorrente Sig. ***** – Avv. Roberto Faure
Convenuta: Alma Mater Studiorum – Università di Bologna – Avvocatura dello Stato
Ordinanza ex art. 44 D. Legisl. 286/1998 del 7.9.2007

**************

IL TRIBUNALE DI BOLOGNA
SEZIONE FERIALE
in composizione monocratica nella persona della Dottoressa Maria Cristina Borgo

esaminati gli atti e lette le difese,

ha pronunciato, a scioglimento della riserva assunta all’udienza celebratasi in data 23 agosto 2007, la seguente

ORDINANZA

nel procedimento iscritto al N.3083 Registro Generale 2007 Volontaria Giurisdizione

avente ad oggetto: Istanza ex art. 44 Decreto Legislativo 25 luglio 1998 n.286.

rilevato che:

con ricorso depositato in data 19 luglio 2007, il Signor ******, cittadino egiziano, stabilmente residente sul territorio nazionale da circa nove anni e munito di permesso di soggiorno a tempo indeterminato, chiedeva di essere ammesso al concorso pubblico per titoli ed esami bandito da Alma Mater Studiorum – Università di Bologna per la copertura di numero 4 unità di personale, categoria Elevata Professionalità, posizione economica 1, area tecnica, tecnica scientifica ed elaborazione dati – valorizzatore della ricerca, indetto con Disposizione Dirigenziale Rep.629 Prot. 9558 del 22 febbraio 2007; esponeva di avere iniziato il suo rapporto di collaborazione lavorativa con Alma Mater Studiorum – Università di Bologna nell’anno 1998 con la sua iscrizione al programma di Dottorato di Ricerca in Direzione Aziendale, aggiungendo che da quel momento il rapporto non era più cessato; esponeva, a maggiore chiarimento, che nell’anno 2003 stipulava un contratto di docenza con lo stesso Ateneo per la durata di un anno; che dopo avere ottenuto il Dottorato, vinceva un concorso di post dottorato per la durata di due anni; che successivamente stipulava un contratto di tutorato con l’Università di Bologna da svolgere presso la Facoltà di Economia per l’anno 2005-2006; che nel novembre 2005 vinceva un concorso con borsa di studio per la formazione teorica e pratica di dottori di ricerca, attività da effettuarsi presso il Servizio Europeo Alma EU dell’Area della Ricerca dell’Università di Bologna; che detta borsa di studio, inizialmente della durata di 17 mesi, veniva poi rinnovata alle medesime condizioni con scadenza il 31 dicembre 2007; lamentava di avere presentato domanda di ammissione al concorso pubblico sopra ricordato, avendo ottenuto un diniego da parte della convenuta, diniego motivato sulla base della mancanza della cittadinanza italiana; concludeva chiedendo fossero rimossi gli effetti di tale discriminazione da lui patita, con cessazione della condotta discriminatoria e sua ammissione al concorso suddetto;

si costituiva in giudizio la Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, rappresentata e difesa dalla Avvocatura dello Stato, eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito a favore del Giudice Amministrativo, ciò in considerazione del fatto che non poteva essere imputata alla PA alcuna condotta discriminatoria nei confronti del ricorrente, e che oggetto del presente procedimento era la mera contestazione di un provvedimento di esclusione da un concorso pubblico; contestava poi tutto quanto dedotto da controparte, affermando che l’Università di Bologna si era limitata a dare applicazione alle vigenti norme in materia di accesso al pubblico impiego che prevedono il requisito della cittadinanza italiana, normativa peraltro non in contrasto con il principio di parità di trattamento del cittadino straniero rispetto al cittadino italiano; concludeva, quindi, chiedendo il rigetto del ricorso;

dopo ampia discussione orale, la causa veniva assunta in riserva;

si osserva:

preliminarmente, l’eccezione di difetto di giurisdizione in capo al giudice adito è infondata avendo il ricorrente adito l’Autorità Giudiziaria ai sensi dell’art.44 del D.L.vo n.286/1998 e dell’art.4 del Decreto Legislativo n.215/2003, chiedendo la rimozione di un provvedimento discriminatorio della Pubblica Amministrazione: ora, se pure ai sensi dell’art.63 del Decreto Legislativo n.165/2001 restano devoluti al Giudice Amministrativo tutti i profili di interesse pubblico inerenti la fase della formazione del pubblico impiego, tuttavia nella fattispecie la posizione azionata – precedente all’instaurarsi del vincolo contrattuale di lavoro – involge la tutela di diritti fondamentali dell’individuo, comprendendo il diritto al lavoro, riconosciuto dall’art.4 della Costituzione, anche la facoltà di accesso al mercato del lavoro, la facoltà di scelta e di esercizio dell’attività professionale;

si osserva, ancora preliminarmente, che nella ampiezza della dizione degli artt.43 e 44 T.U. Immigrazione e degli artt. 2 e 3 D.L.vo n.215/2003 e nella loro portata omnicomprensiva, si deve ritenere che anche la presente fattispecie – nella quale alla Pubblica Amministrazione certo nessun comportamento intenzionalmente discriminatorio può essere imputato, bensì solo l’avere dato applicazione alla normativa ragionevolmente ritenuta vigente – rientri nella previsione delle norme invocate, atteso che tali norme non richiedono che il comportamento da reprimere sia assistito da un intento discriminatorio, ma semplicemente che si sia in presenza della mera produzione di un effetto discriminatorio dovuta ad atti o comportamenti del privato o della Pubblica Amministrazione (la “discriminazione indiretta” di cui all’art.2, comma 1, lettera b, del D.L.vo n.215/2003);

si ritiene, quindi, ammissibile il ricorso pure sotto questo profilo;

venendo al merito della controversia, la principale normativa cui fare riferimento – schematicamente – è la seguente: quanto all’accesso al pubblico impiego, il Decreto del Presidente della Repubblica del 10 gennaio 1957 n.3 (Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), ove si introduceva – in attuazione dell’art.51 Cost. – il requisito della cittadinanza italiana tra quelli generali richiesti per l’accesso al pubblico impiego, ciò tuttavia al solo scopo di perseguire al meglio i fini pubblici; il Decreto Legislativo n.29/1993 (art.37) e il Decreto Legislativo n.165/2001 (nuovo Testo Unico sul pubblico impiego – in particolare, l’art.38), che stabiliscono che anche – e solo – i cittadini degli Stati membri della Comunità Europea possano accedere ai posti di lavoro presso la pubblica amministrazione a condizione che l’incarico ricoperto non implichi esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attenga alla tutela dell’interesse nazionale, individuandosi con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri i posti delle amministrazioni pubbliche per l’accesso ai quali non può mai prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana (determinati con Decreto del 7 febbraio 1994 n.174); e ancora il Decreto del Presidente della Repubblica n.487/1994 (emesso ai sensi dell’art.41 del D.L.vo n.29/1993) che per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni prevede il requisito della cittadinanza italiana aggiungendo che tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione Europea, fatte salve le eccezioni di cui al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994 (art.2); quanto poi al principio di eguaglianza e parità di trattamento fra cittadini extracomunitari e cittadini italiani, si devono annoverare la Convenzione della Organizzazione Internazionale del Lavoro n.143 del 24 giugno 1975, poi ratificata con Legge 10 aprile 1981 n.158, che impegna l’ordinamento a “promuovere e garantire la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione … per le persone che, in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio (art.10 della Convenzione), aggiungendo che ogni Stato membro può restringere l’accesso a limitate categorie di occupazioni e di funzioni “qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato” (art.14 lett.c); il Decreto Legislativo n.286/1998 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in particolare l’art.2, comma 3, a mente del quale “la Repubblica italiana garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”, e comprende tra gli atti di discriminazione anche il fatto di chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; ed ancora il Decreto Legislativo n.215/2003 attuativo della Direttiva Comunitaria n.43/00, che dopo avere affermato l’applicazione del principio di parità di trattamento a tutte le persone sia nel settore pubblico che in quello privato, chiarisce che tale principio deve regolare anche l’accesso all’occupazione ed al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione (art.3, comma 1, lett.a);

di tale coacervo di norme (qui di necessità sinteticamente ricordate) altra interpretazione non può essere data che quella sistematica costituzionalmente orientata, anche seguendo l’insegnamento della Corte Costituzionale, che ha avuto modo di affermare la regola di diritto secondo la quale il principio di uguaglianza tra lavoratori comunitari ed extracomunitari, immanente nel nostro ordinamento anche alla luce della normativa primaria sopra richiamata, non può intendersi violato laddove non sussista alcuna norma che neghi espressamente o implicitamente il diritto controverso all’extracomunitario; testualmente “deve dunque affermarsi che non sussiste la lacuna normativa denunciata dal rimettente, potendosi dalle disposizioni legislative in vigore trarre la conclusione, costituzionalmente corretta, della spettanza ai lavoratori extracomunitari, aventi titolo per accedere al lavoro subordinato stabile in Italia, in condizioni di parità con i cittadini, e che ne abbiano i requisiti, del diritto di iscriversi negli elenchi di cui all’art.19 L.n. 482 del 1968 ai fini della assunzione obbligatoria” (Sentenza N.454 del 1998); la Corte Costituzionale nel dichiarare costituzionalmente corretta la previsione del principio di parità di trattamento tra cittadini extracomunitari e cittadini italiani per l’iscrizione negli elenchi per l’avviamento obbligatorio (potendo così i cittadini extracomunitari iscriversi alle normali liste di collocamento anche in assenza di una espressa norma autorizzatrice in tal senso), implicitamente riconosce che il cittadino extracomunitario possa accedere al pubblico impiego attingendo anche la Pubblica Amministrazione da tali liste, sgombrando il campo pure dall’eventuale portata preclusiva dell’art.51 Costituzione;

infatti, l’art.51 Costituzione – che tende comunque ad evitare ogni discriminazione nell’accesso agli impieghi pubblici e afferma un principio di uguaglianza – non ha costituito per il legislatore nazionale ostacolo alcuno né alla equiparazione fra cittadini italiani e cittadini comunitari nell’accesso al pubblico impiego (Decreto del Presidente della Repubblica n.487/1994 e Decreto Legislativo n.165/2001), nè all’accesso al pubblico impiego dei cittadini extracomunitari per le posizioni per le quali non era richiesto un titolo di studio superiore alla scuola dell’obbligo (art.16 L.28 febbraio 1987 n.56, ora abrogato dall’art.46 L. 6 marzo 1998 n.40 – circostanza qui ininfluente), e neppure all’accesso al pubblico impiego per cittadini extracomunitari destinati all’esercizio di mansioni di lettori universitari di madre lingua (art.27 D.L.vo n.286/1998) o di infermieri professionali (art.22 Legge n.189/2002);

maggiori problemi interpretativi nascono con l’entrata in vigore del nuovo Testo Unico sul pubblico impiego, il D.L.vo 165/2001 (che ribadisce una decisa limitazione all’accesso al pubblico impiego), norma successiva ed equipollente per rango – poiché anch’essa primaria – al T.U. sull’immigrazione e con esso sostanzialmente in contrasto; né si può sostenere che la reintroduzione del divieto per i cittadini extracomunitari di accedere al pubblico impiego si dovuta ad una svista del legislatore che semplicemente riproduceva una disposizione già abrogata; e allora, solo una interpretazione sistematica conforme ai principi costituzionali può portare a ricomporre la frattura, interpretazione vieppiù avvalorata dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo n.215/2003 attuativo della Direttiva Comunitaria n.43/00 (pure fonte normativa di rango primario e successiva, a sua volta, al nuovo Testo Unico sul pubblico impiego) che afferma come anche la disciplina dell’accesso all’occupazione e al lavoro debba essere regolamentata in base al principio della non discriminazione; si sottolinea come tale impostazione possa trovare fondamento – sia pure solo in termini di interpretazione conforme – anche nelle disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza), laddove all’art.21, comma 2, si legge “Nell’ambito della applicazione del Trattato che istituisce la Comunità europea e del Trattato sull’Unione Europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi”;

altro ostacolo interpretativo si pone esaminando il comma terzo dell’art.27 dello stesso D.L.vo n.286/1998, laddove si legge che “rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività”; tale apparente discrasia deve essere superata leggendo in senso restrittivo la dizione “determinate attività”, “attività” che andranno, in buona sostanza, a coincidere con quelle elencate nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994 n.174 sopra ricordato, valido per i cittadini comunitari (in ossequio anche all’art.98 Cost.), in tal modo chiudendosi, per così dire, il cerchio nel rispetto anche della normativa ad efficacia “rinforzata” di cui alla Legge 158/1981 attuativa della Convenzione OIL n.143/1975 e esplicitante valori fondamentali già costituzionalmente riconosciuti (artt.3 e 4 Cost.);

pertanto, la normativa relativa all’accesso al pubblico impiego deve essere riletta alla luce del superiore principio più volte enunciato dallo stesso legislatore – da ultimo con il D. L.vo n.215/2003, successivo, come detto, anche al D. L.vo n.165/2001 T.U. sul Pubblico Impiego – della parità di trattamento fra cittadini italiani e cittadini extracomunitari anche quanto all’accesso al lavoro, ritenendo affermato nel nostro ordinamento il principio di parità di trattamento anche nell’accesso al pubblico impiego a discapito di qualsivoglia previsione normativa di diversa portata e nell’assenza di una disposizione di legge che esplicitamente vieti l’accesso al pubblico impiego ai cittadini extracomunitari;

parte della giurisprudenza di merito ed amministrativa in diverse occasioni negli ultimi anni si è pronunciata in tale senso (per tutte si ricordano TAR Liguria 13 aprile 2001, Corte D’Appello di Firenze 2.7.2002, Tribunale di Genova 19.4.2004, Tribunale di Genova 21.4.2004, Corte D’Appello di Firenze 30.9.2005, Tribunale di Perugia 29.9.2006);

per quanto detto, la soluzione da ultimo offerta dalla Suprema Corte (Cassazione – Sezione Lavoro – Sentenza 13.11.2006 n.24170) non appare convincente, essendo il principio di diritto là enunciato realmente supportato da una semplice norma regolamentare – l’art.2 del DPR n.487/1994 – unica ancora che preveda il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso al pubblico impiego, e non essendovi alcun ragionevole motivo per riservare un diverso trattamento ai cittadini italiani, o comunque comunitari, e ai cittadini extracomunitari relativamente all’accesso al lavoro presso la Pubblica Amministrazione nel vigore di altra normativa di grado superiore (Legge di ratifica della Convenzione OIL n.143/1975, T.U. sull’immigrazione e D.L.vo n.215/2003) di segno diametralmente opposto, costituzionalmente corretto (Corte Cost. sentenza n.454 del 1998 di cui sopra) e conforme ai principi enunciati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000; e, si aggiunge, non potendosi ritenere che tutte le variegate possibilità di lavoro che offre l’impiego pubblico siano da far coincidere con quelle “determinate attività” di cui all’art.27 T.U. sull’immigrazione basandosi unicamente su di una vacua “particolarità” della materia del pubblico impiego;

può, pertanto, legittimamente sostenersi che il principio di parità di trattamento fra cittadini extracomunitari e cittadini italiani (valido tanto nel settore pubblico come in quello privato) viga anche in materia di accesso al pubblico impiego, atteso che parità ed uguaglianza previsti dall’art.2 T.U. Immigrazione devono trovare immediata applicazione nell’ordinamento non solo con riferimento a diritti attinenti allo svolgimento del rapporto di lavoro, ma anche con riguardo al diritto di aspettativa di occupazione (pur essendo senz’altro auspicabile a breve un quanto mai opportuno intervento chiarificatore del legislatore in materia di tale delicatezza);

si aggiunge, infine, come l’incarico che dovrebbe essere nella fattispecie ricoperto dal ricorrente cittadino extracomunitario non implichi certamente esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, e non attenga minimamente alla tutela dell’interesse nazionale, non potendosi rinvenire alcun interesse dello Stato italiano ad escludere l’accesso di uno straniero ad un posto di categoria elevata professionalità in area tecnico scientifica ed elaborazione dati (anche atteso quanto previsto dall’art.37 T.U. sull’immigrazione relativo alla regolamentazione dello svolgimento delle attività professionali con possibilità di iscrizione dello straniero – regolarmente soggiornante in Italia ed in possesso dei titoli professionali legalmente riconosciuti in Italia abilitanti all’esercizio delle professioni – agli Ordini o Collegi professionali in deroga alle disposizioni che prevedono il requisito della cittadinanza italiana);

quanto alla domanda, pure formulata, di risarcimento del danno subito, essa deve essere rigettata, non avendo il ricorrente fornito – né offerto di fornire – alcun corredo probatorio a sostegno della sua richiesta;

per quanto detto, il ricorso deve essere parzialmente accolto, ordinando alla convenuta Alma Mater Studiorum – Università di Bologna di ammettere il ricorrente al concorso pubblico oggetto di causa, così cessando la condotta discriminatoria tenuta nei confronti del ricorrente e rimuovendo gli effetti della discriminazione operata con la Disposizione Dirigenziale Rep.1731 Prot.28000 datata 11 giugno 2007 con la quale il ricorrente veniva escluso dalla partecipazione al suddetto concorso;

ricorrono giusti motivi (basati sulla natura e sulla novità della controversia, nonchè sulla attuale incertezza degli orientamenti giurisprudenziali in proposito) per compensare interamente fra le parti le spese di lite.

P.Q.M.

Visti gli artt. 43, 44 Decreto Legislativo 25 luglio 1998 n.286,

Il Tribunale, in parziale accoglimento del ricorso,

ORDINA
ad Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, con sede in Bologna nella Via Zamboni 33, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, di ammettere il ricorrente Signor ******, nato ****, alla partecipazione al concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura di numero 4 unità di personale, categoria Elevata Professionalità, posizione economica 1, area tecnica, tecnica scientifica ed elaborazione dati – valorizzatore della ricerca per le esigenze dell’Area della Ricerca dell’Ateneo di Bologna, indetto con Disposizione Dirigenziale Rep.629 Prot. 9558 del 22 febbraio 2007.

Rigetta la domanda risarcitoria spiegata dalla parte ricorrente.

Compensa interamente fra le parti le spese di lite.

Provvedimento immediatamente esecutivo ex lege.

Manda alla Cancelleria per la comunicazione URGENTE della presente ordinanza alle parti.

Così deciso in Bologna in data 7 settembre 2007.

Il Giudice
Maria Cristina Borgo