Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

dal Messaggero Veneto del 12 giugno 2007

Ore 11.15: viaggio nel Cpt

Asfalto, cemento e inferriate: giornalisti e amministratori incontrano gli immigrati

I clandestini si lasciano intervistare: «Qui il vero problema è la notte, queste sbarre restano in testa anche a occhi chiusi»
Qualcuno è agitato, qualcun altro disorientato e c’è chi impreca contro la legge Bossi-Fini nello spiazzo in cemento che circonda le stanze.
Il prefetto: la struttura è destinata a diventare centro di accoglienza.
Il Centro di permanenza temporanea era stato “off-limits” per quindici mesi

Gradisca. «Prego signori, possiamo accomodarci». Alle 11.15 responsabili di Questura e Prefettura autorizzano lo “sconfinamento” in quello che, per 15 mesi e tre giorni, era stato territorio vietato per gli organi di stampa: il centro di permanenza temporanea di Gradisca. Al di là del muro, la visuale è pressoché identica a quella che si poteva scorgere da fuori: asfalto, cemento e inferriate, con qualche pianta ad addolcire lo sguardo.
Pochi passi a destra e tutti in fila sotto il metal-detector, che si esibisce in un “bip” che accompagna il passaggio di tutta la trentina di componenti della delegazione, di cui fanno parte anche il sindaco di Gradisca, Tommasini, e il vicesindaco Bianchin. Espletata la formalità dell’identificazione, si costeggia il posto di guardia e si arriva dove prima erano arrivate solo testimonianze e qualche foto non autorizzata.
Uno spiazzo enorme (cioè il parcheggio interno) ospita qualche mezzo e il prefetto di Gorizia, Roberto De Lorenzo, che accoglie la delegazione chiarendo da subito la piena disponibilità. Si svolta a sinistra, verso il grande caseggiato che, dall’altra parte del muro, dal resto del mondo lascia vedere solo il tetto. Quattro scalini, due comunissime porte e agenti in borghese fanno da preambolo alla struttura vera e propria.
Un corridoio lungo e ampio, arcobaleni e dipinti sui muri, musica “soft” negli altoparlanti. La sensazione è spiazzante: dove sono le sbarre, le celle, il carcere di massima sicurezza, la sensazione di soffocamento? Il prefetto e il questore Ruocco guidano la visita, ai lati scorrono uffici, la lavanderia, magazzini, depositi, poi un’altra porta, un atrio, spazioso, una piccola “reception” (ma niente a che vedere con un albergo) e sulle pareti foto, lettere, racconti: i ricordi di chi il Cpt lo ha già salutato.
Si uniscono alla comitiva il presidente della cooperativa Minerva (il gestore dei servizi interni del Cpt), Adriano Ruchini, e il direttore del centro, Paolo Zotti. Il prefetto illustra brevemente il programma, responsabile e personale della Minerva, dirigenti di Prefettura e Questura rispondono alle domande, spunta anche qualche ospite che si fa intervistare, senza “ostruzioni”, vengono snocciolati dati e numeri del Cpt, con il prefetto che ricorda come «interventi di “alleggerimento” della struttura sono già stati effettuati, altri sono in fase di esecuzione, come anche il Cid, il Centro di identificazione per richiedenti asilo: struttura esterna al Cpt, che vi sorgerà a fianco e che sicuramente sarà ultimata entro l’anno, anche se non si sa ancora quando entrerà realmente in funzione».
«Sono stati tolti sbarre, pannelli divisori: l’esperienza e la realtà hanno fatto comprendere che cosa sia superfluo qui dentro, il tutto – spiega De Lorenzo – al fine di migliorare l’ospitalità, anche se purtroppo la struttura è quella che è: un contenitore di persone che non vorrebbero essere qui. I Cpt, però, vogliono essere cambiati, rivisti e ripensati e la nuova linea del governo, voluta dal ministro Amato, è chiaramente diversa dal governo precedente, una linea in evidente contrasto con il progetto originario seguito per realizzare la struttura».
«Non è escluso che in futuro in questo Cpt si ricavino ulteriori aree più confacenti il concetto e l’interpretazione odierna di accoglienza. C’è un approccio diverso all’immigrazione e Amato ha espressamente voluto la massima apertura possibile, per migliorare la convivenza, ma quale sarà concretamente il futuro dei Cpt a oggi non è ancora dato saperlo. Molto dipenderà dal disegno di legge sulle modifiche alla Bossi-Fini attualmente in discussione».
Dietro il prefetto le finestre riportano alla realtà: ecco le sbarre, i corridoi ricoperti di ferro, le celle e i “cortili” recintati dalle inferriate. Si percorre un altro corridoio, parallelo a quello d’ingresso, altre porte e altri uffici e magazzini, fino alla mensa. Tutto pulito, in ordine, la televisione, il biliardino, tavoli e sedie nuove, ma imbullonati al pavimento, poi un’altra porta e gli immigrati.
Tutti vogliono parlare, molti lo fanno di nascosto, scrutando nervosamente agenti e operatori del centro: «Ti racconto dopo, ricordati, quando siamo fuori». Qualcuno è agitato, nervoso, qualcuno disorientato, altri sostengono di essere sotto sedativo, altri ancora di avere problemi di tossicodipendenza. Un’altra porta, si gira a destra e si esce. Uno spiazzo di cemento, frazionato da muretti dove fino a poco tempo prima c’erano altre sbarre, quelle che dividevano anche i cortiletti del “reparto notte”, smantellate per “addolcire” il centro. Una cinquantina di metri di lunghezza per venti di larghezza, tutt’intorno le sbarre che isolano i corridoi d’ingresso alle stanze.
Gli immigrati circolano liberamente, qualcuno impreca contro la Bossi-Fini e l’intrusione delle telecamere, ma la tensione resta entro la norma: si parla, ci si confida, si chiede aiuto, qualche sigaretta, gruppetti di immigrati bivaccano ai lati del piazzale, che sul lato opposto comunica con il campetto di calcio: nuovo, curato, ma tutto in cemento, una macchia verde avvolta ovunque da sbarre e cancelli.
Tutto nuovo, progettualmente quasi perfetto rispetto ai progetti trapelati ancor prima dell’apertura del Cpt, ma se la struttura quasi sorprende per accoglienza nella prima parte, quella riservata a operatori, uffici, laboratori, studio medico e magazzini, basta la permanenza per qualche minuto nella zona notte, l’area blu come è chiamata nel centro, per capire che nessun vocabolo estraneo al concetto carcerario può rendere meglio l’idea del luogo in cui ci si trova.
«Qui il vero problema non è solo far passare il tempo – si confida un clandestino accertandosi di non essere visto: qui il vero problema è la notte, perché tutte queste sbarre ti restano in testa anche quando chiudi gli occhi. Qui l’unico vero lusso per un ospite, come ci chiamano, è riuscire a dormire».
Al Cpt di Gradisca ci sono 52 immigrati clandestini (a fronte di una capacità totale di 250), qualcuno non vuole essere ripreso o fotografato, ma pur essendo una struttura “mista”, che prevede cioè una ripartizione in reparto maschile e femminile, di donne non c’è traccia. «Sono direttive ministeriali, noi ci occupiamo solo della gestione, non sappiamo niente in proposito – precisano ancora una volta gli operatori di Minerva –. All’inizio venivano portate qui anche donne, ma è da parecchi mesi che non succede più».
Intervistato prima dell’ingresso nel centro di permanenza temporanea, il sindaco di Gradisca, Franco Tommasini, ha commentato le nuove direttive del governo sui Cpt: «La nuova linea adottata dall’esecutivo nazionale sui Cpt, decisamente più soft e sulla quale non possiamo che trovarci d’accordo – ha affermato – cambia di molto la filosofia sull’immigrazione. Ma come Comune eravamo e restiamo fortemente contrari a questo tipo di strutture. A maggior ragione, con la preventivata apertura del Centro di identificazione per i richiedenti asilo, il problema non può dirsi risolto visto che Gradisca – a detta del sindaco – non è assolutamente adatta a sopportare l’impatto determinato dall’arrivo sul territorio di due strutture del genere».
«In merito alle accuse alla mia e alla precedente amministrazione, ribadisco che non vi è stato mai – ha precisato il primo cittadino gradiscano – alcuna autorizzazione all’insediamento del Cpt. La richiesta dello Stato faceva espressamente riferimento a un centro di prima accoglienza, ma in un secondo tempo – ha aggiunto Tommasini – la situazione è stata modificata all’insaputa dello stesso Comune».
Visita finita, ma in futuro gli organi di stampa potranno richiederne altre, come da direttiva del ministero dell’Interno dello scorso aprile. Si torna dall’altra parte del muro.
Marco Ceci


Convivenza, una sfida

Il direttore Zotti: «Tante etnie e culture Risolviamo spesso i momenti di tensione»

Sono settanta gli operatori della Minerva

Il direttore del Cpt, Paolo Zotti, si avvicina a un ospite africano, accasciato su un muretto di cemento nel cortile interno, la testa piegata sul petto, per sincerarsi delle sue condizioni. Gli posa la mano sulla spalla: «Va tutto bene?». L’uomo fa cenno di sì e ritorna con lo sguardo perso nel vuoto. È sempre lui a intervenire quando un gruppetto di magrebini si inalbera per la presenza di telecamere e giornalisti. Si avvicina ai facinorosi, li ascolta, li tranquillizza, media. Nelle sue azioni traspare la cura del “pater familias”, nei suoi occhi una comprensione infinita.
Zotti coordina le attività del personale operativo della Minerva dentro al Cpt. In tutto una settantina di operatori, fra i quali 12 medici, nove infermieri, due psicologi e assistenti sociali, 28 dedicati all’assistenza, quattro mediatori culturali e linguistici. Anche alcuni ospiti hanno sottolineato che gli operatori della Minerva svolgono un buon lavoro. Ogni giorno sono garantiti i servizi di mensa, lavanderia, barberia, visite mediche, terapie, notifiche e colloqui all’area amministrativa. A livello di intrattenimento, invece, si spazia dal laboratorio di decoro e restauro alle attività sportive (pallavolo, basket, calcetto).
L’anno scorso, a novembre, la Minerva ha incontrato i rappresentanti di alcuni enti di formazione della provincia di Gorizia per studiare la possibilità di ampliare l’offerta di percorsi di formazione, per esempio nel settore della manutenzione (idraulica, edilizia, tinteggiatura e decorazione), della ristorazione (panettiere e pizzaiolo) e corsi artistici come laboratorio di ceramica e decorazione sul legno.
Direttore Zotti, quanto è difficile gestire un Cpt?
«È una grande impresa. Coesistono al suo interno tante etnie e culture differenti. Il nostro è un lavoro continuo di mediazione per riuscire a farle convivere. Ce l’abbiamo fatta sperimentando i mediatori culturali e linguistici e creandoci un’esperienza. I piccoli momenti di tensione vengono risolti con facilità. Gli ospiti credono nei nostri operatori, credono in chi gli sta vicino».
Che tipo di problemi affrontate?
«Quelli della quotidianità. Ognuno degli immigrati ha il suo grosso problema, che è smisurato rispetto alle piccole esigenze del giorno. Chiedono di avere chiarezza sulla loro situazione, chiedono che vengano ascoltati i loro diritti».
Qual è la sua opinione sulla struttura e sulle modifiche che sono state proposte dalla nuova normativa in materia di immigrazione?
«L’ingresso degli organi di informazione, quest’oggi, è già di per sé un segnale significativo. Sicuramente ci sono grosse difficoltà nella gestione dell’immigrazione, specialmente quando troviamo sul territorio una presenza di immigrati così massiccia di cui non conosciamo la storia».
Ilaria Purassanta


Speranza, ma anche paura: «Voglio vedere mio figlio» E c’è chi rischia il carcere
Ecco i sentimenti fra gli extracomunitari che attendono di conoscere il futuro

«In Marocco mi hanno minacciato: se torno mi aspettano 15 anni di galera e questo perché mi credono un’altra persona»

«Vedrete che almeno uno dei due non lo troverete più al Cpt di Gradisca». Lo avevano annunciato, la scorsa settimana, i portavoce di associazioni e movimenti contro i Cpt che, assieme al consigliere regionale dei Verdi, Alessandro Metz, avevano segnalato alla stampa due casi di «non tutela dei diritti della persona» per quanto riguarda altrettanti ospiti del Centro di permanenza temporanea di Gradisca.
Uno dei due era Raji Tarik, marocchino, sposato con una ragazza marocchina “regolare” in Italia. Una figlia di due anni, il secondogenito in arrivo proprio in queste settimane e una richiesta di permesso di soggiorno per motivi familiari (oltre a un processo per precedenti pendenze penali fissato per il 19 giugno) in attesa di risposta.
Aveva chiesto aiuto a movimenti e associazioni per far uscire sulla stampa il suo caso, ma per lui l’espulsione è arrivata prima di una risposta sul permesso di soggiorno, e prima anche del processo. È ancora a Gradisca, invece, Rhemiri Fakiri, tunisino, fidanzato con una ragazza sudamericana “regolare” e in attesa del primo figlio. In mano fogli e documentazioni varie, per testimoniare la sua situazione.
«Temo che la mia espulsione arrivi a breve, non potrò vedere mio figlio, come è successo a Raji. Ho fatto anche lo sciopero della fame, ma non serve a niente, qui non ti ascolta nessuno, non vengono ascoltati nemmeno gli avvocati. Qui tanti parlano di carcere, ma in carcere almeno puoi ricevere visite: qui sei solo». Tra il personale di Minerva e gli agenti scorrono facce e storie, passando dalle telecamere delle televisioni agli appunti dei giornalisti. «Sono Nesmy Samir, ho 33 anni e vengo dal Marocco. Io sono in Italia dal 2004, lavoravo in una cooperativa a Bolzano, sono venuto in Italia con il passaporto (di cui mostra una fotocopia). Hanno scritto che mi hanno trovato sprovvisto di documenti, leggete qui, ma io ho il passaporto. È scaduto nel 2005, è vero, ma mi hanno fatto firmare una carta in cui ammettevo di non avere documenti, io non capivo tutto quello che c’era scritto e mi sono ritrovato qui al Cpt di Gradisca, dall’oggi al domani».
Più spedita e comprensibile la parlantina di Sabir Ciaguru, originario del Sahara Occidentale e rifugiato in Algeria, prima di entrare in Italia, perché perseguitato dalle autorità marocchine che lo indicano come un aderente al fronte polisario, movimento insurrezionalista nord-africano. «In Marocco mi hanno minacciato, mi attendono 15 anni di carcere se ci rimetto piede, e per uno scambio d’identità: io non sono mai appartenuto a quel fronte, mi hanno scambiato per mio padre. A breve mi scadono i 60 giorni e per me quella può essere la fine: all’Italia chiedo solo aiuto, la possibilità di cambiare vita. Ho provato a rivolgermi a chiunque potesse aiutarmi, ma al momento mi resta solo la paura di essere rimpatriato in Marocco».
Gli immigrati e le loro storie inseguono la delegazione degli organi di stampa attraverso porte e sbarre, fino al cortile della zona notte. Qualcuno parla solo con la promessa di non rendere note le proprie generalità. «Sono marocchino, sono uscito dal carcere e una pattuglia mi aspettava all’uscita: non ho neanche fatto in tempo a respirare l’aria all’aperto che mi hanno portato qui. Da un carcere a un altro carcere. Qui si sta male: se chiedi qualcosa, se protesti ci sono due alternative: o non ti ascoltano o ti danno sedativi, anche tre volte il giorno, così non capisci più niente. Guarda le facce, lo vedi, lo capisci che siamo quasi tutti imbottiti di calmanti, è sempre così e non certo per evitare problemi tra di noi: qua siamo tutti sulla stessa barca, che problemi volete che ci siano: nel Cpt di pericoloso c’è solo la frustrazione, perché non hai niente da fare, solo da aspettare».
In un angolo, lontani dagli altri, due clandestini sembrano estranei al contesto, isolati. Sono Singh Gurnam, indiano, da quindici giorni al Cpt di Gradisca e Shahid Robina Ghohan, pachistano, da tredici giorni a Gradisca.
Parlano poco l’italiano, ci si capisce in inglese. Shahid è scappato dal Pakistan perché di fede cristiana, Singh per problemi politici legati alla difficile situazione nella regione del Panjani. «Non conosciamo la lingua, non sappiamo come funzionano le leggi qui, ma sappiamo che ci hanno messo in carcere, qui a Gradisca anche se lo chiamano diversamente. Assistenti e interpreti ci aiutano, abbiamo chiesto asilo politico per motivi diversi e non possiamo far altro che aspettare. E sperare».
(ma.ce.)


«Aiutateci, vi raccontiamo tutto»
E il prefetto ascolta un uomo che se la prende con lui per la scorta di sigarette troppo esigua
Molti considerano la stampa importante per poter dare una svolta alla loro difficile situazione

Si sono registrati casi di autolesionismo come protesta Qualcuno assume farmaci per problemi di natura psicologica
Gli immigrati accolgono con entusiasmo i giornalisti

Più che l’arrivo degli organi di informazione, sembra l’avvento del Messia. Agli occhi degli ospiti del Cpt i giornalisti appaiono come il deus ex machina in grado di dare una svolta alla loro esistenza, un limbo segnato per molti da una data di scadenza, quella dell’espulsione e del rimpatrio.
«Ora che avete visto, cambierà qualcosa?». «Se ho raccontato la mia storia alla televisione, dici che ora mi faranno rimanere qui in Italia?». «Mi puoi aiutare?». Sono queste le domande che accendono di speranza i volti degli immigrati magrebini, africani, indiani che attorniano incuriositi la stampa alla sua prima visita all’ex caserma Polonio. Per gridare la propria rabbia, per chiedere un consiglio o un accendino, raccontare il proprio caso, quelli che hanno più dimestichezza con l’italiano, oppure per osservare in silenzio o semplicemente salutare una faccia nuova, sorridendo un po’ intimiditi.
«Non creategli illusioni, vi prego», esclama il direttore del Cpt, Zotti, dopo averlo appreso. La risposta è soltanto l’impotenza. A noi compete solo raccontare. C’è chi invece rifiuta il contatto e le fotografie, alzando la voce: se non vieni ripreso dai flash e dai cameraman hai più chance eventualmente di non essere riconosciuto nel paese d’origine (in caso di richiesta d’asilo in un altro paese alcuni Stati ti considerano traditore della patria) oppure per evitare l’espulsione, una volta usciti dal Cpt. In un cortile interno circondato da sbarre di ferro su cui si affacciano i dormitori, gli immigrati respirano uno spicchio di cielo plumbeo e il fumo di una sigaretta.
«Arrivano i politici!», si sente urlare con disprezzo da lontano. Un immigrato disteso a terra ridacchia. Due giovani bengalesi, isolati rispetto agli altri, si guardano intorno in silenzio. Doppiopetto blu e giacche eleganti delle autorità si mescolano alle t-shirt degli immigrati in ciabatte. Un ospite del Cpt, a dire il vero, sfoggia un cappello di Gucci e mise à la page: fa una proposta scherzosa di matrimonio in cambio della cittadinanza a una giornalista, che declina, arrossendo. Con flemma inglese e pipa in bocca, il prefetto Roberto De Lorenzo ascolta un immigrato che se la prende con lui inveendo perché la scorta di sigarette è, a suo dire, esigua.
Lungo un corridoio per terra sono sparse scarpe da ginnastica con buchi sull’alluce, degne di Wolfowitz. Muri dipinti da strisce arcobaleno e enormi lucchetti alle porte, cemento e ferro e un laboratorio creativo con oggetti multicolore, il Cpt vive un’eterna contraddizione, di cui è quasi emblema il campo di calcio, incastonato in una gabbia di sbarre e reti. Si cerca di rendere vivibile e gradevole, con un ricco programma di attività, una struttura per via della sua stessa configurazione architettonica opprimente.
Tant’è che per osservare le nuove direttive del governo in materia di Cpta, si sta già cominciando a smantellare parte delle sbarre e delle recinzioni di ferro, giudicate non indispensabili e non necessarie ai fini della sicurezza. Molti non reggono l’impatto con la detenzione, in carcere prima, nel Cpt poi: nell’ambulatorio dell’infermeria sono stati curati casi di autolesionismo («più che altro di tipo dimostrativo, come forma di protesta», spiega il personale medico) oppure altri immigrati assumono farmaci antidepressivi per problemi di tipo psicologico («molti hanno nostalgia di casa»).
In un locale vicino alla mensa è stata ricavata una piccola moschea, dove i musulmani possono pregare, inginocchiati sul folto tappeto azzurro dai motivi arabescati. Pizze fumanti formato gigante attendono gli ospiti sui tavoli per il pranzo, che si consuma puntualmente all’una. Per noi è tempo di uscire.
Ilaria Purassanta