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Overthefortress, in viaggio per raccontare l’Europa che (non) accoglie

Un articolo di Martina Facincani, tratto da The Bottom Up

Tommaso Gandini ha aderito come giovane attivista alla campagna #overthefortress che, dall’autunno 2015, si occupa di monitorare i confini interni ed esterni della “Fortezza Europa”, accompagnando i viaggi dei migranti che “bruciano” le frontiere in cerca di condizioni di vita migliori, mossi da progetti di vita autonomi cui è necessario riconoscere dignità e valore. Completamente auto-finanziata dal basso attraverso crowfounding, la campagna solidale ribadisce il rifiuto di qualsiasi forma di confinamento. A fianco dei migranti, sostiene la loro voglia di libertà e di vita. Nell’intervistarlo, mi rendo subito conto che Tommaso parla con la consapevolezza di chi ha maturato l’esperienza sul campo. Gli chiedo di raccontarmi cos’abbiano rilevato nella loro attività di osservazione indipendente, nei Balcani e nei luoghi maggiormente coinvolti negli arrivi dei migranti lungo la rotta del Mediterraneo Centrale.

Ripercorriamo assieme le tappe fondamentali della campagna, iniziata lungo la Balkan Route, con staffette solidali in supporto dei migranti bloccati nel pantano burocratico greco, diretta conseguenza della crescente difficoltà ad oltrepassare i confini europei. Lo scellerato accordo stipulato con la Turchia di Erdoğan il 18 marzo 2016 ha sancito la chiusura definitiva della rotta balcanica e ammassato i profughi (siriani soprattutto, ma non solo) lungo le linee di confine, dando vita ad un coacervo di campi informali e governativi, prigioni a cielo aperto dove non vengono garantiti i più basilari diritti umani.

Si tratta, come evidenzia il giovane attivista, di accampamenti temporanei che diventano luoghi concentrazionari stabili, pensati per assecondare quelle logiche di contenimento e riproduzione di marginalità che le politiche europee sembrano voler normalizzare. Come Idomeni, il campo profughi più grande della Grecia sorto spontaneamente lungo i binari della ferrovia ai confini con la Macedonia che, per Overthefortress, ha rappresentato una grossa parte di progettualità. Sgomberato il 24 maggio 2016, era una realtà complessa, multietnica e auto-organizzata. Tommaso ci tiene a precisarlo: “è fondamentale non semplificare le narrazioni e lasciare lo spazio ai migranti di potersi raccontare, nominando i propri desideri così stupendamente soggettivi, le loro necessità e i loro bisogni materiali.” Dopo la marcia solidale del marzo 2016, che ha visto la partecipazione di più di 300 persone, Tommaso è tornato svariate volte a Idomeni, per poi rimanervi con altri attivisti sino allo sgombero, condividendo con i migranti tutti gli aspetti della vita quotidiana. In circa un mese e mezzo, con la partecipazione attiva degli stessi sono riusciti a dare vita ad un punto Wi-Fi, ad un centro donne e hanno supportato fin dalla sua nascita il progetto Radio No Border, radio web pirata itinerante che vanta una redazione meticcia.

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Raccontare è un modo per forzare la situazione, per esprimere il proprio rifiuto a politiche istituzionali considerate razziste ed escludenti. Le narrazioni che mirano alla rappresentazione del migrante come vittima sono altrettanto insidiose e controproducenti, mentre è fondamentale riuscire a ritagliare uno spazio per l’autogestione che rafforza la consapevolezza di sé e dei propri diritti. “Assuefarsi ad una logica assistenzialista fine a sé stessa, sottolinea Gandini, rischia di restituirci un’immagine parziale della realtà. Lo scopo è che le persone diventino autosufficienti.” Alla luce di ciò, “Idomeni ha rappresentato un simbolo di resistenza a livello globale di grandissimo impatto, mostrandoci senza alcun dubbio perché abbia spaventato l’Europa”. La necessità di oltrepassare i confini ha spinto le persone a decidere di fermarsi di fronte a quel filo spinato divenuto tristemente simbolico, rivendicando il riconoscimento di uno spazio fisico e il rifiuto di qualsiasi forma di precarietà socialmente ed economicamente indotta. “Una decisione, per così dire, dettata da una sorta di maturazione biologica: la vita va avanti e bisogna organizzarsi.

A Idomeni, Tommaso ha incontrato vita che preme, resiste e traccia vie di fuga inedite. Il potenziale politico implicito a queste forme di rivendicazione e dissenso è evidente, seppur mosso da esigenze contingenti piuttosto che da una qualche coscienza politica. Tanto è bastato perché Idomeni fosse spazzato via, così come Calais e gli assembramenti di Ventimiglia e Como, e si procedesse a distribuire le singole biografie in campi governativi di dimensioni ridotte, spesso periferici e isolati, dove l’ingresso di attivisti e volontari è sottoposto a permesso governativo. “Idomeni era divenuto un simbolo troppo grosso. Disperdere le persone è funzionale a ridurre al minimo il potere contrattuale del migrante come soggetto politico, assicurandosi una riserva costantemente attingibile di dispensabili lavoratori subordinati, invisibili e sfruttati. Lontani ma non troppo. La facciata del “noi non vogliamo i migranti” spesso nasconde la necessità di avere forza lavoro senza diritti.

Tommaso Gandini fotografato da Laura Panzarasa
Tommaso Gandini fotografato da Laura Panzarasa

Tommaso me lo conferma facendo riferimento al monitoraggio compiuto durante gli scorsi mesi di novembre e dicembre negli hotspot del Sud Italia, un viaggio in camper di 3.400 Km per un totale di 40 tappe. Il viaggio ha permesso di accertare la stretta esercitata sul governo della vita migrante, per mezzo di una esternalizzazione militarizzata dei confini che demanda a opinabili accordi bilaterali – dai contenuti non esplicitati – il compito di eventuali respingimenti. “Le notizie riportano controlli sempre più serrati, i confini rimangono chiusi”, racconta l’attivista di Overthefortress. Parallelamente, l’adozione dell’approccio hotspot come pratica identificativa sistematica ha confermato il vincolo dei migranti ai paesi di arrivo – Italia e Grecia soprattutto -, forzando identificazioni a tappeto che hanno determinato un aumento, in questi anni, delle richieste asilo. “L’importante è identificare i migranti e bloccarli nei territori d’arrivo non appena scendono dalla nave, sopra ogni altra cosa, comprese le cure mediche. La pratica è ormai implementata in tutti i porti di sbarco, abbiamo potuto costatarlo con i nostri occhi sia a Catania che a Messina”. L’accordo di Dublino perdura, in barba alle violazioni dei diritti umani, documentate esaustivamente anche da Amnesty International. Il confine viene progressivamente spostato e ricomposto, facendo sfoggio di un uso muscolare della forza che ha talvolta anticipato ed echeggiato i risvolti attuali, di cui i decreti Minniti-Orlando rappresentano il prodotto compiuto.

Noi denunciamo da molto tempo che i controlli vengono svolti sulla linea del colore, bloccando le persone ritenute “etnicamente” straniere . Il rastrellamento avvenuto a Milano in questi giorni ha adottato lo stesso metodo”, spiega Tommaso. A questo punto l’argomento è inevitabile: ma questa polemica riguardo alle Organizzazioni non governative attive nel Mediterraneo centrale da cosa è mossa? Tommaso non ha dubbi:Si tratta di sterili insinuazioni prive di supporto statistico, un tentativo evidente di attaccare e criminalizzare tutti coloro che sono disposti a raccontare i fatti con occhi indipendenti. Le navi impegnate nei salvataggi in mare sono costrette a sobbarcarsi il lavoro di un’Europa occupata a guardare altrove, nello sforzo di colmare il vuoto politico e la mancanza di canali umanitari sicuri. Il fatto che siano costrette ad avvicinarsi sempre di più alle coste libiche dipende solo ed esclusivamente dalle condizioni pericolosissime con cui i migranti sono costretti a imbarcarsi, a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna sempre più precari. Non mancano episodi in cui i gommoni vengono bucati dai trafficanti appena si trovano al largo. Intervenire è quindi assolutamente necessario per salvare vite umane”.

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Gandini fa poi riferimento all’accordo Italia-Libia, frutto del memorandum d’intesa firmato a febbraio 2017 dal presidente del consiglio Paolo Gentiloni e dal premier libico del Governo di Riconciliazione Nazionale Fayez Serraj. Con il benestare dell’Unione Europea, si affida alla guardia costiera libica il pattugliamento delle coste, l’intercettazione e il recupero dei migranti, in cambio di finanziamenti, giustificati di fatto come progetti di cooperazione. Sorvolando su un dettaglio di poco conto: in Libia non esiste governo unitario. Affidargli vite umane è un atto criminale, è superfluo dire che siglare accordi con i mercenari libici è contrario a qualsiasi tipo di etica. Con la Libia si sta cercando di replicare l’accordo con la Turchia. Per com’è stato pensato, mi spiega Tommaso, l’accordo con Ankara ha funzionato perché, da quando è stato siglato, gli arrivi nel Mediterraneo orientale verso la Grecia sono crollati. Il problema è che la Libia è un caso molto più complesso, magmatico e caotico. Demandare ai libici il salvataggio dei migranti non è una questione di sicurezza, infatti si limiteranno semplicemente a riportare i migranti indietro, dove subiscono ogni tipo di violenza. Ed ecco che la frontiera si sposta sempre più in là, dove le violenze sui migranti sono ampiamente confermate”.

Non serve ribadire quanto siano importanti le testimonianze indipendenti che l’attività di Overthefortress ci mette a disposizione. Overthefortress è, infatti, prima di tutto solidarietà, ma anche sperimentazione politica collettiva, mossa da una progettualità in divenire che non ha alcuna intenzione di fermarsi. La piccola grande carovana si sta infatti riorganizzando. Nel frattempo, li abbiamo visti aderire il 22 aprile al Festival dell’Orgoglio Antirazzista e Migrante, organizzato simbolicamente a Pontida, sacro suolo dominio della Lega Nord. O alla marcia Side by Side svoltasi lo scorso 19 marzo a Venezia, che ha raccolto più di 5mila partecipanti uniti per un Veneto che accoglie. Perché il cambiamento parte dalla partecipazione e perché esistono anche realtà virtuose, nate dall’impegno della società civile e votate ad un’accoglienza umana. Overthefortress è tra queste.

Infine, per citare le poetiche strofe di chi sapeva restituire la dignità di una voce a ribelli ed emarginati, “certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza…” e noi tutti disobbediremo, rifiutando di credere alla retorica del clima “emergenziale” che giustifica controlli capillari e di piegarci a qualsiasi tipo di censura. “Ho dato una mano a queste persone, conclude Tommaso Gandini, perché credo che in questi casi, di fronte ad un progetto di vita negato, non ci sia legalità che tenga”.

Martina Facincani