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Paesi Bassi: ancora un modello di tolleranza multiculturale?

di Giulia De Rosa

Il 13 novembre 2013 Marie Le Pen e Geert Wilders, leader di due partiti di estrema destra euroscettici e uniti da un chiaro sentimento anti-immigrato, si sono incontrati a L’Aja, in Olanda. Obiettivo definire la strategia di quella che diventerà un’alleanza paneuropea tra i maggiori partiti nazionalisti dell’Unione in vista delle prossime elezioni europee. L’alleanza darà voce ad Alternativa per la Germania, Vlaams Belang, Lega Nord, il Partito della Libertà austriaco ed altri, recente è, infatti, anche l’incontro tra Le Pen e Salvini. Esclusi dall’alleanza, e perciò della definizione della strategia europea da perseguire, rimangono i nuovi partiti dell’Europa dell’Est evidentemente troppo apertamente estremi e razzisti.
Gli attivisti anti razzisti olandesi, legati ad AFA Netherlands, si sono subito mossi. Sono state così organizzate delle contro manifestazioni: la prima la sera precedente l’arrivo di Le Pen, la seconda il giorno del meeting all’esterno del Parlamento, sede in cui si sarebbe tenuto l’incontro tra i due leader. I manifestanti, circa un centinaio, sono scesi in strada intonando cori e sventolando striscioni antifascisti. Il 13 novembre, nella piazza esterna al parlamento, un nutrito gruppo di attivisti si ritrova quindi per protestare rumorosamente con l’obiettivo di farsi sentire soprattutto dentro alle stanze del potere. Passano un paio d’ore di proteste e striscioni quando, alle 15.30, la conferenza stampa di Le Pen e Wilders ha inizio, così come le cariche dei poliziotti nei confronti dei dimostranti. Come riporta AFA Netherlands, i poliziotti, dopo essere stati attaccati verbalmente dai manifestanti, iniziano a colpire la folla invece di usare la mediazione del portavoce della manifestazione. Lo scontro si conclude con numerosi feriti e tre arresti, secondo le dichiarazioni della polizia uno per aver ostacolato l’azione degli agenti e due per averli insultati.

Ma perché concentrarsi su quello che sta accadendo in Olanda? Innanzitutto dovremmo cominciare col chiederci se stiamo ancora parlando dello stesso paese che è riuscito a fare del concetto della tolleranza il suo brand internazionale e se Wilders sia più di una semplice meteora politica recente. Effettivamente, negli ultimi vent’anni il paese è stato attraversato da profondi cambiamenti politici e sociali che hanno portato anche a delle sostanziali modifiche legislative con riferimento al tema delle migrazioni, enormi modifiche se si ricorda che i Paesi Bassi sono stati per decenni i promotori di un modello multiculturale rispettoso delle differenze e delle varie identità culturali che componevano il paese.

Il PVV è stato fondato da Wilders nel 2005, ottenendo da subito buoni risultati. Le elezioni nazionali del 2006 segnano l’inizio della storia politica del suo leader e dell’importanza strategica che, via via, il PVV si ritroverà a ricoprire. Il partito, infatti, nel 2006 guadagna 9 seggi (su 150) diventando la quinta presenza in Parlamento. Numeri che vengono quasi triplicati nel 2010 quando il PVV tocca i 24 seggi e diviene la terza forza politica del governo, con il potere di far cadere la coalizione nell’aprile 2012. Wilders, sperando di cavalcare l’ondata anti europeista che lo aveva premiato nelle elezioni precedenti, spinge il paese a nuove elezioni politiche nel settembre 2012 che finiscono, tuttavia, all’insegna di in un ridimensionamento dei seggi per il suo partito che, comunque, riesce a guadagnarne 15. Da dire c’è che i recenti e più modesti risultati ottenuti del PVV posso essere spiegati in primo luogo attraverso un cambiamento nella percezione delle priorità da parte dell’opinione pubblica. La crisi abbattutasi sull’Europa ha fatto necessariamente cadere in secondo piano il dibattito sull’integrazione degli immigrati, cavallo di battaglia di Wilders, in luogo di più immediate e concrete riforme per rilanciare l’economia o combattere la disoccupazione. Secondo aspetto, ma non meno rilevante, è dato dal fato che CDA (i cristiano democratici, centro destra) ed il PvDA (laburisti, centro sinistra) hanno modificato la propria opinione riguardo questi temi, avvicinandosi a posizioni più estreme. Già dal 2002, sull’onda degli avvenimenti interni (la comparsa politica di Pim Fortuyn e il suo assassinio), i toni dei due tradizionalmente maggiori partiti olandesi si erano fatti più patriottici, volti alla strenua difesa dei valori sanciti all’interno della costituzione olandese.

In ogni caso, il PVV è sicuramente il partito che maggiormente identifica nella questione dell’immigrazione la sua priorità. Wilders, che dice di essersi ispirato ad Oriana Fallaci, si proclama, con toni accesi e diretti, contrario al multiculturalismo, pone grande enfasi sull’identità olandese e fa dell’anti-islamismo e dell’anti-immigrazione i punti principali del suo discorso politico. Il PVV può essere considerato il diretto successore della LPF (Lista Pim Fortuyn) nata nel 2002 e disegnata attorno alla figura del suo leader, Pim Fortuyn appunto. La LPF conosce, subito in seguito alla sua formazione, un rapido declino che la porta ad uscire dal Parlamento nel 2006, quando ne raccoglie l’eredità il PVV. La LPF ed il PVV, seppur non uguali, condividono molte caratteristiche in comune: entrambi usano un linguaggio nazionalista che tende a dividere la società tra “nativi” ed “altri”, in questo caso musulmani, sono critici nei confronti delle istituzioni politiche e, perciò, si propongono come soluzioni anti-establishment, rappresentative di quella che un tempo veniva considerata la “classe operaia”. Tendono, inoltre, ad essere contrari al processo di unificazione europea e, più in generale, temono i processi di globalizzazione. Il linguaggio politico di Wilders è piuttosto estremo e particolarmente incentrato sulla contrapposizione nei confronti di qualsiasi forma di apertura ed espressione pubblica dell’Islam. Attraverso la richiesta di chiudere tutte le scuole islamiche del paese, imponendo una tassa sul velo, bruciando e chiedendo di bandire il Corano dall’Olanda, il PVV ha impedito di abbassare i toni sull’annosa questione dell’integrazione.

Non può stupire, in fondo, che Andres Breivik, il responsabile della strage di Utoya nel 2011, abbia citato Geert Wilders innumerevoli volte nel manifesto scritto e postato online prima di procedere con il suo folle piano.

La domanda, spontanea a questo punto, è come sia potuto succedere che il paese in cui, legalmente, al canto del Muezzin era riconosciuta la stessa uguaglianza e dignità del suono delle campane, sia arrivato a tanto. Wilders, in quest’ottica, è il prodotto finale di un mutamento nella disposizione e nell’atteggiamento della società iniziato almeno vent’anni prima ed esacerbato dagli avvenimenti contemporanei che hanno cambiato la storia dell’Occidente.

Quando, a fine anni ’70, i Paesi Bassi realizzarono di essere diventati un paese d’immigrazione, trasformarono la “guest woker policy” (importazione di lavoratori temporanei nel territorio nazionale, pratica che negli anni ’60 e ’70 era diffusa a livello europeo) implementata fino a quel momento, in una politica di integrazione socio-culturale delle minoranze immigrate ma rispettosa della diversità culturale di questi gruppi. Si tratta, sostanzialmente, del riconoscimento legale del diritto alla differenza, ovvero il diritto di sviluppare la propria identità culturale e religiosa come tutti gli altri gruppi della società. Infatti, particolare tipicamente olandese, la società era una società pillarizzata, ovvero divisa verticalmente (quindi non sulla base di classi sociali) in gruppi formati sulla base della fede religiosa. Ognuna di queste comunità religiose, costituiva un pilastro a sé, organizzato secondo propri assetti funzionali: scuole, ospedali, giornali, sindacati, canali tv e radio. In questo modo, i diversi segmenti della società potevano coesistere, senza scendere a compromessi sulla propria identità, grazie ad una strategia di pacificazione basata sull’autonomia dei singoli gruppi e gestita attraverso il compromesso ed il confronto politico. Il concetto fondamentale era la non interferenza della politica con l’espressione identitaria dei gruppi, l’arena politica doveva invece essere il luogo dove scomporre e risolvere i conflitti tra le parti. Quando nel 1983 il governo olandese si ritrovò a dover implementare un nuovo modello di integrazione dei gruppi minoritari, sempre rispettoso della loro identità culturale, decise di riprendere il vecchio modello a pilastri dove lo stato stesso avrebbe svolto il ruolo di mediatore dello svantaggio sociale. Un eccezionale ed innovativo modello multiculturale era nato, un modello che non richiedeva l’assimilazione dei residenti stranieri e dove ognuno aveva il pieno diritto di esprimere le proprie convinzioni e la propria identità. Dall’altro lato, allo stesso modo, c’era una società disposta e flessibile nei confronti di nuove tradizioni e costumi, sicuramente non arroccata sulla difesa esasperata di un’identità nazionale forte ed esclusiva. Nel 1983 quindi, il pilastro islamico ebbe modo di prendere vita e, di conseguenza, nacquero moschee, scuole, canali televisivi islamici finanziati dal governo. Ovviamente, discriminazioni ed incidenti razzisti esistevano, così come alcuni piccoli partiti mossi da sentimenti anti-immigrato, tuttavia qualsiasi fossero i problemi i Paesi Bassi sembravano in grado di gestire l’insoddisfazione ed i timori della popolazione e sembravano in grado di farlo all’interno della pacifica cornice multiculturale cui avevano dato vita.

Tuttavia, i nodi vengono al pettine ed i problemi più evidenti iniziarono a mostrarsi all’inizio degli anni ’90. Primo tra tutti fu un report del 1989 del WRR (organo indipendente di ricerca su cui si appoggia il governo olandese) che evidenzia come la politica multiculturale implementata in quel decennio non fosse, in realtà, stata in grado di evitare l’ulteriore marginalizzazione degli immigrati. Quelle politiche di fatto avevano creato una sottoclasse etnica socialmente,economicamente e spazialmente segregata. Allo stesso tempo, le prime voci di dissenso si alzarono anche dalla politica olandese. Primo tra tutti, nel 1991, Bolkestein, leader del partito liberale e ministro della difesa, che in un articolo espresse l’inconciliabilità tra cultura islamica e quella olandese oltre che la legittimità di richiedere un certo livello di integrazione alle minoranze presenti nel paese.

Effettivamente, la riproposizione del modello pillarizzato, e quindi l’inserimento della minoranza musulmana nella società attraverso lo stesso sistema usato da cattolici e protestanti secoli prima, si potrebbe dire un approccio anacronistico. Infatti, riproporre in una società laica e secolarizzata come quella olandese degli anni ’80 un modello appartenente al passato, può essere una delle ragioni all’origine della diffusa insoddisfazione nei confronti delle politiche multiculturali. Allo stesso tempo, eventi internazionali come la Fatwa contro Salman Rushdie non aiutarono a calmare il dibattito europeo sull’integrabilità degli immigrati musulmani nella società occidentale.

Si arriva così agli anni ’90, segnati dall’inizio di un profondo ripensamento e dalla crisi delle politiche adottate in passato. La posizione del governo sulla questione rimane profondamente contraddittoria, così mentre da un lato si continua ad operare allo scopo di sorvegliare l’esistenza di forme di discriminazione nei confronti dei migranti (1994 qual treatement act), dall’altro si cominciano a fare i primi passi indietro (1997 viene revocata la possibilità di ottenere la doppia cittadinanza nelle pratiche di naturalizzazione). In questo contesto di profondo ripensamento e confusione, si aggiunge la crisi dello stato sociale che inevitabilmente segna un cambiamento generale delle politiche statali e che si rispecchia nella stessa modifica della politica d’integrazione. L’attenzione passa dai diritti degli individui alle loro responsabilità, da quello che è dato a ciò che ci si aspetta in cambio. Fino ad arrivare alla colpevolizzazione delle minoranze stesse per la loro posizione di svantaggio, accusate di essere responsabili della loro condizione perché poco propense all’integrazione.

Paradossalmente, la regola del discorso “politicamente corretto” non ha permesso per lungo tempo di parlare dei problemi concreti e reali, oltre che degli errori dovuti alle politiche implementate, nel dibattito pubblico olandese. Alcuni temi, come l’integrazione delle minoranze o i discorsi sull’Islam, erano tabù, evitati perché troppo sottile era il confine tra necessario e discriminatorio. In Olanda la politica evitò un discorso serio su queste tematiche fino a che la situazione non esplose sotto gli occhi di tutti. Il primo passo fu nel 2000, quando il sociologo Paul Scheffer pubblico un duro articolo di condanna al multiculturalismo, alla politica di integrazione perseguita dal governo oltre che alla totale mancanza di “coscienza nazionale” degli olandesi, concludendo che il modello olandese era un “dramma”. Le sue opinioni spaccarono il mondo politico e la discussione sull’integrazione, da ora in avanti, sarà sempre più intensa, drastica, drammatica e focalizzata sugli aspetti culturali dell’integrazione. E questa sorta di incertezza culturale nazionale porterà il paese verso una svolta autoritaria caratterizzata dall’intolleranza verso il diverso, musulmano.

Da lì a pochi mesi, con l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, questo dibattito nazionale diventerà europeo ed occidentale e il cambiamento che seguirà, sarà un punto di svolta definitivo nell’approccio verso le minoranze musulmane emigrate di cui l’Olanda sarà precursore.

In una tale situazione di confusione culturale la figura di Pim Fortuyn, politico ostile all’Islam che proponeva la chiusura delle frontiere e l’assimilazione dei migranti residenti in nome della difesa dei valori fondanti dello stato liberale e dell’identità olandese, sembrò saper dare una risposta sicura ai problemi del momento e la prima espressione politica di quei cambiamenti che attraversavano da tempo la società. Figura molto particolare quella di Fortuyn, perfettamente descritto da Antonio Polito in un articolo per La Repubblica.

“[…]Pim Fortuyn non era Le Pen, né Heider. Non era antisemita. Non era nazista. Non irrideva l’Olocausto. A sentir lui il suo modello era Silvio Berlusconi. Ma era anche tutto ciò che Berlusconi non potrebbe mai essere: gay dichiarato, testa rasata, camicia a scacchi e pochette nel taschino, un passato marxista, illustrato da una cattedra in sociologia all’Università di Groningen.”
Il suo assassinio nel maggio 2002, nove giorni prima delle elezioni politiche che lo davano come probabile leader del più importante partito in Parlamento può essere considerato : “il secondo capitolo europeo della storia cominciata l’11 settembre a New York”.
Da qui in avanti, anche se la LPF non farà più parte di una coalizione di governo già dal 2003, tutti gli altri maggiori partiti politici modificheranno i propri programmi sui temi riguardanti immigrazione e integrazione, andando ad adottare nuove leggi a regolamentazione delle procedure di naturalizzazione e d’ingresso degli stranieri, il cui target principale saranno i flussi di ricongiungimenti familiari turchi e marocchini in entrata. Questi gruppi infatti dagli anni ’70 in poi hanno costituito, da soli, il 50% sul totale dei flussi in entrata nei Paesi Bassi.

L’Olanda quindi, per prima in Europa, nel 1996 adotta dei corsi da 600 ore di integrazione civica e di lingua, la cui partecipazione è fortemente consigliata ai nuovi arrivati. Segue una rapida escalation, nel 1998 questi corsi diventano obbligatori per legge. Il Wet Inburgering Nieuwkomers converte la facoltatività in un obbligo di partecipazione pena il pagamento di sanzioni. Ma le più radicali radicali modifiche arrivano nel 2003/2004 e nel 2006/2007. Dal 2003 (modifica del Dutch Nationality Act del 1985), la procedura di acquisizione della cittadinanza prevede necessariamente il superamento di un test di lingua e cultura, pratica che va così ad affiancare il programma di integrazione obbligatorio del 1998. Mentre nel 2004 entra in vigore una legge di applicazione di normativa europea che va ad aumentare i requisiti di reddito ed età necessari per una procedura di ricongiungimento familiare per cittadini non europei. Tra il 2006 ed il 2007, invece, entrano in vigore il Wet Inburgering Buitenland (test di integrazione civica all’estero) ed il Wet Inburgering (test di integrazione civica). Il test di integrazione civica va a sostituire la legge di integrazione del 1998, rendendo obbligatorio la frequenza ai corsi ed il superamento degli esami non solo ai migranti in entrata ma anche a quelli già residenti nel paese. La legge del 2007, quindi, prevede il superamento di un esame come condizione necessaria per il rilascio sia del permesso di soggiorno temporaneo che permanente. Di fatto, dal 2007, gli immigrati in corso di stabilizzazione devono soddisfare gli stessi requisiti richiesti ad un individuo che si sta preparando per diventare cittadino olandese. Il caso più eclatante dei due è, comunque, il test di integrazione civica all’estero adottato nel 2006. Questo è sempre un esame di lingua e cultura olandesi ma viene fatto all’estero nell’ambasciata olandese. Il superamento del test è un requisito necessario per l’ottenimento del visto di soggiorno, teoricamente necessario per tutti gli individui provenienti da paesi non europei. Tuttavia, una lunga lista di nazionalità esentata dall’obbligo di sostenere l’esame: Canada, USA, Corea del Sud, Giappone sono solo alcuni esempi. Diventa evidente, quindi, che il vero obiettivo dietro all’introduzione del test è la riduzione dei flussi di migranti in entrata provenienti dai paesi non occidentali (quindi musulmani ed in particolar modo turchi e marocchini) selezionando, tra questi, solo i più “culturalmente assimilabili”. Non serve aggiungere che il costo dei test è molto elevato: 230 euro per il primo e 350 per il secondo, per ogni tentativo. Per preparare test di integrazione civica all’estero inoltre, il governo olandese non organizza corsi di lingua o di educazione civica, ha però messo a disposizione un kit dal costo di 63,90 euro. Questo è composto da un video educativo sui Paesi Bassi “Naar Nederland”, una dispensa che raggruppa le immagini del video, un CD con le domande che potrebbero venire chieste all’esame e dei quiz preparatori di lingua. L’acquisto del kit non è obbligatorio, ma ovviamente fortemente consigliato. Le conseguenze dell’introduzione dei test si sono manifestate nell’immediato in una decisa riduzione delle procedure di naturalizzazione e anche nel crollo delle domande di ricongiungimento familiare. Tuttavia, alcuni studi fatti negli anni successivi l’introduzione dei test, hanno dimostrato che l’introduzione delle nuove leggi non ha significato una migliore integrazione o un miglioramento delle competenze linguistiche, quanto piuttosto una privazione del diritto alla cittadinanza e un impedimento per il godimento del diritto alla vita familiare.

Tutte queste leggi e misure implementate, sono state legittimamente introdotte (o quasi, come fa notare Human Rights Watch) nella legislazione nazionale in totale rispetto con le normative europee in materia. Com’è possibile però che strumenti evidentemente discriminatori siano in linea con le politiche dell’Unione? Perché, come stabilito nel Trattato di Amsterdam, dall’idea delle migrazioni come “risorsa” per il mercato unico europeo si è passati a considerarle una minaccia e, nel migliore dei casi, un problema?

Il Trattato di Amsterdam, in vigore dal 1999, stabilisce infatti che la regolamentazione delle migrazioni diventi compito dell’Unione perché le sole normative nazionali non sono più in grado, da sole, di gestire un fenomeno così globale. Infatti è proprio in sede europea che, tra il 1999 ed i primi mesi del 2003, si discute la direttiva 2003/86/CE sui ricongiungimenti familiari. Ed è a questo livello che il governo olandese capisce di dover agire attivamente per evitare che gli interessi nazionali collidano con le direttive dell’Unione. Nel 1999 le posizioni dei delegati olandesi sono ancora confuse e contraddittorie, visti i tempo di mutamento che il paese stava attraversando. Il governo è però certo di non volere, in alcun modo, che le normative europee possano intralciare le intenzioni legislative, future, nazionali. La morte di Pim Fortuyn e gli sconvolgimenti politici che ne seguirono portarono con sé anche l’idea di una precisa direzione politica da seguire. Di conseguenza, prima di provvedere a qualsiasi modifica legislativa nazionale, i rappresentanti olandesi si sono premurati di adeguare, o perlomeno influenzare fortemente, le direttive e gli strumenti di soft law comunitari ai loro disegni politici futuri. Questo ha significato l’adozione, nel settembre 2003, della direttiva UE sui ricongiungimenti familiari sulla base di una proposta di legge olandese, pur sostenuta da altri stati. Le negoziazioni finali della direttiva sono avvenute tra il 27 e 28 febbraio 2003, addirittura prima degli attentati terroristici di Madrid e ampiamente in anticipo rispetto gli sconvolgimenti emotivi provocati dal brutale assassinio, nel novembre 2004, di Theo Van Gogh. La morte del provocatorio regista (autore del corto Submission, fortemente critico del rapporto tra cultura musulmana e figura femminile) ha, tuttavia, sicuramente influito nella determinazione della soft law europea. In questa categoria rientrano i Common Basic Principles for Immigrant Integration Policy in the European Union adottati dal Consiglio dell’Ue nel novembre 2004, durante la presidenza olandese, e che oggi costituiscono un punto di riferimento chiave per la politica europea di integrazione. Nei principi base per la politica di integrazione, infatti, al punto 4 è previsto che i paesi possano chiedere agli immigrati di adempiere a dei requisiti di integrazione aggiuntivi, riguardanti la conoscenza della lingua, della storia e delle istituzioni della società ospitante. Principi base europei che, guarda caso, rispecchiano esattamente le richieste nazionali olandesi introdotte, prime in tutta Europa, con i test di integrazione civica tra il 2006 ed il 2007.

Questi avvenimenti dimostrano come, in fondo, ciò che avviene nella società civile degli altri paesi europei ci tocca da vicino e come il livello legislativo europeo è fondamentale nella determinazione di politiche che crediamo, stoltamente, siano ancora una prerogativa nazionale ma che, oramai, lo sono solo ad un livello formale. Questi eventi, dimostrano che la dimensione europea deve essere tenuta in considerazione molto più di quanto noi stessi siamo disposti ad ammettere. L’Olanda è un esempio chiave perché è stato il primo paese europeo ad introdurre tali misure. E’ stato il paese precursore in una radicale modifica dell’atteggiamento nei confronti degli stranieri, seguita poi da una altrettanto radicale modifica legislativa nazionale, ma prima ancora europea. I test di integrazione civica, dopo il 2006, sono diventati un modello di riferimento sulla base del quale altri paesi europei hanno modificato, a loro volta, le politiche di integrazione nazionale. Gran Bretagna, Germania, Danimarca, Austria hanno introdotto dei test di integrazione civica, seguendo la direzione già intrapresa dagli olandesi. Cosa avverrà in Italia, in un futuro probabilmente non così lontano, per quel che riguarda le politiche di integrazione e la gestione dei flussi in entrata, forse possiamo già immaginarlo.