Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Parere del Consiglio di Stato del 31 marzo 2004 – N. Sezione 2592/03

Esclusione dalle graduatorie di istituto per il conferimento delle supplenze per l’anno scolastico 2001/2002

OGGETTO
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dall’Ing. xxx xxx avverso il provvedimento n. 7611 del 25.10.2001 dal dirigente scolastico dell’istituto superiore ITA “Stanga” di Cremona di esclusione dalle graduatorie di istituto per il conferimento delle supplenze per l’anno scolastico 2001/2002.

VISTO il ricorso indicato in oggetto, depositato presso il Segretario generale del Consiglio di Stato in data 26.06.2003 ai sensi dell’art. 11, secondo comma, D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199

LETTI gli atti ed udito il relatore-estensore, cons. Paolo Maria Napolitano

VISTO il parere in data 10.09.2003 con il quale di invitava il Ministero riferente a trasmettere l’originale del ricorso, la relazione e gli eventuali allegati;

VISTA la nota prot. 2347/03 in data 25.07.2003, ma pervenuta al Consiglio di Stato solo in dat 18.09.2003, con la quale il referente Ministero trasmetteva l’originale del ricorso e la sua relazione;

PREMESSO:

il ricorrente, cittadino extracomunitario, in possesso della laurea in ingegneria conseguita presso il Politecnico di Milano ed iscritto nell’albo dell’Ordine degli ingegneri per esercitare in Italia l’attività professionale, avendo presentato domanda per ottenere l’inclusione nella graduatoria d’istituto per il conferimento delle supplenze temporanee per l’anno scolastico 2001/2002, ha ricevuto un diniego dal Dirigente scolastico dell’Istituto Superiore ITA “STANGA” di Cremona in quanto privo del prescritto requisito della cittadinanza italiana o di un Paese dell’U.E.

CONSIDERATO:

Il ricorrente contesta la legittimità del d.p.r. 487/1994 nella parte in cui limita ai cittadini italiani o dei Paesi dell’U.E. la partecipazione “ad un pubblico concorso per l’assunzione temporanea in un ente pubblico ” Afferma che il “Decreto Legislativo 286/98, all’art. 2 comma 2, prevede espressamente che “lo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale, gode in materia civile degli stessi diritti riconosciuti al cittadino italiano, e, al comma 3 dello stesso articolo, (che) è riconosciuta parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”. Sostiene, altresì che “limitare tale possibilità solamente nei confronti dei datori di lavoro provati è palesemente illogico in quanto lede il principio di eguaglianza ed è in aperto contrasto con la normativa di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego”.

L’art. 51 della Costituzione prevede che tutti i cittadini, dell’uno o dell’altro sesso, possano accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Con riferimento a tale disposizione costituzionale, il d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, all’articolo 2 indica fra i requisiti generali per l’ammissione agli impieghi quello del possesso della cittadinanza italiana. Il Consiglio di Stato (con la sent. n. 43 del 4/2/1985 della VI Sezione) ha affermato che la riserva non opera al fine di dare protezione al mercato interno del lavoro, ma per garantire che i fini pubblici, che nel cittadino si suppongono naturalmente compenetrati nei fini personali, siano meglio perseguiti e tutelati.

Per ciò che riguarda i cittadini comunitari, è opportuno sottolineare che l’art. 48 del Trattato istitutivo della Comunità (attualmente art. 39 nella versione in vigore dal 1° maggio 1999, firmata ad Amsterdam), nell’affermare il principio della libera circolazione dei lavoratori comunitari all’interno dei Paesi della Comunità, prevede in modo espresso che tale principio non si applichi negli impegni presso la Pubblica Amministrazione. E’ estranea alla materia del ricorso l’analisi dell’interpretazione giurisprudenziale che a tale disposizione è stata data dalla Corte di Giustizia europea.

Si è invece fatto un rapido riferimento al contenuto del Trattato istitutivo della Comunità per evidenziare che anche nei confronti dei cittadini dei Paesi Comunitari esistono espressi limiti all’accesso agli impieghi presso la P.A.

Il ricorrente fa discendere dall’art. 2 del d.lgs. 25.7.1998 n. 286, commi 2 e 3 la conseguenza che nei confronti dei lavoratori extracomunitari sia possibile l’accesso agli impieghi anche presso la P.A.

La tesi è infondata.

L’invocato 2° comma del d.lgs. 286/1998 prevede infatti che “Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente. Nei casi in cui il presente testo unico o le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità, essa é accertata secondo i criteri e le modalità previste dal regolamento di attuazione”. Il terzo che “La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell’OIL n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritto rispetto ai lavoratori italiani”.

Ritenere che nell’ambito della “materia civile” rientrino i rapporti di lavoro costituisce un’evidente ed ingiustificata forzatura del testo legislativo. Oltretutto, la Costituzione differenzia i “rapporti civili”, nel cui titolo inserisce gli articoli da 13 a 28, dai “rapporti economici” tra i quali inserisce la tutela del lavoro.

Parimenti infondato è il richiamo al contenuto del comma 3, il quale, nel garantire “parità di trattamento”, fa riferimento ai “lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti” nel territorio italiano. Non affronta, quindi, la problematica sollevata dal ricorrente, ma si limita ad affermare che successivamente all’instaurazione del rapporto di lavoro, (ovviamente, nei casi in cui la normativa lo consenta), il lavoratore extracomunitario ha parità di diritti con quello italiano. Tanto è vero che il successivo comma 5 prevede che “allo straniero è riconosciuta parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi, nei limiti e nei modi previsti dalla legge”. Quindi, laddove la legge ha ritenuto di individuare “parità di trattamento” allo straniero in quanto tale, prescindendo dalla circostanza che quest’ultimo avesse lo specifico stato di “lavoratore”, lo ha detto espressamente. Poiché il citato comma 3 non afferma che “a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio italiano (è garantita) parità di trattamento e piena uguaglianza con il cittadino in materia di diritto di lavoro” (e, tra l’altro, non l’avrebbe potuto dire, visto il divieto posto dall’art. 51 della Costituzione), ma si limita ad affermare la parità di trattamento tra i lavoratori stranieri ed italiani, è evidente che occorre intendere che ciò si verifica nei casi in cui lo straniero non comunitario abbia in atto un rapporto di lavoro nei settori in cui tale rapporto può essergli attribuito.

Infine, è da sottolineare che l’art. 27 del citato d.lgs. che disciplina l’ingresso per lavoro in casi particolari” precisa al comma 3 che “Rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività”.

Tra di esse, dato che il riferimento è effettuato alle “disposizioni” e non alle norme legislative, deve essere compreso l’art. 2 del d.p.r. 9.05.1994, m. 487, relativo al “Regolamento recante nome di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”, che, al primo comma, nel disporre che “possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i seguenti requisiti generali”, indica al n. 1) il requisito della “cittadinanza italiana”. Tale disposizione precisa altresì che “tale requisito è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994” (il quale, come è noto, disciplina i casi in cui, anche nei confronti dei cittadini extracomunitari, non si può prescindere dalla cittadinanza italiana).

Per completezza vi è, infine, da osservare che la giurisprudenza (TAR Toscana, sez. II, sent. n. 38/2003) ha escluso che la citata disposizione sia stata abrogata dal d.lgs. 286/1998 “e ciò non solo perché un contesto normativo non appare incompatibile col secondo …………ma comunque perché tale effetto non si determina allorché la legge precedente riveste carattere di specialità (regolando nel caso in esame la specifica materia dei concorsi) rispetto a quella posteriore (che attiene alla posizione dei cittadini extracomunitari)”.

Nella citata sentenza si escludono, altresì, dubbi sulla costituzionalità di tale normativa. Si afferma, infatti, che “premesso che non vengono in alcun rilievo i principi di democraticità (art. 1) ed inviolabilità dei diritti dell’uomo (art. 2) (la materia dei concorsi non investe né la democraticità di un ordinamento politico statuale né i diritti umani da esso garantiti) né la libertà di emigrazione dei cittadini (art. 35), la prima norma che attenere alla questione è l’art. 3 (principio di uguaglianza); esso però opera anche per il cittadino straniero, ma quando si tratta di affermare diritti fondamentali garantiti (v. Corte cost. n. 120/1967 e n. 241/1974); tra i quali non può ascriversi quello di partecipare ad uno specifico concorso piuttosto che ad un altro. Va anche ricordato che l’art. 10 Cost. (che al secondo comma tratta della condizione giuridica dello straniero) da un lato non reca alcun principio specifico di trattamento paritario in materia di diritti non fondamentali e dall’altro demanda ogni regolamentazione alla legislazione ordinaria, nella quale sono da ascriversi anche i Trattati internazionali (per il principio v. Corte cost. n. 188/1980). Nell’art. 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo, resa esecutiva con legge n. 881/77, non è reperibile in materia di lavoro un precatto che ascriva tra i diritti fondamentali la parità di trattamento dei cittadini e degli stranieri in materia di requisiti di accesso ai pubblici impieghi, limitandosi la norma a preludere discriminazioni tra i lavoratori già assunti e non tra concorrenti; e comunque è stato affermato che il patto ratificato con detta legge si pone al di fuori dell’art. 10 (v. parimenti Corte cost. n. 188/1980), sicché la normativa non può essere verificata alla stregua della disposizione costituzionale invocata”. (Contra La precedente sentenza del TAR Liguria, Sezione II n. 399/2001).

Particolarmente significative sono poi le conseguenze che, con riferimento alla questione in esame, nella sentenza vengono tratte dal vigente riparto di giurisdizione. Si osserva, infatti che “l’attuale sistema regolante l’impiego presso le pubbliche Amministrazioni vede infatti una regolamentazione privatistica solo del rapporto di lavoro e non anche dei profili di interesse pubblico inerenti la fase della sua formazione, per i quali non a caso permane del resto la giurisdizione del giudice amministrativo (art. 63 d.leg.vo n. 165/2001).”

Sempre con riferimento a quanto innanzi esaminato, esaustiva appare infine l’argomentazione sviluppata nella sentenza n. 782 del 2004 della I Sezione del Tar Veneto, là dove si afferma che “ad avviso del Collegio non può ritenersi irragionevole, né in contrasto con alcun parametro costituzionale la precitata conclusione. Se, invero, l’evoluzione dell’ordinamento ha portato all’estensione affatto congrua con l’appartenenza dell’Italia all’U.E., e con la connessa constatazione che l’ordinamento giuridico italiano si inscrive, ora – o si affianca – all’ordinamento giuridico dell’U.E., entità sempre più simile a una formazione politica sovra-statuale ovvero a uno Stato quasi federale. Tanto rende evidente che il perdurare di barriere quanto all’accesso ai pubblici uffici di uno qualsiasi degli Stati dell’Unione per i cittadini degli Stati membri non avrebbe avuto giustificazione alcuna, spingendo l’integrazione progressiva dell’U.E. all’eliminazione di simili barriere, come poi avvenuto.
Ciò premesso e considerato – prosegue la citata sentenza – pare evidente che nessuna delle menzionate ragioni potrebbe invocarsi a favore dell’estensione anche ai cittadini extracomunitari. Una simile estensione, al più, potrebbe giustificarsi sulla base di una eventuale convenzione o accordo fra l’Italia e un determinato Paese, che nel caso di specie è del tutto fuori discussione…. In conclusione, non pare irragionevole al Collegio che venga mantenuta la preclusione in parola, anche nella più recente normativa”.

Alla luce delle innanzi indicate argomentazioni, le censure mosse dal ricorrente sono infondate.

P.Q.M.

Si esprime il parere che il ricorso debba essere respinto.

IL PRESIDENTE DELLA SEZIONE
(Sergio Santoro)

L’ESTENSORE
(Paolo Napolitano)