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Perché i controlli alla frontiera sono ora una sfida globale di Ruben Andersson

Tratto da Irin, 17 giugno 2015

Foto: Gustav Pursche / jib-collective.net - Budapest, 16 giugno 2015 protesta contro la barriera al confine serbo-ungherese
Foto: Gustav Pursche / jib-collective.net – Budapest, 16 giugno 2015 protesta contro la barriera al confine serbo-ungherese

Londra, 17 giugno 2015 (IRIN) – A qualche giorno dalla Giornata Mondiale del Rifugiato, l’antropologo e autore di “Illegality, Inc.”, nonché professore alla LSE, Ruben Andersson analizza come gli sforzi localizzati per il controllo dei flussi migratori ignorino in realtà la dimensione globale delle rotte di migrazione irregolare.

L’allarme era contenuto, come ci si sarebbe aspettato da uno dei capi della polizia di frontiera europea, ma restava pur sempre un allarme. Nonostante la determinazione dei leader europei nel lanciare un’operazione militare volta a colpire i trafficanti di uomini nel Mediterraneo, il direttore dell’agenzia delle frontiere europee, FRONTEX, ha espresso una certa cautela: “Se si iniziasse un’operazione militare nei pressi della Libia” afferma ancora ai primi di giugno “ciò potrebbe modificare le vie di migrazione e spostarle più a est”. Chiusa una via, se ne fa un’altra. Semplice, incredibilmente – da fatti così elementari raramente si traggono lezioni sul monitoraggio dei flussi migratori.

Nella “guerra alle droghe” viene spesso chiamato “effetto palloncino”: schiaccialo da una parte, e si gonfierà dell’altra. Qualcosa di simile succede a causa degli sforzi per arginare l’immigrazione irregolare, con una differenza importante: quando il palloncino è fatto di persone, la disperazione aumenta quanto più forte lo si schiacci. Così accade anche per i funzionari di frontiera e i politici, come dimostrato dalla frustrazione crescente in Italia a fronte della riluttanza dei leader europei ad aiutare il Paese nella gestione del flusso di persone che sbarcano sulle sue coste meridionali.

L’effetto palloncino pone in una luce diversa il presunto successo di alcune operazioni di monitoraggio e gestione dei flussi migratori. Per esempio, gli ormai disperati politici europei hanno preso ispirazione dai modelli spagnolo ed australiano che sembrano aver funzionato – per lo meno solo per una piccola parte. La tanto celebrata chiusura delle vie marittime tra le Canarie e l’Africa occidentale da parte della Spagna nel 2007 ha semplicemente contribuito a spostare altrove i flussi di migranti. Questa stessa rotta era nata dallo smantellamento di altre vie migratorie nel Marocco settentrionale, il che ha contribuito a spostare i flussi più a sud; e, da quando la Spagna e alcuni paesi africani hanno cominciato a collaborare nell’ambito dei pattugliamenti e delle deportazioni dei migranti nell’Atlantico, le rotte si sono spostate nuovamente, stavolta verso il Sahara. E voilà – il problema della Spagna è così diventato un problema italiano, poi greco, e così via. Mentre questa settimana, i leader europei brindano ai trent’anni degli Accordi di Schengen sulla libera circolazione all’interno dell’Unione, preferirebbero anche che ci dimenticassimo di come le rotte migratorie vengono spostate diventando il problema di qualcun altro.

Foto: Manifesto, pubblicato in 18 lingue, come parte della campagna Operation Sovereign Borders
Foto: Manifesto, pubblicato in 18 lingue, come parte della campagna Operation Sovereign Borders

Ma la frontiera-palloncino si estende ben più in là delle frontiere europee. L’operazione australiana Operation Sovereign Borders è stata molto apprezzata dai difensori della linea dura, tra cui il Primo Ministro Tony Abbott, il quale ha lanciato un appello all’Europa per l’adozione di misure drastiche simili e, più semplicemente, per il blocco dei barconi.

Tralasciando come l’Australia fosse dipendente dai suoi meno potenti e più poveri vicini di casa per il successo delle sue durissime politiche anti-migratorie, una soluzione del genere non sarebbe possibile tra l’Europa e gli Stati del Nord Africa, tra cui non vi è alcuna Nauru1 a fare da appoggio. E non si badi alla crudeltà e ai ripetuti abusi dei diritti umani durante la detenzione dei migranti, ai respingimenti forzati e persino al già più volte riportato pagamento dei trafficanti di uomini.

Anche se fosse un successo di piccole dimensioni, ci si dovrebbe ricordare che le nazionalità che un tempo arrivano sulle coste australiane ora si mescolano con quelle che arrivano in Europa. Attorno ai 3.500 afghani sono giunti in Australia tra il 2012 e il 2013; dopo il lancio dell’Operazione Sovereign Borders nel settembre 2013, gli arrivi sono drasticamente diminuiti. Nel frattempo, il numero dei profughi afghani alle frontiere europee è balzato dai 9.500 migranti nel 2013 a più di 22.000 nel 2014.

Come ha affermato lo scorso aprile l’AD del Consiglio dei Rifugiati Australiani al The Guardian: “Quello che l’Australia ha fatto è stato solamente spostare la questione a largo delle proprie coste, promuovendo un atteggiamento di deterrenza e di ostilità. Gli australiani hanno senza dubbio peggiorato la situazione per coloro che hanno provato a trovare la salvezza in Europa”.

Destinazioni differenti, storie simili. Israele – anch’esso desideroso di esaltare la propria politica frontaliera – ha completato una barriera lungo il confine egiziano nei primi mesi del 2013, e, allo stesso tempo, ha instaurato un nuovo e durissimo regime di detenzione. Come già riportato da IRIN, fino a quel momento “attorno ai 1.000 richiedenti asilo, per la maggior parte eritrei e sudanesi, giungono ogni mese in territorio israeliano”. Poco dopo, quella cifra si è ridotta a zero. Nel frattempo, i rafforzamenti alla frontiera nell’Arabia Saudita e la crescente ostilità verso gli stranieri anche in Sud Africa hanno costretto rifugiati e migranti provenienti dal corno d’Africa ad abbandonare anche quelle destinazioni. Durante questo periodo, il numero di eritrei detenuti nei campi di accoglienza europei è balzato dai 2.604 nel 2012 ai 34.586 nel 2014, mentre il numero di somali giunti alle frontiere europee è raddoppiato tra il 2011 e il 2014.

In breve, le rotte di immigrazione irregolare si stanno globalizzando, come già accaduto con i Rohingya, respinti da una parte all’altra delle coste del Sud-Est Asiatico. Come nel caso della spietatezza dimostrata verso la questione Rohingya, la globalizzazione delle rotte migratorie va a braccetto con un modello di pattugliamento delle frontiere di stampo particolarmente punitivo, che tuttavia contribuisce a rendere più rischiose le rotte per i migranti senza veramente comportarne una riduzione. Questo modello improntato sulla sicurezza, esportato dal cuore dei paesi occidentali, ha semplicemente concorso all’allargamento dei poteri delle forze di sicurezza, dei regimi corrotti, dell’industria della difesa e dei trafficanti di uomini coinvolti nelle tratte, dal Messico, alla Turchia, alla Tailandia. L’approccio “non nel mio cortile” ha raccolto riconoscimenti occasionali da parte dei governi nazionali, ma a livello globale, una tale limitatezza di vedute significa la disfatta.

Stiamo appena iniziando a comprendere il fenomeno della globalizzazione dell’immigrazione irregolare, e, oltretutto, abbiamo bisogno di maggiori prove degli effetti delle migrazioni globali. Se le autorità politiche volessero affrontare seriamente la “crisi dei flussi migratori“, dovrebbero cercare di comprendere più a fondo il fenomeno della globalizzazione di quest’ultimi, e, successivamente, applicarvi gli insegnamenti tratti.

Potrebbero addirittura elaborare una sorta di piano per i flussi umani, ora che le rotte sono tanto globalizzate quanto lo sono i flussi di commerciali e finanziari. Eppure, i leader mondiali non stanno facendo niente di tutto ciò. Invece che delle politiche strutturate sullo studio dei fenomeni migratori, si punta a segnare delle mere vittorie politiche. L’incremento crescente dei fondi stanziati per il pattugliamento delle frontiere, in Europa e altrove, e il tasso record di decessi ai confini, evidenziano la necessità di un vero cambiamento delle politiche di immigrazione – così come di un approccio adeguato ad affrontare la globalizzazione dei flussi umani.

A pochi giorni dalla Giornata Mondiale del Rifugiato del 20 giugno, non vi è urgenza più grande.

Ruben Andersson