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da Il Manifesto del 23 maggio

«Picchiavano senza pietà» di Sara Menafra

Bologna – Macchie di sangue sui muri, lividi e teste spaccate. Le deputate Titti De Simone (Prc) e Katia Zanotti (Ds) si sono trovate davanti un gran brutto spettacolo quando hanno visitato il centro di permanenza temporanea per stranieri (cpt) di via Mattei a Bologna, 48 ore dopo il pestaggio della notte del 2 marzo. Così, per una volta, le violenze contro gli immigrati non sono annegate nel silenzio. Rischiano grosso i tredici «giustizieri», undici poliziotti, un carabiniere e il responsabile della croce rossa, dirigente della struttura. La procura della repubblica ha aperto un’indagine che fa tremare la questura. In attesa degli accertamenti, uno dei nordafricani pestati ci ha raccontato quell’orribile notte. Ne conosciamo nome e cognome ma lo chiameremo M.N., rischia già abbastanza per aver denunciato i poliziotti.

Perché la polizia è intervenuta nel centro?

Erano circa le 10 di sera. Io ed altri ci trovavamo dentro la sala in cui ci sono la tv e la macchina del caffè. Abbiamo sentito delle grida da fuori e siamo corsi a vedere. Dall’altro lato della cancellata che separa il centro vero e proprio dalle stanze dove stanno la croce rossa, il gabbiotto della polizia e l’infermeria, c’erano due persone del centro che avevano scavalcato. I carabinieri li avevano presi. Noi abbiamo iniziato ad urlare. I carabinieri hanno preso i due e li hanno trascinati nella stanza della polizia, consegnandoli agli agenti ed hanno chiuso la porta ma da dentro si sentivano ancora le urla. Allora alcuni di noi sono saliti sulla tettoia del centro, e da li svitavano le lampadine che sono attaccate sotto la tettoia e le lanciavano contro la stanza, mentre altri erano davanti al cancello di ingresso e lanciavano immondizia e bottigliette d’acqua e altri ancora sono andati in fondo al cortile, ed hanno staccato un pezzo di grondaia dal muro lanciandolo oltre il cancello.

Quanto è durata?

Non molto. Poi i poliziotti sono usciti dalla stanza portandosi dietro i due immigrati, che erano pieni di sangue dappertutto, e li hanno spinti dentro il nostro cancello. Spingevano per entrare anche loro ma noi bloccavamo la porta e sono andati via.

Secondo le vostre denunce, dopo un po’, i poliziotti sono intervenuti una prima volta colpendo con gli idranti quelli che erano sulla tettoia. Cosa ricordi esattamente?

Quando hanno usato gli idranti quasi tutti sono scesi. Solo due o tre hanno resistito sopra. Uno è un marocchino che vive in Italia da anni, ha due figli italiani. Il caposquadra della croce rossa è andato sotto alla tettoia e lo chiamava: «Vieni giù – gli faceva – è finito tutto, non ti facciamo niente». Lui è sceso e l’hanno riempito di botte. Un altro è sceso e un agente ha preso un pezzo di cemento, uno di quelli che si erano staccati quando avevano rotto la grondaia, e l’ha colpito di nuovo. Il terzo era andato dalla parte delle donne, perché la tettoia passa anche sopra le loro stanze. Credo che l’abbiano preso durante il pestaggio successivo, quando hanno picchiato anche una donna.

A quel punto cos’è successo?

La situazione si era tranquillizzata e gli agenti erano andati via. Ognuno era andato al suo posto, anch’io ero tornato nella mia stanza e qualcun altro era andato nella stanza della tv a bere un caffè. Dopo qualche minuto uno che era in camera con me mi ha chiesto di andargli a prendere un caffè. Sono uscito dalla stanza e mi sono accorto che gli agenti e il responsabile della croce rossa avevano fatto il giro dell’edificio e stavano entrando dalla porta sul retro. Il responsabile della croce rossa ha tutte le chiavi della struttura e solo lui può entrare e uscire come vuole. I poliziotti erano bardati e avevano i manganelli in mano, gli scudi e i caschi. Sono corso nella stanza del caffè e ci siamo chiusi dentro. Loro sono arrivati subito ed hanno iniziato a colpire la porta. E’ una porta particolare perché in alto ha una finestra di vetro infrangibile. Uno degli uomini che era nella stanza con me, che poi è uno di quelli che alla fine erano ridotti peggio e che è stato immediatamente rimpatriato, ha urlato: «Ispettore, non c’è bisogno che sfondi la porta. La apriamo e ne parliamo». E lui ha risposto: «No. Io la sfondo e vi sfondo anche a voi». Poi è entrato e gli ha dato una manganellata in testa.

Quanti erano gli agenti?

Almeno dodici. Noi eravamo sei. Hanno iniziato a colpirci con i manganelli, soprattutto sulla testa. Uno, in particolare, era un vero e proprio macellaio, se n’è accorto anche l’ispettore che lo ha richiamato un paio di volte. In poco tempo il sangue si è sparso ovunque, sulla macchina del caffè, sulle sedie e sulla tv.

Quanto tempo è durata?

Non lo so. Un po’ di tempo, comunque. Quando sono usciti dalla stanza si sono buttati alle spalle dei lacrimogeni ed hanno chiuso la porta. Noi eravamo tutti per terra e all’inizio non avevamo il coraggio di uscire. Gli agenti erano andati nelle altre stanze a picchiare gli altri. Alla fine ci hanno messi tutti nel corridoio e lì è cominciata la vera e propria tortura perché eravamo tutti feriti e loro continuavano a picchiarci. A me hanno spaccato uno scudo in testa. Urlavano: «Qua comandiamo noi, vi mettiamo noi sulla strada giusta pezzi di merda». A quel punto sono state tre ore di insulti e di botte.

Cosa ricordi meglio di queste tre ore?

Ne sono successe tante. Mi ricordo che uno di noi era svenuto e un agente gli ha messo un piede sul torace ed ha detto alla sua collega: «E’ un motore a tre cilindri. Funziona ancora, il bastardo». Alla fine l’hanno dovuto portare in infermeria in barella. E poi ricordo un agente che aveva uno di quei telefonini che fanno le fotografie. Andava avanti e indietro nel corridoio dicendo: «Chi è il più bello?». Si è fermato davanti a me e mi ha fatto una fotografia.

Ma come è possibile che in tre ore gli altri operatori del centro non si siano accorti di nulla?

A tutto il pestaggio ha assistito il responsabile della croce rossa, che dava indicazioni alla polizia su di noi, chi eravamo e come ci comportavamo. Ai due lati del corridoio c’erano due agenti che facevano da palo e controllavano che non arrivasse nessun altro della croce rossa e faceva segno agli altri quando arrivava il medico. Lui entrava prendeva una persona alla volta, la portava in infermeria e la riportava indietro. Alla fine è arrivato un dirigente. Penso che sia stato lui ad accorgersi che la situazione gli era scappata di mano e che bisognava coprirla in qualche modo.

Cosa ti ha colpito di più di tutta la vicenda?

La logica che sta dietro. Avrebbero potuto arrestarci per la rivolta, so che in un altro cpt dei tunisini che avevano fatto una rivolta si sono presi quattro anni di carcere. Invece hanno voluto la resa dei conti per dimostrare che il territorio del cpt non appartiene all’Italia, ma alla polizia.