Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Corriere della Sera del 2 gennaio 2004

Pirati della droga e boss di Al Qaeda. L’ultimo viaggio dei nuovi schiavi

di Fabrizio Gatti

Le precedenti puntate sono state pubblicate il 24, 27, 29 e 31 dicembre

CONFINE LIBIA-NIGER – Meglio nascondere la pelle bianca. Bisogna avvolgersi nel taguelmoust , il turbante dei tuareg. Come fanno loro, lasciar scoperti soltanto gli occhi. Perché la discesa porta dritto tra i pirati. Fuorilegge del deserto nel Sahara senza legge. La terra di nessuno tra il Niger e la Libia. Non sembrano trafficanti di clandestini questi. I sessanta camion qua davanti sono nuovi, ben tenuti, il telefono satellitare sul cruscotto e le gomme a posto. Gli immigrati viaggiano su vecchi modelli e se capita un guasto spesso muoiono. Questa è merce che quando parte non si ferma più: la cocaina arriva sempre a destinazione. È il listino prezzi sull’antica rotta per l’Europa. Gli uomini valgono meno di qualunque altro carico.
Sessanta camion in mezzo al niente. Appesantiti di scatoloni fino al doppio della loro altezza. Sotto i teloni, tra le sigarette di contrabbando, ci sono tonnellate di droga. I grandi Mercedes verde militare aspettano il via. Forse stasera. È cocaina destinata all’Italia, alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati Uniti. E la società di copertura che la prenderà in consegna nei porti del Mediterraneo dev’essere italiana. Su ogni faccia dei cartoni, lo stesso marchio: «Primo» e, a volte, anche «Italy», ma nessun indirizzo.

L’accampamento segreto è in fondo a una specie di cratere. Guglie di roccia appuntita e dune di sabbia rossa tutt’intorno. Più o meno in mezzo all’enneri Achelouma, il letto di un grande fiume che sopravvive solo nell’acqua dei pozzi. Qui passa la rotta dal Sud America agli Stati Uniti. Un giro del mondo inventato dai narcos per confondere la Dea, gli 007 antidroga Usa: Colombia-Brasile-Oceano Atlantico-Nigeria-Niger-Nord Africa-Europa. È anche la rotta dei contrabbandieri che hanno portato armi, tecnologia e tabacco nella Libia sotto embargo. E se il governo di Tripoli accontenterà le pressioni europee e chiuderà all’immigrazione il valico di Tumù, questa resterà l’unica via per il traffico di clandestini verso l’Italia. Passa molto più a Ovest della pista di Dirkou. Salta tutti i posti di controllo di esercito e polizia. Ma è pericolosa come l’altra.
Oltre l’enneri Achelouma non ci sono più pozzi. Si sfida l’Idhan Murzuq, un mare di sabbia come il Ténéré. Cento morti di sete nel 2000, tutti sullo stesso camion bloccato tra le dune. Novantatré nel 2001. E tanti altri dopo, che ormai qui non fanno più notizia. Già adesso da Agadez è la rotta che costa di più. Perché ora i trafficanti usano i fuoristrada, più veloci: 90 mila franchi, 138 euro e 40, invece dei 40 mila per il biglietto del camion. Ma gli autisti arabi, tuareg o tubù non sono così affidabili. Se i furgoni 4×4 affondano e si insabbiano per il troppo peso, loro fanno scendere tutti i passeggeri. Chiedono che spingano. E se ne vanno. Una trentina di morti ogni volta. Oppure abbandonano gli immigrati in piena notte, non appena brillano le prime luci della Libia. Nel buio limpido del deserto, Murzuq e l’oasi di Al Gatrun luccicano a 80-100 chilometri di distanza. Giorni di cammino nella sabbia molle, senza bere o con una borraccia leggera. Così, non appena sorge il sole, in tanti perdono l’orientamento. E nessuno tiene il conto delle stragi.

Quello che succederà lo si vede già quando i militari libici sigillano la frontiera. Per le feste islamiche o le proteste italiane. Come in questi giorni. Il viaggio di cinquecento immigrati senza più nulla da mangiare si è fermato a Madama, l’ultimo avamposto dell’esercito del Niger. Sono ammassati all’ombra di un’acacia e sotto le ruote di due camion. La notte, 0 gradi, tremano per il freddo. Di giorno, 42 gradi, cercano di dormire. Per dimenticare che hanno fame. Il deserto è così. Quando si parte, bisogna arrivare a destinazione. Non si può aspettare. Nemmeno tornare indietro.
Ai trafficanti poco importa che il confine sia aperto o chiuso. I camion da Agadez e dall’oasi di Dirkou partono lo stesso.
È l’etica dei soldi. Un Mercedes 6×6 con duecento passeggeri aggrappati dietro incassa fino alla Libia 8 milioni di franchi a viaggio, 12 mila 300 euro. I 15 mila clandestini che ogni mese attraversano il deserto sono un affare da 600 milioni di franchi se viaggiano su camion: 923 mila euro al mese. E un miliardo e 350 mila franchi, più di due milioni di euro al mese, se salgono sui fuoristrada Toyota. Il rendimento è altissimo. Ai trafficanti un camion costa poco meno di 3 milioni di franchi per le sei tonnellate di gasolio necessarie e 160 mila franchi per i due autisti. Il guadagno pulito di ciascuna organizzazione è 4 milioni e 840 mila franchi, 7 mila 500 euro a viaggio.

Lo stipendio di un impiegato qui non supera i 40 mila franchi, 61 euro al mese. Poco più della paga ufficiale in Niger di militari e poliziotti. L’organizzazione più feroce nello sfruttamento dei clandestini è la loro. I dodici posti di controllo da Niamey, la capitale, al confine libico rendono in estorsioni e razzie fino a due milioni di euro al mese. Una media di 20 milioni di euro all’anno e forse più. Senza «costi di produzione». Se non lo sforzo fisico per frustare, bastonare e torturare gli immigrati durante le perquisizioni. Un fiume di soldi che si raccoglie nei conti personali dei vari ufficiali di esercito e polizia. E che nella drammatica storia del Niger minaccia la fragile democrazia del presidente Mamadou Tandja.
Ibrahim Manzo Djallo è direttore, inviato, redattore e grafico di Air Info , il giornale di Agadez. L’unico che con coraggio ha denunciato le rapine di polizia e militari. «Pattugliare il Mediterraneo e fare pressioni su Libia e Tunisia non basta: oggi le conseguenze le pagano solo gli immigrati che restano bloccati nel deserto. Il traffico va fermato in Niger ed è qui che l’Italia e l’Europa dovrebbero intervenire. Quello che sto cercando di fare – spiega Djallo – è raccontare alla gente di Agadez cosa sta accadendo. Perché se la polizia e i militari del Niger cominciassero davvero a fare il loro lavoro onestamente, il commercio di clandestini si fermerebbe. L’altra cosa che va detta a chi parte è che attraversare il Ténéré e il Sahara è un’esperienza tremenda. Le migliaia di ragazzi che si ammassano ad Agadez questo non lo sanno».

La città del Mesallaje, l’antico minareto di fango rosso, è la porta del deserto: l’imbuto dentro cui passa tutto il traffico verso l’Italia. Chi arriva qui può scegliere. Comprare il biglietto in una delle quattro compagnie di trasporti all’autostazione. E affrontare da solo i pericoli del viaggio. Oppure rivolgersi a un kamacho in tacha , i procacciatori di passeggeri al servizio dei trafficanti. La mafia nigeriana offre di più. È il pacchetto «tutto compreso». E nel commercio di immigrati le regole della malavita possono essere una garanzia. Stanley Ugochukwu, 31 anni, riceve i clienti nel buio dell’Hotel Sahara. Fa l’accompagnatore e guadagna mille e 500 dollari al mese: «Prendo in consegna i clandestini ad Agadez e li porto a Tripoli. Tre per volta. Tengo i contatti con i camionisti e in Libia con le nostre case che ospitano gli stranieri. Seguo il viaggio via terra, il mare no: a quello pensano i libici. Certo è un servizio che costa: mille dollari a persona, poi se ne pagano altri mille per il mare. Ma è sicuro. Nessuno dei miei clienti è morto. Tutti hanno telefonato a casa una volta arrivati in Italia».

L’altra grande organizzazione fa capo all’internazionale islamica. Una figurina di Bin Laden incollata al muro e il fotomontaggio di Saddam Hussein su un caccia americano sono le decorazioni dell’ufficio. Hassan Touré, 66 anni, di Timbuctu in Mali, una moglie e cinque figli, è il rappresentante di Agadez. Parla italiano: «Ho lavorato in Sicilia quattro anni, asfaltavo strade – sorride -. Adesso sono qui, è la vita. Noi ci occupiamo di immigrati dal Pakistan e dal Bangladesh. Mi hanno telefonato che a giorni ne stanno per arrivare cento». Niente somali? «Loro passano dal Sudan. Ma siamo sempre noi a portarli». Hassan Touré ha il callo scuro della preghiera sulla fronte: «La barba lunga l’ho tagliata per non avere problemi», ride. Il suo boss è un fanatico pakistano che vive a Niamey. Un altro è in Bangladesh. La base è in Pakistan.
Adesso bisogna cercare di uscire dall’accampamento dei trafficanti di droga. Manca poco al tramonto. I Mercedes sono parcheggiati a ridosso delle rocce perché siano invisibili da lontano. E ogni camion ha il suo box di assistenza. Con i meccanici al lavoro, gli autisti che mangiano o dormono nelle baracche accanto. E due grandi container come magazzini: uno viene dall’Italia, l’altro dalla California. Tutto è ben mimetizzato nella sabbia. Soprattutto perché non venga visto dall’alto: questa gente ha più paura dei satelliti spia che dei curiosi di passaggio. I camionisti parlano arabo. Alcuni di loro hanno accento algerino e la barba lunga degli ex terroristi del Gia. Ma le targhe sui camion sono libiche.
Le spedizioni partono da Agadez, una o due volte al mese. Anche 70 Mercedes, in convoglio. Tutti scortati dai militari nigerini fino al confine. Vederli la notte è un treno di luci che illumina il deserto. Ufficialmente trasportano sigarette di contrabbando. Tutte marca Marlboro. Ma cosa viaggia sotto le stecche lo scoprirono sette anni fa i ribelli tuareg. Attaccarono un convoglio nel Ténéré e conquistarono un camion. «C’erano 500 scatoloni – ricorda un tuareg presente all’apertura del carico – e dentro gli scatoloni, sotto lo strato di sigarette, tonnellate di cocaina. La droga finì in Algeria in cambio di armi».

Dalla partenza a Dakar, in Senegal, è passato un mese e mezzo. Il deserto ora scivola sotto il tropico del Cancro e scende verso Al Gatrun. Lì comincia la strada asfaltata e Tripoli è solo a un giorno di viaggio. Ma le speranze dei clandestini più sfortunati si fermano prima. A Sebha, tra i detenuti senza processo di Katib Rashia, la Prigione 10. La tortura è una prassi: bastonate sulla pianta dei piedi per gli immigrati che non possono pagare. Non c’è una regola precisa. A volte i poliziotti li lasciano andare in cambio di un po’ di soldi. A volte li rimandano in Niger. Magari solo per dimostrare all’Italia la fermezza di Gheddafi.

Pierjean Nana, 42 anni, idraulico, nato in Ciad, moglie e tre figli in Camerun, è arrivato vivo fino in fondo. Adesso dorme in un centro di accoglienza del Comune di Milano. «Quando sei sul camion in mezzo alla sabbia hai paura di morire – aveva detto una sera di fine ottobre, guardando le volte della stazione Centrale -. E quando sali sulla barca in Libia pensi che potrebbe affondare. Ma pensi anche che tornare indietro vorrebbe dire affrontare di nuovo il deserto e le torture dei militari. Allora vai avanti. Perché ormai l’Italia è solo a poche ore». Pierjean si è tuffato davanti a Lampedusa un anno fa e ora ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari. I nigeriani che erano sulla barca con lui sono stati espulsi. Nel grande Monopoli in cui ci si gioca la vita hanno perso. Un aereo li ha riportati in Africa. Al punto di partenza.