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da La Repubblica del 21 ottobre 2006

“Prendono soldi per farci scappare dal Cpt”

I 55 giorni nel centro siciliano degli scampati del naufragio del 20 agosto. Hanno lo status di perseguitati politici e ora denunciano i maltrattamenti.

Ospitati ad Agrigento, raccontano i traffici e le vessazioni subite: soldi anche per avere farmaci. Nelle “evasioni” le responsabilità di interpreti e mediatori culturali.
Nel Cpt le fughe si pagavano e c’erano commerci illegali tra operatori e gli arabi.
Mekonen kibrome: Una notte ho visto scappare una trentina di nordafricani; le fughe erano frequenti.

Giovanni Maria Bellu

Agrigento – «Una notte ne ho visti scappare una trentina, poi un’altra volta cinque. Erano tutti africani come noi, ma di pelle bianca». Mekonem Kribrome, 24 anni, cittadino eritreo, è uno dei dieci superstiti del naufragio avvenuto il 20 agosto a 70 miglia da Lampedusa. Ha visto annegare sua moglie Lemlem, incinta di 6 mesi, e altri 28 compagni di viaggio, tra i quali 4 donne e un bambino di 2 anni. È un uomo distrutto, ma quei 55 giorni a Caltanissetta, tra il Centro di “accoglienza” e quello di “permanenza temporanea”, li ricorda molto bene. Con lo stesso inorridito stupore degli altri superstiti.
Sono tutti africani neri, eritrei per la maggior parte, e somali. In questo tempo hanno ottenuto chi l’asilo politico, chi la protezione umanitaria, e il relativo permesso di soggiorno. Non sono “clandestini”: potrebbero stare tranquilli, in Italia, coi loro incubi. Eppure hanno deciso di raccontare il loro soggiorno a Caltanissetta, dove hanno vissuto fino a quando sono stati trasferiti ad Agrigento, in uno dei centri del “Sistema nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati”.
È una specie di rivolta. Una rivolta non violenta realizzata attraverso testimonianze concordanti. Le fughe degli immigrati nordafricani, messe in atto col sostegno di loro connazionali che lavorano a Caltanissetta come interpreti o mediatori culturali, sono un ricordo comune. E, con esse, le vessazioni piccole e grandi. Dice Mihretab Malik, eritreo 35enne: «Quando da Lampedusa sono stato portato nel Centro di Caltanissetta ho assistito a fatti che non immaginavo potessero accadere in un paese come l’Italia. Eravamo quasi tutti africani, ma gli operatori, con l’eccezione di tre di loro, ci distinguevano in base al colore della pelle. Noi neri dovevamo pagare per ogni cosa: le schede telefoniche, le sigarette, i vestiti. Dovevamo fare la fila per parlare col medico mentre gli africani bianchi ci passavano davanti».

Mihretab, e il sudanese del Darfur Mansur Basher, sono gli unici del gruppo ad aver compiuto una traversata del Mediterraneo relativamente tranquilla. Tutti gli altri – sette eritrei e due somali – si trovavano sullo stesso gommone scassato da dove Mekonem ha visto annegare la giovane moglie. Adhinom Petros, eritreo, 22 anni, ha assistito alla morte di 3 suoi cugini. A Caltanissetta, poi, alla fuga di 24 arabi, al solito col sostegno dei social workers nordafricani: «Era la notte tra il 24 e il 25 settembre. Hanno aperto con le cesoie un varco nella recinzione e sono usciti. Fuori dal campo c’erano dei poliziotti, ma sono rimasti assolutamente immobili».
Tefit Okbatsion, 24 anni, eritreo, nel naufragio del 20 agosto ha visto morire uno zio, Biran Araya. Anche lui ha ricordi precisi delle fughe: «Ho visto fuggire una trentina di arabi. So che pagavano per farlo. Ho sentito che ne parlavano chiaramente tra loro. La polizia era immobile. Quando ho chiesto spiegazioni a uno degli operatori mi ha risposto che non erano cose che mi riguardavano».
Tutti gli ex ospiti di Caltanissetta hanno un ricordo preciso del tariffario dei commerci interni. Racconta il somalo Aidrous Abdelkadir: «Per 4 sigarette un euro, per un pacchetto 5 euro, per uno zaino 10 euro». Persino sulle le carte telefoniche un ricarico di 50 centesimi. Ma Debesay Fikadu, eritreo, afferma di essersi sentito chiedere del denaro per poter avere dei farmaci per le emorroidi. E Mihretab Malik, che come tutti i giovani eritrei ha fatto forzatamente il militare e ha nozioni di pronto soccorso, parla con indignazione di quelle pastiglie bianche, sonnifero, che venivano distribuite come farmaco generale per tutti i mali dopo visite frettolose.

Tra il 25 e il 27 settembre, tutti i componenti del gruppo hanno avuto il colloquio con la commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Ottenuto il permesso di soggiorno, sono entrati nella seconda fase del percorso e destinati al centro del “Progetto Tarik”, gestito ad Agrigento dalla “Cooperativa Acuarinto”.
Questo centro, che gode di un finanziamento annuo di oltre 400.000 euro per ospitare 55 immigrati al giorno, si trova in un fabbricato all’interno del vecchio ospedale. Non esiste la cucina: la colazione e la cena sono realizzati da un servizio di catering, per il pranzo gli ospiti devono recarsi alla Mensa della solidarietà. È stato là che, dieci giorni fa, hanno incontrato alcuni operatori di Medici senza frontiere. «Ancora – spiega Guilhem Molinie, responsabile di Msf per l’area – non usufruivano di assistenza sanitaria. Così, anche se il nostro servizio è per immigrati irregolari e loro non lo sono, li abbiamo informati dell’esistenza dell’ambulatorio gratuito, che gestiamo per conto della Ausl. Nessuno di loro ci ha detto di aver avuto, fino a quel momento, qualche forma di assistenza psicologica».
Lo sgomento per i giorni a Caltanissetta, ad Agrigento è diventato rabbia. Non solo per la perenne vista del mare che in ogni momento risveglia la memoria dell’orrore. «Prima che lasciassimo il Cpt – racconta Mihretab Malik – ci avevano detto che ad Agrigento la nostra condizione sarebbe cambiata. Avremmo studiato la lingua italiana, avremmo avuto assistenza psicologica. Non era vero». «Sono fortemente traumatizzati – afferma Donato Notonica, coordinatore del “Progetto Tarik” – e lo psicologo suggerisce in questi casi di evitare di attuare interventi troppo pressanti e invasivi».

Di certo martedì mattina, Mekonem era nella sede della “Mensa della Carità” e riceveva assistenza psicologica da Maria Stella Rizzo, che tutti chiamano suor Stellina, una religiosa che manda avanti eroicamente la mensa con pochi soldi e l’aiuto di volontari, preparando ogni giorno 150 pasti. Mekonem, che evidentemente non aveva il problema di “interventi invasivi”, le chiedeva come fare per ottenere un certificato di morte presunta della moglie. Il corpo, infatti, non è stato recuperato. In Eritrea c’è l’abitudine di arrestare i familiari di chi espatria. Fratelli, padri e madri diventano ostaggi dello Stato e, per uscire, devono sborsare una somma equivalente a 2mila dollari. «I miei suoceri – spiegava Mekonem – sono stati arrestati. Ma se riuscirò a dimostrare che mia moglie è morta, potranno tornare in libertà».