Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Articolo pubblicato dal settimanale Carta n. 30/2010

Prima generazione meticcia

di Luca Queirolo Palmas

Negli ultimi trent’anni l’Italia è divenuto un paese di immigrazione. Ma, fatto ancora più rilevante, i processi migratori hanno progressivamente sedimentato appartenenze e radicamento di lungo periodo sul territorio, mettendo così in crisi la percezione del migrante come soggetto ospite vincolato da una dimensione di temporaneità. Sono molteplici i segni che confermano la stabilizzazione dei flussi: dai ricongiungimenti familiari alla crescita delle coppie miste, dagli investimenti sul mercato immobiliare, alla natalità in crescita, fino alla partecipazione scolastica.
In netto contrasto con questa evidente trasformazione sociale, i figli dell’immigrazione rappresentano spesso agli occhi di coloro che si considerano i veri nativi una posterità inopportuna, una presenza ingombrante e illeggibile, un ospite indesiderato che assomma però tutte le caratteristiche per divenire cittadino, per essere e sentirsi a casa propria. Il discorso securitario, oggi in voga in Italia come altrove, moltiplica sguardi e frontiere, etnicizza dall’alto, costruisce allarme e bersagli a portata di mano, genera discorsi e identità belligeranti.
Ahmed Djouder, nella sua cruda autobiografia di un giovane della banlieue, ci restituisce in semplici domande il peso di questa retorica pervasiva: «Quando la smetterete di guardarci come immigrati, come stranieri, come ladri, come terroristi? Provate voi ad immaginare un mondo in cui si parli di voi solo in termini percentuali, di integrazione, di immigrazione, di emarginazione, di criminalità, di reati, di insicurezza». Questo è il securitarismo, la generalizzazione di una frontiera interna fatta di controllo sociale e nuove tecnologie di sorveglianza nei molteplici spazi pubblici attraversabili (scuole, ospedali, anagrafi, cantieri), fenomeno ben esemplificato dalla recente introduzione del reato di clandestinità e dai consolidati ostacoli giuridico-amministrativi alle traiettorie di cittadinanza.

Il difficile accesso alla cittadinanza – in Italia ancora articolata intorno al principio del diritto del sangue – è infatti la cifra con la quale i figli delle migrazioni si debbono confrontare nei loro tentativi di rivendicare uno status di eguaglianza. Una anacronistica legislazione, congiunta alle politiche governative di segno escludente, ha costruito così l’ossimoro dello «straniero non immigrato»: oltre la metà di tutti i figli dell’immigrazione, percepiti dalla società ricevente come stranieri, sono infatti nati e cresciuti in Italia.
Nel corso di circa dieci anni di ricerche sulle migrazioni sono emerse le tracce di un orgoglio meticcio, una risposta alla «linea del colore», il rifiuto di essere collocati in vuote classificazioni etniche e dalla tinta coloniale per riproporre invece uno statuto libero e mobile, in cui le identità sono giocate e trasformate nei diversi contesti, ricomposte e ibridate, contestate o enfatizzate.

La pervasività del razzismo, nelle pratiche e nei discorsi che attraversano l’Italia contemporanea, discende dalla difficoltà di riconoscere le conseguenze di una migrazione di radicamento; dall’altra parte negli spazi educativi e del tempo libero, negli incontri di generazione che lì si danno, si gioca la partita fondamentale della «linea del colore»: quella del superamento o dell’affermazione di una società in cui la «razza» diviene un modo per declinare il termine «classe» e per scandire nuove forme di stratificazione e immobilità sociale.
Il dibattito sulle seconde generazioni è dunque cruciale perché mette in crisi lo sguardo delle società riceventi sui migranti e al tempo stesso disarticola l’idea di una presupposta omogeneità della nazione nei suoi fondamenti culturali e identitari. Quando potrà esistere un italiano con il trattino? Un italo-congolese piuttosto che un italo-ecuadoriano?
Le definizioni di seconda generazione utilizzano in modo esclusivo il criterio della nascita o propendono per un mix di fattori (nascita, momento dell’arrivo e percorsi di socializzazione scolastica). Eppure il termine «seconde generazioni», e il relativo uso nei dibattiti pubblici e scientifici, non ci convince. Per diversi motivi: a] per gli effetti di reificazione (l’essere figlio di immigrati come una proprietà ontologica); b] per la rimozione dei punti di contatto con i coetanei non figli di immigrati; c] per la riduzione di una biografia a un’origine; d] per la trasformazione di un’origine in un destino. Questa categoria, enfatizzando il mantenimento di una distanza culturale, ricorda ai giovani provenienti dalle famiglie immigrate che, nonostante ogni sforzo, sono legati per sempre a un altro spazio culturale, e che pertanto la loro residenza non è degna di trasformarsi in piena cittadinanza.

Suggeriamo invece di pensare le differenze non come cose, ma come strategie, un repertorio di pratiche che vengono usate in modo contingente e che articolano ironia, mimetismo, ostentazione, enfasi ed erranza. In questo senso sappiamo molto della partecipazione scolastica dei giovani di origine straniera, ma sappiamo ancora molto poco delle loro molteplici culture di generazione e delle pratiche di accesso e voce nello spazio pubblico.
L’esperienza scolastica è fondamentale nella determinazione degli orizzonti di vita, dato che in essa si addensano e si riflettono molteplici pratiche di inclusione ed esclusione. La scuola, attraverso l’azione dal basso di migliaia di attori (insegnanti, presidi, famiglie, associazioni, mediatori culturali) ha dato vita a un modello implicito di integrazione: l’inserimento nella scuola di tutti, la centralità della persona, un orientamento positivo (per quanto a tratti ambiguo o ingenuo) all’intercultura, l’importanza del rapporto con le famiglie. L’attenzione all’accesso scolastico tuttavia non è andata di pari passo con un’attenzione alla riuscita degli interventi di contrasto alla dispersione, né di sostegno a un orientamento equo, capace di evitare la concentrazione dei figli delle migrazioni in istituti professionali.
Molte ricerche invitano peraltro a superare il pensiero binario, evitando di pensare gli allievi di origine straniera come un «loro» da contrastare metodologicamente e teoricamente rispetto a un «noi», assumendo la pluralità di fattori (di classe, di capitale culturale, di condizioni familiari, di climi scolastici, di stili di insegnamento) che intervengono sulle traiettorie scolastiche.
Se scomponiamo alla luce dell’eterogeneità la condizione degli allievi di origine migrante, anche i recenti proclami del governo Berlusconi e del ministro Gelmini sui rischi di concentrazione delle presenze – dalla proposta di classi-ponte all’istituzione del cosiddetto «tetto» di soglie massime (definite peraltro da criteri ambigui) – si iscrivono dentro una retorica dell’allarme e di produzione di un immaginario di esclusione.

Bisogna assumere le migrazioni come uno specchio, come un processo che lavora e gira nella società nel suo complesso, trasformandola e restituendoci un’immagine che va oltre lo specifico oggetto di studio. Osservare le migrazioni nelle scuole ci aiuta così a capire il funzionamento complessivo di questi spazi e di queste istituzioni, più che rivelarci caratteristiche peculiari e folkloriche dell’oggetto studiato.
Capire l’esperienza scolastica significa anche interrogare l’esperienza extrascolastica, le relazioni fra culture giovanili a partire dal radicamento dei flussi migratori e dalla circolazione di immaginari veicolati dalle industrie culturali globali. Nell’espressività artistica (la musica hip hop o il teatro, per esempio), nelle chiese evangeliche, nelle parrocchie dei boy scout o nei centri sociali occupati, nell’impegno sull’investimento scolastico, nelle palestre popolari e nella rigenerazione dal basso degli spazi pubblici urbani, nelle gang giovanili, nelle rampe degli skaters o sui muri dei graffiti, possiamo scoprire una rete di relazioni e di socialità che aggira la «linea del colore» attraverso forme di resistenza che giocano sull’ambivalenza.

Dovremmo rapidamente abituarci a leggere le capacità di protagonismo e di resistenza di questa generazione, a scorgere i molteplici segni che evocano e anticipano l’irruzione pubblica di un orgoglio meticcio, la sua capacità di essere un elemento e una pratica costitutiva dell’Europa come dell’Italia del futuro. Ed è un futuro che è già iniziato sotto i nostri occhi distratti.