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Primo report della staffetta di Art Lab Occupato ad Idomeni – #overthefortress

Report, foto e video della prima giornata al campo

Sono state spese molte parole per tentare di raccontare le emozioni che il campo di Idomeni trasmette, ma una volta qui, ci rendiamo conto di come nessuna di queste sia in grado di farlo fino in fondo. Non certamente per incapacità dei vari/e scrittor*, ma semplicemente perché questo luogo non può essere descritto né raccontato fino in fondo.

Arrivare a Idomeni è come sbattere contro un muro, è uno shock. E’ sentirsi schiacciati dal peso della vergogna, la vergogna di chi si rende conto del crimine che l’Europa, terra in cui vive, sta compiendo senza rimorsi. Infatti nel campo attualmente “vivono” 10.000 persone che si trovano bloccate a metà del viaggio, in attesa.

La distesa di tende si estende lungo tutti i binari della stazione di Idomeni fino al confine macedone, ad abitarle ci sono famiglie, con tantissimi bambini, anziani, donne in stato di gravidanza avanzato, la maggior parte di loro si dichiara di origine siriana.

Il campo è organizzato su diverse aree a seconda delle diverse etnie che non sempre vanno d’accordo tra di loro. Al nostro arrivo accompagnati da attivisti e volontari veniamo introdotti alla vita del campo. Girando tra le tende conosciamo Zukran e Ahmed, siriani di Dar’a, città in cui nel 2011 è scoppiata la rivolta contro il regime di Al Assad. Sono a Idomeni da due mesi. La storia è simile a quella di molti altri qui, un viaggio molto costoso, troppo costoso, dalla Siria attraverso la Turchia fino a Lesvos; poi Idomeni. Ci raccontano di quanto è difficile separarsi dalla propria famiglia e ci confessano che non importa quale sarà la loro destinazione in Europa, vogliono solo poter trovare la possibilità di ricominciare a vivere degnamente.

Anche Fatimah e Nasser sono siriani, insieme ai loro 2 bambini (un terzo in arrivo) sono scappati da Daesh che ha distrutto la loro casa e ucciso due dei loro figli. Come gli altri hanno speso tutti i loro risparmi per affrontare un viaggio lungo e pericolosissimo.

Come tutti sono bloccati da due mesi sui binari di Idomeni. Quando salutiamo chiediamo a tutti se hanno bisogno di qualcosa: cibo, bevande, sigarette; la risposta è sempre la stessa “No thank you, please open the border”. Ci assale il senso di impotenza e la rabbia, una rabbia che sentiamo di dover trasformare in qualcosa di costruttivo. Dopo poco l’impotenza svanisce e, coordinandoci con gli altri attivisti Over the fortress ci attiviamo per aiutare chiunque ne abbia bisogno, e non sono certamente pochi, anche perché, come se non bastasse, il vento sferza violentemente, spazzando via diverse tende peggiorando ulteriormente le condizioni dei migranti. Siamo veramente in tanti qui; abbiamo raggiunto le trenta presenze.

Ci coordiniamo insieme all’Info tend Over the fortress, punto di ritrovo per noi attivisti e per chiunque abbia bisogno di usufruire della rete wi-fi, di caricare la batteria del telefono o semplicemente di bere un the caldo in compagnia. Ci sarebbe tanto da fare, ma dobbiamo darci delle priorità: costruire docce, montare nuove tende, tentare di organizzare dal basso attività assieme ai migranti, per fare in modo che quando ce ne andremo, queste potranno comunque continuare, gestite ed organizzate da chi è costretto a vivere qui ogni giorno.

E’ questo ciò che ci contraddistingue dalla galassia di associazioni che lavorano qui: non vogliamo limitarci all’assistenzialismo ma vogliamo dare loro i mezzi per migliorare le proprie condizioni con le loro stesse forze.

Dall’altra parte della frontiera intanto la musica è sempre la stessa: le frontiere non verranno aperte. Lo comunica a chiare lettere un documento del Ministero dell’Interno greco distribuito dalla polizia, che intima alle persone ad andarsene da Idomeni per raggiungere campi gestiti dal governo, garantendo loro che qui riceveranno vitto, alloggio, la possibilità di potersi prendere cura al meglio della propria famiglia; promettendo addirittura aiuti economici e assistenza legale per chi deciderà di tornare al proprio paese d’origine. Nel frattempo avanzare la richiesta di asilo è pressoché impossibile: il governo greco pretende che questo debba essere fatto tramite una chiamata skype, utile a richiedere un appuntamento con un funzionario del Ministero.

Chiamata che è possibile fare solo 4 giorni a settimana, un’ora al giorno, collegandosi ad una rete wi-fi con connessione precaria che il governo non mette a disposizione.
Ora, può essere questa la risposta che i governi europei sono in grado di dare ad una crisi geopolitica che da anni uccide e affama milioni di persone in nome di beceri interessi economici?

Davanti a quella che è a tutti gli effetti un’assurdità, un paradosso, tutto ciò che possiamo fare è dare il nostro sostengo stringendo amicizie, facendo sentire alla gente che siamo con loro; che porteremo in Europa i loro racconti, le loro storie; facendo capire loro che, mentre loro spingono da fuori per abbattere le barriere, noi spingeremo da dentro con tutte le nostre forze e con la loro stessa rabbia.