(Sullo stesso argomento intervento dell’autore, sabato 29 novembre all’incontro dal titolo Diritti respinti. Migranti e richiedenti asilo alla frontiera del porto di Venezia)
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, co la sentenza n. 27310
depositata in cancelleria il 17 novembre 2008, ha riconosciuto il
diritto di asilo costituzionale con riferimento alle norme interne ed
alle direttive comunitarie in materia, facendo espresso richiamo sia
alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, che ai
trattati internazionali, come la Convenzione Europea a salvaguardia dei
diritti dell’uomo. La Corte chiarisce poi i diversi presupposti che
possono riscontrarsi per stabilire lo status di rifugiato, la
protezione sussidiaria e la protezione temporanea ex art. 5.6 del T.U.
sull’immigrazione n.286 del 1998, ponendo fine a quella sovrapposizione
tra le diverse fattispecie che aveva caratterizzato le precedenti
sentenze più restrittive della prima sezione della stessa Corte.
Ben oltre le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato
prescritte dalla Convenzione di Ginevra appare dunque possibile,
soprattutto alla luce dell’ art. 19 del Testo Unico, e delle più
recenti direttive comunitarie in materia di qualifiche e di procedure
di asilo e protezione internazionale, il riconoscimento di uno status
legale di protezione internazionale o temporanea a cittadini stranieri
che giungano nel nostro paese fuggendo da paesi nei quali siano
presenti condizioni di “violenza generalizzata” o pericoli di
persecuzione non riconducibili alle previsioni della Convenzione di
Ginevra, ancorate al rischio di una persecuzione individuale. Si può
superare così anche la possibile operatività delle cd. cause di
esclusione del diritto di asilo, previste dalla Convenzione di Ginevra
del 1951, determinate spesso dalla valutazione arbitraria della polizia
di frontiera, valutazione che dovrebbe ora risultare inibita dal chiaro
tenore del decreto legislativo n. 25 del 2008, che ha abrogato quelle
norme della legge 39/90 che consentivano una sorta di istruttoria
informale subito dopo l’ingresso nel territorio. Soprattutto attraverso
interpreti o “mediatori culturali”di fiducia delle forze di polizia,
questa fase terminava spesso con una decisione di “manifesta
infondatezza”, un modo per inibire l’accesso alla procedura, il diritto
ad un ricorso effettivo, qualsiasi possibilità di permanenza nel
territorio dello stato.
Alla luce dei principi enunciati dalla Corte
di Cassazione appare in tutta la sua gravità la pratica dei
respingimenti in frontiera alle frontiere marittime di quanti giungendo
dalla Grecia, in particolare irakeni ed afghani, non sono messi nelle
condizioni di fare valere una istanza di asilo o di protezione
internazionale. Al di là della loro dubbia formalizzazione, le misure
di allontanamento forzato praticate negli ultimi anni nei porti di
Brindisi, Bari, Ancona, Venezia, risultano peraltro illegittime ed
arbitrarie in quanto l’art.10 del TU 286/98 che prevede il
respingimento, da parte della polizia di frontiera, degli stranieri
“che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti
(…) per l’ingresso nel territorio dello Stato”, introduce una
importante eccezione a tale disposizione. Si prevede infatti che il
questore può disporre il respingimento con accompagnamento alla
frontiera nei confronti degli stranieri che “sottraendosi ai controlli
di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo”, ma si aggiunge
poi che (articolo 10, comma 4 del Testo unico) tali disposizioni non si
applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano
l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero
l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”.
E’ poi evidente che ai richiedenti asilo che si respingono con varie
modalità ( anche impedendo fisicamente lo sbarco sulla banchina
portuale) dai porti dell’Adriatico verso la Grecia non si può
applicare un provvedimento di riammissione ai sensi della Convenzione
di Dublino, di fatto un respingimento alla frontiera per il rischio
documentato che poi queste stesse persone possano venire espulse ancora
una volta dalla Grecia verso i paesi di transito e di provenienza,
violando persino il principio di non “refoulement” ( respingimento)
stabilito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.
L’ACNUR, nel suo
documento di raccomandazioni del 15 aprile 2008 – ha espresso la
propria preoccupazione per le difficoltà che i richiedenti asilo
incontrano in Grecia nell’accesso e nel godimento di una protezione
effettiva, in linea con gli standards internazionali ed europei e
raccomanda espressamente ai Governi europei di non rinviare in Grecia i
richiedenti asilo in applicazione del regolamento Dublino fino ad
ulteriore avviso. L’UNHCR ha invece raccomandato, agli stessi Governi,
“l’applicazione dell’art. 3 (2) del regolamento Dublino, che permette
agli Stati di esaminare una richiesta di asilo anche quando questo
esame non sarebbe di propria competenza secondo i criteri stabiliti dal
regolamento stesso”.
I respingimenti immediati, talvolta anche
collettivi, alle frontiere marittime, sono camuffati talora come
semplici pratiche di riammissione sulla base dell’accordo Italia –
Grecia del 1999, che viene applicato in contrasto con quanto previsto
dalla Convenzione di Dublino, perché al di fuori di una procedura di
asilo. Oltre a risultare del tutto illegittimi come si vedrà, vengono
effettuati dalla polizia italiana al solo fine di evitare la
presentazione di una domanda di asilo o di protezione internazionale e
persino l’adozione di un provvedimento di espulsione dal territorio
nazionale, che sarebbe comunque ricorribile dinnanzi alla magistratura
ordinaria, il cui esito potrebbe invalidare i provvedimenti stessi e
dare l’avvio ad un nuovo esame, dinnanzi all’autorità giudiziaria,
delle posizioni individuali dei potenziali richiedenti asilo in merito
alla loro istanza di riconoscimento dello status. Gli orientamenti
assunti in passato dalla Corte di Cassazione, degradando il diritto di
asilo costituzionale da un diritto soggettivo perfetto ad un mero
interesse legittimo, avallavano le prassi amministrative più
arbitrarie nelle fasi immediatamente precedenti la proposizione e la
formalizzazione delle istanze di asilo. E spesso senza un accertamento
medico della vera età dei migranti che raggiungono i porti della costa
adriatica, per la sommarietà ed i tempi delle procedure di riammissione
in Grecia. Con il rischio, se non con la certezza, che tra i respinti
vi siano anche minori, e altri soggetti particolarmente vulnerabili
come donne e vittime di tortura.
La posizione assunta adesso dalle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione si discosta da un orientamento
più restrittivo della prima sezione della stessa Corte che, a partire
dal 2005, e poi con due decisioni, soprattutto, la n. 18941 dell’1
settembre 2006 e la n.18549 del 25 settembre 2006, aveva
sostanzialmente ridimensionato la portata dell’art. 10 della
Costituzione, senza però smentirne formalmente il carattere
immediatamente precettivo, come se tale norma autorizzasse l’ingresso
nel territorio del richiedente asilo “al solo fine di potere presentare
la sua istanza”, senza però configurare un vero e proprio diritto
soggettivo perfetto al riconoscimento dello status.
Nella prima di
queste sentenze si affermava appunto che “il diritto di asilo come
asserito nei precedenti di questa Corte n.8323/2004 e n. 25020/2005,
deve intendersi come diritto ad accedere nel territorio dello Stato al
fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato, e
non ha contenuto più ampio del diritto ad ottenere il permesso di
soggiorno temporaneo ex art. 1 comma 5 del D.L. n.416/89 convertito
nella legge n.39/89, per la durata della relativa istruttoria e ciò
benché, come si sostiene nella pronuncia delle Sezioni Unite n.
467/97detta disposizione non rappresenti legge di attuazione della
norma costituzionale, non elide il distinguo tra le due categorie
considerate – asilo e status di rifugiato- che restano ontologicamente
distinte nella nozione, nel contenuto, nell’onere della prova, non
richiedendosi per l’asilante la prova del presupposto della
persecuzione, essendo solo unico l’iter procedimentale”.
Sempre sulla
stessa base argomentativa, arricchita da un rilievo ulteriore, secondo
il quale il medesimo iter procedimentale sarebbe “in ragione delle
esigenze di ordine e di sicurezza pubblici , che pur sono valori
presidiati costituzionalmente”, la sentenza n.18549/2006 della prima
sezione della Cassazione, argomentava come se il diritto soggettivo
perfetto di asilo costituzionale, da ritenere nella accezione più ampia
dettata dall’art. 10 della costituzione (ed oggi esteso anche alla
protezione internazionale ed alla protezione temporanea di cui all’art.
5.6 del testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998) fosse degradabile
al rango di mero interesse legittimo soggetto come tale alla
discrezionalità dell’autorità amministrativa.
Le argomentazioni delle
sentenze più restrittive dal 2005 in poi, muovevano peraltro da
disposizioni della legge n.39/1990, come l’art. 1 comma 4, 5 e 6 che il
decreto legislativo n.25 del 2008, attuativo della direttiva
comunitaria sulle procedure di asilo e protezione internazionale, ha
finalmente abrogato. L’ennesimo intervento emergenziale adottato dal
governo in questa delicata materia, contenuto nel decreto 159 del 2008
entrato in vigore agli inizi di novembre, non ha peraltro intaccato la
portata delle norme che nel febbraio di questo stesso anno abrogavano
quelle disposizioni della legge 39/90 che consegnavano alla polizia di
frontiera un potere discrezionale illimitato, una possibilità di
decidere tra la vita e la morte delle persone che potevano essere
ammesse alla procedura di asilo o respinte direttamente, (talvolta con
le modalità dell’espulsione collettiva vietata a livello
internazionale) verso i paesi di provenienza o di transito. Molti
giudici di merito, tuttavia, non sembrano avere colto il venire meno
del supporto normativo sul quale si basava l’orientamento rigoristico
della Corte e continuano ad applicare pedissequamente i principi di
diritto affermati i passato dai giudici della Cassazione.
La soluzione
interpretativa proposta della prima sezione della Corte, adesso
superata da questo chiaro riconoscimento della piena valenza del
diritto di asilo costituzionale da parte della Corte a sezioni Unite,
appariva particolarmente dubbia proprio dal punto di vista dell’onere
probatorio richiesto al richiedente asilo, sovrapponendo anche dal
punto di vista dell’onere probatorio richiesto, l’istituto dell’asilo
ex Convenzione di Ginevra, di portata assai più limitata, ai diversi
istituti dell’asilo, della protezione internazionale e della protezione
umanitaria, ricavabili dal testo comunitario, alla previsione dell’art.
19 del testo Unico n. 286 del 1998 ( che sancisce specifici divieti di
espulsione) in collegamento con l’art. 5.6 del testo unico n.286 del
1998, ed adesso anche da precise direttive comunitarie che sono state
attuate da decreti legislativi nel 2003, nel 2007 e nel 2008.
La
Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 27310 depositata in
cancelleria il 17 novembre 2008, ha dunque stabilito che, anche sotto
il vigore dell’art. 1 del d.l. n. 416 del 1989, poi legge.n. 39 del
1990, adesso abrogato quanto ai comma 4, 5 e 6 (che assegnavano alla
polizia di frontiera il potere di valutare come manifestamente
infondate le domande di asilo, spesso senza neppure procedere alla loro
verbalizzazione), i principi regolatori dell’onere della prova,
incombente sul richiedente, devono essere interpretati prendendo in
considerazione i criteri della Direttiva 2004/83/CE (attuata con d.lgs.
n. 251 del 2007), nonostante la mancata scadenza del termine di
recepimento interno (recepimento che oggi si è concretizzato con il
decreto legislativo n.251 del 19 novembre 2007) .
Alla luce di questi
criteri ermeneutici, applicabili anche alle norme non di derivazione
comunitaria, la S.C. ha ritenuto che si deve tenere conto della
credibilità del richiedente e della concreta possibilità di fornire i
riscontri probatori necessari, ravvisando a carico del giudice un
dovere di cooperazione e più ampi “poteri istruttori officiosi”, nell’
accertamento dei fatti rilevanti per il riconoscimento dello status di
rifugiato, peraltro pienamente compatibili con il rito camerale,
ritenuto applicabile anche in precedenza, nel vigore dell’art. 1 d.l.
n. 416 del 1989 conv. in l. n. 39 del 1990.
Nel caso di specie la S.C. cassa la pronuncia di merito perché non aveva ritenuto ammissibile
la prova testimoniale richiesta in secondo grado, sul rilievo che essa
non fosse stata articolata per capitoli separati, e, reputando
insufficienti le dichiarazioni del richiedente in ordine alla
professione religiosa sciita e all’appartenenza alla minoranza curda
nonostante l’attestata conoscenza di tale idioma, aveva rigettato la
domanda).
Di fronte ad un atteggiamento assai restrittivo da parte
delle Corti di merito e di diverse commissioni territoriali deputate a
decidere sulle istanze di asilo e di protezione internazionale, l’
orientamento espresso dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, con la
sua ultima decisione, ribadisce il principio della interpretazione
conforme del diritto nazionale rispetto alle direttive comunitarie,
tenuto conto che la direttiva sulle qualifiche 2004/83/CE ha un
contenuto molto più ampio delle previsioni sulle qualifiche di
rifugiato stabilite dalla Convenzione di Ginevra, e che l’ampiezza dei
poteri officiosi del giudice appare peraltro ribadita dal successivo
decreto legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008, recante norme minime
sulle procedure di protezione internazionale, il quale dispone al terzo
comma dell’art. 8 che “ ciascuna domanda è esaminata alla luce di
informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale
esistente nel paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra,
dei paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione
nazionale sulla base dei dati forniti dall’ACNUR, dal ministero degli
affari esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa, ponendo
altresì a carico di detta Commissione il compito di assicurare che tali
informazioni costantemente aggiornate, siano fornite agli organi
giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni
negative”. E dunque secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione
ai fini del riconoscimento dei diversi status di asilo, di protezione
sussidiaria o di protezione ai sensi dell’art. 5.6 del testo Unico sull’
immigrazione, in combinato disposto con l’art. 19 dello stesso Testo
Unico, non viene in rilievo soltanto una situazione di pericolo di
persecuzione individuale provata dal richiedente ( come richiesto ai
sensi della convenzione di Ginevra, ma può risultare decisiva anche una
“situazione generalizzata” di violenza e di persecuzione ai danni degli
appartenenti a determinate confessioni religiosi, o a gruppi etnici, o
ai nei confronti di oppositori politici.
Alla luce di quanto
affermato dalla corte nelle note sentenze del 1997-1999 e adesso in
quest’ultimo intervento delle Sezioni Unite si può dunque ritenere che
l’art.10 della Costituzione abbia carattere immediatamente precettivo e
attribuisca un diritto perfetto all’asilo, e non soltanto all’ingresso
nel territorio dello stato, allo straniero che si trovi nelle
condizioni previste dal comma terzo di questa norma, a prescindere al
rischio di una persecuzione individuale. La promulgazione di una legge
ordinaria che stabilisce le condizioni per l’esercizio di quel diritto
non è più da considerare come condizione di esistenza dello stesso
diritto, ma costituisce solo la fonte di una disciplina specifica ma
sempre in conformità con le direttive comunitarie e con i trattati
internazionali. Ciò emerge con evidenza dal tenore dell’art. 10 comma
terzo della Costituzione, che non prevede la possibilità per il
legislatore ordinario di prevedere un diritto di asilo in favore di
determinati soggetti né demanda al medesimo legislatore il potere di
individuare i presupposti e fondamenti di quel diritto, ma, al
contrario, afferma la positiva concreta esistenza di quel diritto e ne
individua l’unico presupposto essenziale: il fatto che allo straniero
«sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana» e non soltanto il
rischio di una persecuzione individuale.
Secondo la decisione dalle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nell’esaminare le domande di
asilo e di protezione sussidiaria le commissioni territoriali devono
valutare, per i provvedimenti da adottare in base all’art. 5 co. 6 del
citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 286/1998, le
conseguenze di un rimpatrio alla luce degli obblighi derivanti dalle
convenzioni internazionali di cui l’Italia è firmataria e in
particolare, dell’art. 3 della CEDU, ratificata ai sensi della legge
4.08.1955 n. 848. In ogni caso, sulla base del richiamo alla valenza
diretta dei principi contenuti nelle direttive comunitarie e nei
trattati internazionali, non potrà procedersi in futuro a respingimenti
collettivi in frontiera nei quali possa ravvisarsi sia la violazione
dell’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti umani
e delle libertà fondamentali, che la violazione del divieto di
espulsioni collettive stabilito dall’art. 4 del IV Protocollo
addizionale alla stessa Convenzione .
Ci si può solo augurare che dopo
il recente intervento della Cassazione a Sezioni Unite le singole
sezioni della Corte, o le corti di merito, non ritornino a rimescolare
le carte di una materia che non può essere condizionata dai mutevoli
indirizzi politici o dai segnali che il governo invia ai giudici, e che
tocca diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla
vita ed alla libertà personale La stessa sentenza della Corte di
Cassazione a sezioni unite ribadisce inoltre il ruolo attivo del
giudice ordinario che potrà procedere ad accertamenti di ufficio sulla
situazione dei paesi dai quali provengono i migranti e conferma la
scelta della procedura camerale “quale modello processuale più aderente
alle esigenze di celerità e di semplicità che la materia relativa al
riconoscimento dello status di rifugiato sollecita” Si aggiunge poi,
anche alla luce delle direttive comunitarie in materia, come “ appare
evidente l’errore della sentenza impugnata” che ha ritenuto
applicabili i principi generali del nostro ordinamento sulla
ripartizione dell’onere della prova, principi in base ai quali
spetterebbe al richiedente asilo fornire prove sulla situazione nei
paesi di provenienza, prove che non si possono produrre facilmente dal
momento che coloro che fuggono non riescono quasi mai a documentare le
loro condizioni di partenza prima dell’ingresso nel nostro paese,
essendo generalmente costretti a migrare attraverso canali irregolari.
Negli stessi giorni nei quali si è appreso della pubblicazione della
sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è verificato un
importante intervento della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che
sulla base di un ricorso in via di urgenza, ai sensi dell’art. 39 del
regolamento di procedura, ha individuato la possibile violazione dell’
art. 34 CEDU ( diritto ad un ricorso individuale) e ha intimato allo
Stato italiano di sospendere dell’espulsione di un cittadino afgano
verso la Grecia fino al 10 dicembre 2008, come ampiamente riferito nel
sito www.asgi.it.
Rimane da verificare se il governo italiano si
conformerà a quanto intimato dalla Corte di Strasburgo, o violerà
ancora l’ordine impartito dalla stessa Corte, come già avvenuto per la
prima volta nello scorso giugno ai danni di un richiedente asilo
tunisino, per il quale la corte europea aveva chiesto la sospensione
dell’espulsione, ma che la polizia di stato aveva comunque rimpatriato
nel paese di origine. In precedenza il Tribunale Amministrativo della
Regione Puglia aveva sospeso l’esecuzione di una “riammissione” ai
sensi della Convenzione di Dublino di un richiedente asilo verso la
Grecia, paese di primo ingresso nell’Unione Europea, a causa del
rischio fondato che in quel paese lo stesso richiedente asilo non fosse
messo nella condizione di fare valere il diritto alla protezione
internazionale a causa degli standard minimi del riconoscimento di
tale diritto in quel paese ( con percentuali di accoglimento inferiori
all’uno per cento delle domande)
La sentenza del TAR Puglia n. 1870
del 24 giugno 2008, un caso isolato nel quale si è riusciti a fare
valere davanti al tribunale amministrativo le istanze di difesa di un
cittadino straniero destinatario di un provvedimento di allontanamento
forzato in base al regolamento Dublino n.343 del 2003, risulta un
importante precedente per valutare la gravità degli abusi che le forze
di polizia italiane commettono quotidianamente obbligando i migranti
afghani, irakeni e di altra nazionalità ad imbarcarsi nei porti dell’
Adriatico ( Brindisi, Bari, Ancona, Venezia, Trieste) su navi dirette
in Grecia, senza avviare nessuna delle procedure che la legge impone in
caso di fermo di immigrati irregolari sul territorio nazionale, tra le
quali rientra la possibilità di accesso alla procedura di asilo e di
protezione sussidiaria, e in questo ambito l’eventuale applicazione del
Regolamento Dublino n. 343 del 2003, che prevede l’esame dell’istanza
di protezione internazionale da parte del primo paese dell’Unione
Europea nel quale il richiedente asilo abbia fatto ingresso. Ma lo
stesso Regolamento Dublino prevede diverse “clausole umanitarie” che
consentono anche ad altri paesi di accogliere la richiesta di
protezione come ha suggerito da tempo l’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati nel caso della Grecia.
Malgrado la
recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il
pronunciamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo, e nonostante
la chiarissima decisione del Tribunale amministrativo della Regione
Puglia, la condizione dei potenziali richiedenti asilo che giungono
alle frontiere marittime dei porti italiani in Adriatico rimangono
assai incerte. Si tratta di una realtà che emerge solo quando si scopre
qualche cadavere all’interno di un container, ma tutto il resto rimane
nell’ombra anche a causa dello sbarramento militare delle aree portuali
e della mancata possibilità di accesso per gli operatori delle agenzie
umanitarie ai migranti che sono fermati subito dopo l’attracco della
nave in porto, in qualche caso quando si trovano ancora a bordo della
stessa nave. In questi casi non è facile reperire avvocati di fiducia
ed interpreti indipendenti, nessuno fornisce informazioni ai potenziali
richiedenti asilo, spesso minori non accompagnati ed in qualche caso
anche donne, provenienti in maggioranza da Afghanistan ed Irak
attraverso la Turchia e la Grecia, percorso che rischiano di percorrere
a ritroso se scatta la collaborazione delle forze di polizia di questi
paesi nelle procedure informali di “riammissione”. Più frequentemente a
fronte dei costi delle operazioni di rimpatrio, la procedura di
riammissione in base alla Convenzione Dublino si risolve nella
liberazione a Patrasso di coloro che vengono allontanati dall’Italia.
In sostanza, la polizia di frontiera italiana si limita a impedire la
discesa dei potenziali richiedenti asilo dalle navi con le quali
giungono nei porti italiani, o provvede a reimbarcarli su quelle stesse
navi quando sono riusciti e sbarcare, magari nascondendosi in un
container o sotto un tir, ma in questo modo non fa altro che
moltiplicare il numero di coloro che ritentano l’ingresso irregolare
pur avendo titolo in molti casi a fare valere una richiesta di
protezione internazionale. E sono decine le vittime di questi tentativi
di ingresso, persone che perdono la vita quando avrebbero almeno
diritto a presentare una richiesta di asilo e ad essere giudicati da
una commissione imparziale in un paese nel quale il diritto di asilo, e
la protezione internazionale, previsti ormai dalle direttive
comunitarie oltre che dalle costituzioni nazionali, possano avere
riconoscimento effettivo. In ogni caso andrebbe operata una valutazione
caso per caso delle conseguenze della decisione di rimpatrio o di
riammissione in relazione alla specifica situazione della persona e non
procedendo per gruppi interi, prassi nella quale si potrebbe anche
riscontrare la violazione del divieto di espulsioni collettive.
Anche nei casi di respingimento in frontiera o di riammissione ai sensi
della convenzione di Dublino, rimane comunque l’obbligo, in base alle
norme sul procedimento amministrativo, di specificare in motivazione
non solo i motivi del provvedimento, ma anche i motivi per cui non si è
ritenuto di dover disporre l’ammissione al territorio nazionale e l’
accesso alla procedura di asilo. Né può reggere all’infinito la
giustificazione addotta dalle forze di polizia secondo le quali i
potenziali richiedenti asilo che rimangono ( spesso a forza, in
condizioni di detenzione in cabine/prigione a discrezionalità del
comandante) sulle navi o che vengono riaccompagnati sulla nave ed
“affidati” allo stesso comandante, non abbiano presentato una richiesta
di asilo o di protezione internazionale. Sono proprio gli stessi
migranti, dopo il primo tentativo fallito, quando riescono finalmente a
ritornare nel nostro paese, accedere alla procedura di asilo ed
ottenere uno status di soggiorno legale, che raccontano con dovizia di
particolari le vessazioni che hanno dovuto subire a bordo delle navi
quando la polizia Italia li aveva bloccati a bordo o costretti a
risalire sulla nave pronta a salpare dopo qualche ora per il viaggio di
ritorno verso la Grecia.
Di fronte a leggi sempre più orientate alla
repressione ed alla discriminazione istituzionale, e in presenza di a
prassi amministrative vessatorie, le decisioni delle corti nazionali
ed internazionali sembrerebbero riconoscere adesso una qualche
possibilità di difendere realmente i diritti fondamentali della persona
migrante, a partire dal diritto di chiedere asilo e protezione
internazionale. In un momento nel quale le associazioni umanitarie
indipendenti vengono allontanate dai luoghi di confine, sempre più
militarizzati, ormai spazi extraterritoriali nei quali non valgono le
leggi dello stato ed i principi del diritto internazionale e
comunitario, diventa sempre più importante garantire a tutti i migranti
l’accesso alla mediazione linguistica ed alla difesa legale..
Occorre
intensificare il lavoro quotidiano di monitoraggio e di denuncia di
quanto avviene alle frontiere marittime nei porti di Brindisi, Bari,
Ancona, Venezia, per impedire che questi spazi diventino altri “campi
di sbarramento” e di esclusione rispetto a soggetti, anche minori, che
appaiono particolarmente vulnerabili. Bisogna evitare che quelle
pratiche di allontanamento forzato e di riammissione, con le quali si
vorrebbe fare statistica e trasmettere un messaggio rassicurante alla
popolazione, determinino invece condizioni di clandestinità e di
disperazione che avvantaggiano la criminalità e causano un numero
crescente di vittime innocenti.
Si deve tentare dunque di raggiungere
il numero più elevato possibile di potenziali richiedenti asilo anche
chiedendo la collaborazione dei comandanti delle navi traghetto.
Qualora questa collaborazione non si riscontrasse vanno ideate e
praticate forme diverse di controinformazione e di boicottaggio per
sanzionare quelle compagnie di navigazione che impediscono l’accesso
alla procedura di asilo o si prestano ad effettuare rimpatri e
riammissioni, dopo l’arrivo dei migranti irregolari alle frontiere
portuali . E poi bisogna praticare interventi di assistenza e di
informazione alle frontiere, che anche se previsti dalla legge sono
rimasti solo sulla carta. Un impegno indifferibile che richiama la
responsabilità di associazioni, gruppi di cittadini, enti locali. E’
tempo anche che, come avvenuto a Lampedusa e in altre parti della
Sicilia, le grandi agenzie internazionali come il Comitato per la
prevenzione della tortura e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite
per i diritti umani, che tutelano i diritti fondamentali della persona
migrante, inviino missioni ed ispezioni nei porti dell’Adriatico per
rilevare gli abusi che si verificano e costringere le autorità italiane
a porvi fine.