Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto dell'8 giugno 2006

Prodi in cerca di cittadinanza

Cinzia Gubbini

Roma – Il disegno di legge del governo per cambiare la legge sulla cittadinanza è ancora in alto mare. Romano Prodi l’ha promesso come «priorità» del suo programma, e già oggi se ne dovrebbe parlare al Consiglio dei ministri, dove probabilmente verrà varato solo un «tavolo programmatico» per discutere del tema. Obiettivo: tirare fuori una proposta decente e il più possibile condivisa. Gli esperti del Viminale devono districarsi tra un lungo elenco di proposte elaborate in più di dieci anni di dibattito, in parlamento e tra le associazioni. Perché per tutti una cosa è chiara: la normativa vigente, datata 1992, è «vecchia e avara», come si dice nei corridoi del ministero dell’Interno. L’obiettivo è di «trovare un equilibrio accettabile tra ius sanguinis e ius soli» cercando di risolvere prima di tutto il problema dei bambini che nascono in Italia da due genitori stranieri.

La legge com’è ora
Attualmente – anche se in pochi se ne rendono conto – i bambini che nascono nel nostro paese, frequentano le scuole, crescono insieme ai bambini italiani, non possono diventare cittadini fino al compimento del diciottesimo anno d’età, e perdono definitivamente questo diritto se non lo esercitano nei successivi dodici mesi. Come se non bastasse, devono dimostrare la residenza legale senza interruzioni dalla nascita. E se il bambino di una coppia di stranieri arriva in Italia da piccolo, viene trattato come un qualsiasi immigrato che si deve «naturalizzare». Arrivato a diciotto anni, dovrà quindi dimostrare di risiedere legalmente da almeno dieci anni in Italia e «continuativamente». Dieci anni di residenza legale e continuativa (che vuol dire che se perdi il permesso di soggiorno si ricomincia a contare dal successivo) è il tempo richiesto per ottenere la cittadinanza, che comunque è sempre sottoposta a un giudizio discrezionale del ministero dell’Interno. Oltretutto, il decreto attuativo dà due anni di tempo all’amministrazione per rispondere. Ovvero: formalmente si può diventare cittadini dopo dieci anni, in realtà ce ne vogliono dodici. Il che ci fa guadagnare la maglia nera in Europa.

Diritto di sangue e non di suolo
Quella italiana, in effetti, è una delle normative più restrittive dell’intera Ue, soprattutto perché è rigidamente ancorata al criterio dello ius sanguinis, tipico dei paesi di emigrazione, preoccupati di riconoscere la cittadinanza anche ai «figli della patria» nati fuori dal territorio. La cittadinanza, insomma, si trasmette per «comunanza di sangue»: per questo possono diventare cittadini molto più facilmente coloro che sposano un italiano piuttosto che chi vive e lavora in Italia. Per questo si può riconoscere più facilmente il diritto di voto a un italiano all’estero, sia pur di seconda generazione, che a un immigrato. I paesi di immigrazione, invece, in genere adottano l’opposto criterio dello ius soli: il conferimento della cittadinanza si ricollega al rapporto della persona con il territorio.

Il compromesso di Prodi
La proposta del governo Prodi cercherà di coniugare i due criteri, come avviene un po’ in tutta Europa, dove nessuno stato applica tout court lo ius soli. Anche se di questo avviso è, ad esempio, il Prc che ha già ripresentato in parlamento una proposta di legge, a firma di Graziella Mascia, che chiede di concedere la cittadinanza italiana a tutti i bambini che nascono nel nostro paese. In attesa di essere riesaminato anche il testo caldeggiato dalla Comunità di Sant’Egidio, che nella scorsa legislatura fu presentato con le firme di parlamentari dell’Udc e della Margherita, e che ad aprile è stato di nuovo depositato alla camera dal diellino Ermete Realacci. Il progetto si propone di riconoscere come cittadini i bambini nati in Italia da genitori regolarmente soggiornanti da due anni, oppure chi ha completato un ciclo di studi o di formazione professionale nel nostro paese e risiede da sei anni. Sei anni la residenza richiesta anche per gli adulti. Sotto il governo Berlusconi, invece, la Commissione affari costituzionali aveva licenziato un Testo unico di modifica della legge che riduceva il tempo di attesa per la naturalizzazione a otto anni. Altre proposte legano la cittadinanza al possesso della carta di soggiorno.

Il tabù del «test»
E’ in questo periplo di opzioni che dovrà orientarsi il Viminale. Finora i ragionamenti non sono andati molto più in là della quantificazione degli anni di residenza. Ma abbandonare lo ius sanguinis per lo ius soli pone altri problemi piuttosto scottanti. Diventare cittadino significa acquisire diritti civili, sociali e politici. Se una legislazione basata sullo ius sanguinis sposa l’idea che l’adesione ai principi costitutivi della società in cui si vive passi per l’educazione impartita dal nucleo famigliare, l’introduzione del criterio dello ius soli, invece, pone l’accento sull’integrazione determinata dalla «frequentazione» della società e delle sue istituzioni (scuola, lavoro, gruppi sociali). Ma questa integrazione deve o non deve essere accertata? Abbassando il tempo di residenza, bisogna verificare che chi andrà a votare capisca l’italiano? Se si accetta questa logica, si può andare più in là: che senso ha, per chi nasce o studia in Italia, legare la concessione della cittadinanza alla presenza regolare della famiglia? Proprio partendo da queste osservazioni, Ennio Codini – membro della Fondazione Ismu e professore di Istituzioni di diritto pubblico alla cattolica di Milano – ha elaborato una proposta che si ispira al modello francese. E’ molto articolata ma si può così riassumere: i minori accedono alla cittadinanza nell’età dell’adolescenza, eliminando ogni riferimento alla residenza legale e continuativa, che viene sostituita invece con la frequenza della scuola. Per gli adulti è sufficiente una presenza legale sul territorio (complessiva e non continuativa) di 5 anni, prevedendo la certificazione di un’adeguata competenza linguistica e dei problemi della comunità. C’è da giurare che molti, a sinistra, storceranno il naso. Ma è più di sinistra concedere la cittadinanza a chi ottempera ai criteri per ottenere il permesso di soggiorno – in primis, il lavoro – o a chi comprende la lingua e conosce le regole del gioco democratico?