Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Promise of summer

Rifugiarsi nel Nord Europa

Era stata, quella, una lunga mattinata di pioggia. Una delle tante innumerevoli giornate grigie che avevano segnato il mese di giugno, in quell’estate senza estate. Così era stata la primavera, e così si preannunciava la stagione calda, ossia del tutto identica a quella precedente. Quel che accadeva non era per niente strano da quelle parti, lì dove il tempo rimane incastrato nel cielo monocolore, le sere di fine maggio non sono abbastanza dolci e il vento non ha ancora imparato a soffiare con tenerezza. Per Zaida, invece, era la prima volta. Era il primo anno che passava lontana da casa e con sofferenza si rendeva lentamente conto che certe cose non sarebbero state mai più le stesse. Cose su cui fino ad allora aveva fondato incrollabili certezze, cose che lei dava per scontato in altri posti non lo erano affatto. E così era per quel giugno, per la bella stagione che Zaida aveva appena scoperto non avere dappertutto lo stesso profumo.

E dunque quella mattina, mentre camminava a passi pesanti e trafelati per il centro, Zaida si sentiva presa a schiaffi dalle impetuose folate di vento. Avanzava a fatica e goffamente cercava di opporre resistenza a quel cielo che era venuto giù tutto d’un colpo, spazzando il viale senza guardare in faccia a nessuno. Era uscita di casa che c’era il sole ma del tempo, da quelle parti, non ci si poteva fidare e perciò si era trovata suo malgrado nel bel mezzo del temporale. Zaida sbuffò, infastidita all’idea che il cielo sereno di una mezz’ora prima l’avesse illusa di grandi speranze un’altra volta. In mano teneva l’ombrello apertosi all’incontrario per il troppo vento, mentre il velo caduto in avanti le scopriva i capelli e le scivolava sugli occhi. Non le era piacevole camminare a quel modo, e per di più con le buste delle spesa che le rendevano la traversata ancor più faticosa. Si sentiva impacciata Zaida, infastidita da quella che lei concepiva come un’ingiustizia della natura. Abbiamo passato l’inverno, pensava tra sé. Abbiamo sopportato il freddo, le giornate così corte che sembravano appiccicarsi le une alle altre, le domeniche senza vita dopo le cinque, e tutto per elemosinare uno spicchio di estate. Siamo rimasti in attesa, certi che l’estate era proprio dietro l’angolo, aggrappati a quel ‘domani migliorerà’ che la gente spesso ripete senza convinzione alcuna. Per Zaida quella era una presa in giro bella e buona, un insulto alla gioia di vivere che fin da ragazza, in fondo, le era sembrata facile. Tra le pieghe di un raggio di sole, ogni volta aveva sempre rimesso le cose a posto. Quando la vita le aveva cambiato le carte in tavola più del previsto, era stata la calma di un tramonto ad affinarle i pensieri e disegnare con una linea nera i contorni delle cose.

Quel giorno, invece, la pioggia le cadeva senza sosta sul capo. L’ombrello ormai rotto aveva smesso di ripararla da un po’ e Zaida iniziava, perciò, a sentire i vesti bagnati d’acqua minacciarle la pelle accaldata. Ad ogni folata, un rivoletto d’acqua le si infilava ancor più dentro tra le maniche del vestito. Che posto è questo, pensò. Guardarsi intorno non la consolava, non c’erano sguardi che potesse incrociare e non c’erano volti che condividessero con lei un po’ del suo disagio. Sembravano impermeabili alla pioggia, quegli altri, camminavano con la calma di chi va a passeggio in un pomeriggio di primavera. Zaida non si capacitava. Si sforzava di capirli ma non ci riusciva, e perciò se la spiegava a modo suo. Saranno abituati, s’era detta. Ma da che mondo é mondo, l’acqua è acqua e la pelle bagnata al freddo non piace a nessuno. A Zaida i conti non tornavano. Sembrano non sentire nulla, si ripeteva.

Era immersa in questi pensieri Zaida mentre tornava a casa dopo aver fatto la spesa. I suoi figli erano a scuola, il marito era uscito per andare all’appuntamento settimanale al centro per l’impiego. Rimuginava su quel posto senza estate che da quando era lì sembrava essersi portato via anche la sua. Sara lo stesso per i miei ragazzi? Si chiese. No, loro avevano la scuola. Certo, non avevano ancora tanti amici, ma con il tempo se ne sarebbero fatti degli altri. La donna si consolò al pensiero. Sono qui per loro infondo, si disse, e sapere di averli portati in posto più sicuro le dava la certezza di aver fatto l’unica cosa giusta.

La notte che avevano deciso di andare via, Zaida aveva preso in braccio le due figlie piccole. Il figlio più grande l’aveva aiutata con le poche borse che si erano portati appresso. E’ la cosa giusta, si era detta anche in quel momento. E certamente lo era, mica poteva lasciare i suoi figli lì, con il rischio che un giorno o l’altro sarebbero arrivati e glieli avrebbero ammazzati o portati via. Soltanto che ora, in quella mattina piovosa e senza sole, in quella terra che non conosceva l’estate, qualche cosa le si era messo di traverso in gola e non voleva saperne di andare giù. Certo che dovevo portarli via, si disse un’altra volta. In quel momento sentì come una fitta amara nel torace che le si allargò all’improvviso senza che lei potesse arginarla. Speriamo che non mi muoiano dentro in questo posto. Speriamo che la pioggia non li spenga, che certi volti slavati non facciano loro troppo male. Speriamo che non credano alla nebbia. Speriamo che si oppongano con forza alle gocce piccole piccole, quasi invisibili, così impercettibili che a malapena le puoi sentire ma poi t’infilano il freddo fin dentro alle ossa.

Zaida aveva capito durante quell’anno che certe cose ti rimangono incrollabili dentro. Anche quando pensi di averle perse, e tutto intorno si fa estraneo, ecco che poi ti rendi conto che invece erano sempre rimaste lì. Zaida si era allora scoperta, tra un momento di sconforto e l’altro, compatta come una roccia. Inciampava continuamente ma si ritrovava, alla fine, sempre in piedi. Nel chiedersi senza sosta se la decisione che aveva preso era stata la migliore, tra quei dubbi che spesso l’attanagliavano, riusciva alla fine sempre a districarsi e aprirsi in un profondo sospiro di sollievo. Come l’azzurro che aveva imparato a sentire dietro quel cielo così scuro, aveva la certezza incrollabile che le cose si sarebbero, in qualche modo, sistemate. Da quel posto senza estate aveva imparato che basta un chiarore, una sfumatura più viva per raccontare che sta cambiando il vento.
Al figlio adolescente che cercava il proprio posto in quel nuovo mondo, ormai troppo cresciuto per le coccole della madre, questo diceva senza parole quando, di soppiatto, ancora continuava a guardarla con smisurata dolcezza.

I promise you that the summer is coming.

Sara Forcella

PhD in Civiltà dell'Asia e dell'Africa, è arabista, mediatrice culturale ed insegnante di italiano L2. E' inoltre presidente di Fuori Passo ETS, associazione che si occupa di mediazione, orientamento, servizi e formazione per persone con background migratorio.