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Protezione umanitaria a tutela del pieno sviluppo della persona: il rientro nel Paese comporterebbe un peggioramento delle condizioni di vita

Tribunale di Roma, ordinanza del 15 gennaio 2019

La fattispecie oggetto del presente esame attiene ad un giudizio promosso – dinanzi alla Sezione Specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea del Tribunale di Roma – ai sensi dell’art. 35 D.lgs. 25/2008 per l’impugnazione del provvedimento di diniego della protezione internazionale pronunciato dalla Commissione territoriale di Roma in data 20/10/2017 nei confronti di una cittadina georgiana in quanto, sebbene ritenuta credibile la sua vicenda personale posta fondamento della istanza per il riconoscimento per la protezione internazionale, la Commissione non la riteneva riconducibile allo status di rifugiata. Inoltre, gli accadimenti riferiti dalla richiedente e le temute ripercussioni in caso di rientro nel paese di origine, non consentivano di pervenire al riconoscimento della protezione sussidiaria, né della protezione umanitaria.

In punto di fatto

La ricorrente di nazionalità georgiana, aveva dichiarato dinanzi alla Commissione Territoriale di essere originaria della Georgia, nata a Tbilisi e trasferitasi a sette anni nella città di Rustavi, dove ancora vivono la madre e due sorelle, mentre suo padre aveva abbandonato la famiglia quando lei era molto piccola; è di religione cristiana ortodossa e non si riconosce in nessun gruppo etnico; aveva frequentato la scuola per 11 anni; la sua famiglia si era trovata in gravi difficoltà economiche a causa delle spese mediche sostenute per curare la sorella, che nel 2001 aveva contratto un virus, la madre, malata di ipertensione, e la sorellastra, malata di tubercolosi; nel 2009 aveva iniziato a lavorare come commessa in un supermercato ma, poiché i soldi non erano sufficienti a far fronte a tutte le spese, la sua famiglia aveva contratto un debito con la banca dando in garanzia la casa; lei, oltre a lavorare, si occupava dei familiari malati e l’eccessivo lavoro le aveva procurato una discopatia alla colonna vertebrale; nel 2012 aveva deciso di raggiungere l’Italia su consiglio di un parente della madre che già lavorava nel nostro paese; aveva trovato lavoro come badante con vitto e alloggio e disponeva di uno stipendio di 900,00 euro mensili con cui provvedeva al pagamento delle cure mediche della madre, al mantenimento delle sorelle ed al pagamento del debito contratto con la banca.
Dinanzi al Giudice la ricorrente ha sostanzialmente confermato di aver lasciato il suo Paese per ragioni economiche ed ha riferito di molestie subite da bambina delle quali non aveva mai parlato prima perché era stata dissuasa per ragioni di pudore.
Come sopra accennato, la Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Roma negava alla ricorrente, il riconoscimento dello status di rifugiata e di forme complementari di protezione.
Pertanto, in data 16.03.2018, avverso il diniego, la cittadina extracomunitaria, proponeva ricorso ai sensi dell’art. 35 d.lgs 35/2008 dinanzi alla sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale capitolino e, previa sospensiva del provvedimento impugnato, insisteva nel rito per la nullità del provvedimento impugnato emesso a suo dire in violazione di legge, nel merito per il riconoscimento in suo favore dello status di rifugiata od in via subordinata della protezione sussidiaria, ovvero in ulteriore subordinazione la protezione umanitaria ex art. 5, comma 6, del D.lgs 286/98. Non si costituiva la parte resistente sebbene regolarmente convenuto in giudizio.

In punto di diritto

Il Giudice del Tribunale di Roma con il decreto in esame, preliminarmente faceva rilevare che ogni eventuale vizio dei provvedimenti amministrativi in questione non ne comporta necessariamente la nullità o l’annullamento. Infatti, come ha stabilito la Suprema Corte: l’eventuale nullità del provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale non ha autonoma rilevanza nel giudizio di protezione internazionale e il giudice non è tenuto a pronunciarsi specificamente su di essa. Invero, il giudizio introdotto dal ricorso al tribunale avverso il provvedimento non ha per oggetto il provvedimento stesso, bensì il diritto soggettivo della ricorrente alla protezione invocata. Detto giudizio, perciò, non può concludersi con il mero annullamento del diniego amministrativo della protezione, ma deve pervenire alla decisione sulla spettanza o meno del diritto alla stessa.
Inoltre, il Tribunale capitolino, dopo aver ribadito le condizioni per lo status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 ed i requisiti necessari per il riconoscimento della protezione sussidiaria, asserisce che le ragioni addotte dalla richiedente non integrano il rischio effettivo di una persecuzione determinata da ragioni politiche, religiose, razziali o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale, secondo quanto dispone l’art. 8 del D.lgs. n. 251/2007. Del pari nega la protezione sussidiaria, non sussistendo nella specie alcuna ipotesi di “danno grave” tra quelle enucleate dall’art. 14 del d.lgs. n. 251/2007, anche in considerazione della situazione del paese di origine, in cui non si registra una condizione di violenza indiscriminata o di conflitto idoneo a mettere a repentaglio la vita della popolazione.
Ma al contempo accoglie la domanda subordinata volta al riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando che alla fattispecie è applicabile ratione temporis la disciplina dell’art. 5, comma 6 , del d.lgs. n.286/98 nel testo antecedente alla modifica introdotta dal d.l. n.113/2018, trattandosi di normativa di carattere sostanziale per la quale, in mancanza di una norma di diritto intertemporale specificamente dettata per regolare i procedimenti giurisdizionali in corso, opera il criterio di successione delle leggi nel tempo di cui all’art. 11 delle preleggi, in base al quale “la legge non dispone che per l’avvenire” e dunque non ha effetto retroattivo sulla domanda già proposta.

Invero, tale protezione esprime una forma di tutela generalmente connessa ad una particolare fragilità del richiedente asilo e si configura come clausola di salvaguardia, che consente l’autorizzazione al soggiorno in tutti quei casi concreti che non trovano una compiuta corrispondenza in fattispecie astratte previste dalla normativa, ma nei quali ricorrono comunque situazioni meritevoli di tutela per ragioni umanitarie (per esempio, pregresse esperienze traumatiche, motivi di salute, motivi di famiglia, particolari motivi per i quali l’interessato sia stato di fatto costretto a lasciare il suo Paese, assenza di legami con il Paese di origine, contesto socio-culturale diffuso che, seppur non corrispondente a conflitto armato interno, evidenzi una sostanziale impunità ed un mancato controllo sull’utilizzo di violenze diffuse, soprusi o vendette quali strumenti normali di soluzione delle controversie o, infine, quando ricorrano le condizioni per la protezione sussidiaria però limitate nel tempo…) .

Ai fini del riconoscimento di tale forma di protezione, la situazione personale del migrante deve essere valutata anche in relazione alla condizione in cui costui si troverebbe oggi a vivere nello stato di provenienza, qualora fosse rimpatriato.
Sul tema, la Suprema Corte, nella sentenza n. 4455/2018, ha evidenziato che merita di essere tutelata la situazione di vulnerabilità personale qualora il soggetto, in conseguenza del rimpatrio, sarebbe esposto al rischio di essere immesso nuovamente in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili. Chiarisce la Corte che “La ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità…E’ necessaria, pertanto, una valutazione
individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti una effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di vita dignitosa (art. 2 Cost.)
”.

Il Giudice, nel caso in esame, ha dato atto del positivo e stabile percorso di integrazione avviato in Italia, dove la ricorrente si trova ormai da diversi anni (dal 2012), lavora con un contratto a tempo indeterminato come badante, dispone di un alloggio e di uno stipendio adeguato che le consente di provvedere non solo alle proprie necessità, ma anche a quelle dei familiari rimasti in patria, affetti da malattie croniche ed invalidanti, come attestato dalla documentazione sanitaria prodotta in giudizio, debitamente tradotta, che evidenzia altresì il costo elevato dei prodotti farmaceutici in Georgia.

Inoltre, un eventuale rimpatrio forzato getterebbe la ricorrente, che oltretutto ha alle spalle un vissuto traumatico per le molestie subite nel corso dell’infanzia, nell’impossibilità di pagare le cure mediche dei familiari, di fronteggiare i debiti contratti, garantiti dalla casa di abitazione (documentati in giudizio), la esporrebbe a condizioni di vita non dignitose e dunque non rispettose dei suoi diritti fondamentali, anche perché, dopo tanti anni di lontananza, non avrebbe serie possibilità di una effettiva reintegrazione nel tessuto sociale e lavorativo.
Sulla scorta di quanto addotto, il Tribunale giustifica il riconoscimento di un titolo di soggiorno per motivi umanitari.

Pertanto, si tratta di una pronuncia elastica in quanto alle ragioni del riconoscimento della protezione umanitaria, specialmente se comparata all’entrata in vigore del decreto legge Salvini successiva di pochi giorni, soprattutto illuminante per la salvaguardia e la piena attuazione dell’art. 2, ed altresì dell’art. 3, 2° comma, della Costituzione nella rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, ma che ha come destinatario non il cittadino e nemmeno lo straniero richiedente asilo, ma l’uomo a prescindere dalla nazionalità del quale va tenuto in debita considerazione il suo percorso di vita personale, familiare e sociale soprattutto se probabilmente peggiore in un altro contesto dove dovrebbe essere forzatamente trasferito o rimpatriato.

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Tribunale di Roma, ordinanza del 15 gennaio 2019