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Protezione umanitaria e nuovi confini del concetto di “vulnerabilità”

Tribunale di Roma, ordinanza del 10 gennaio 2019

Fotografia di Emanuela Zampa

Con ricorso depositato il 7 Febbraio 2018, il cittadino della Georgia impugnava innanzi il Tribunale di Roma, Sezione dei diritti della persona e dell’immigrazione, il provvedimento emesso dalla Commissione Territoriale di Roma per il riconoscimento della Protezione Internazionale, che negava al richiedente lo status di rifugiato e le forme di complementari di protezione.

In punto di fatto

Prima di giungere in Italia, il ricorrente viveva in Georgia, dove attraverso la protezione di un politico locale, poteva lavorare serenamente prima in banca e poi presso una società assicurativa. Contestualmente investiva denaro presso alcuni distributori di benzina, al riparo da ingerenze criminali.
In seguito ad un sinistro stradale che aveva portato alla morte la nipote di un noto criminale locale, il ricorrente, benché dichiarato innocente dal tribunale, iniziava a subire una serie di minacce e furti che lo avevano danneggiato profondamente soprattutto dal punto di vista economico, causando anche la bancarotta delle sua attività imprenditoriali.
Col passare del tempo, la situazione era degenerata al punto tale che il ricorrente, non trovando un valido aiuto da parte delle forze di polizia, si vedeva costretto a fuggire prima in Turchia e poi nel 2012 in Italia, dove iniziava una nuova vita, lavorando come collaboratore domestico e dove successivamente ricorreva alla procedura per ottenere la protezione internazionale.
La Commissione, a seguito dell’audizione personale del richiedente, riteneva che i fatti narrati dal cittadino georgiano, fossero risalenti nel tempo e pertanto contestava l’attualità del pericolo; in aggiunta, riteneva che nel caso in esame, non vi fossero profili di vulnerabilità tali da far concludere che, un rientro nel Paese di origine, avrebbe esposto il cittadino georgiano a situazioni umanitarie di particolare complessità.

In punto di diritto

Il Tribunale Ordinario di Roma, accoglieva le richieste della difesa di parte ricorrente e con decreto del 10/01/2019 riconosceva al cittadino georgiano la protezione per motivi umanitari.
Attraverso le dichiarazioni del ricorrente e dalla documentazione depositata, il giudice ha ravvisato una condizione di vulnerabilità, tale da giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria.
Nel decreto si legge che il permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art. 5, c. 6 d.lvo 286/98 è una misura atipica e residuale idonea ad integrare l’ampiezza del diritto d’asilo costituzionale così come definito dall’art. 10 Cost.
Invero la peculiarità della protezione umanitaria, contrariamente alla protezione per rifugiati ed alla protezione sussidiaria, non prevede delle condizioni tipizzate per il suo riconoscimento, ma ha un carattere aperto, ciò comporta che le Commissioni Territoriali ed i giudici di merito hanno la possibilità di accertare, caso per caso, l’esistenza di situazioni vulnerabili degne di tutela.
L’accertamento della condizione di vulnerabilità diviene dunque il punto di partenza per concedere la protezione umanitaria, e con il passare del tempo, la giurisprudenza ha interpretato in maniera sempre più estensiva il concetto di vulnerabilità fino a ricomprendervi ogni circostanza che produca come effetto la compromissione dei diritti fondamentali inviolabili.
Appare necessario, come affermato dalla Corte Suprema di Cassazione nella pronuncia n. 4455/2018, che il giudice di merito debba mettere a confronto la storia personale del ricorrente e la situazione del paese d’origine, ma anche dell’integrazione sociale su suolo italiano, motivo che, benché non dotato di valore esclusivo, è rilevante per la determinazione della vulnerabilità individuale e, concorre quindi con gli altri requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

La decisione del giudice di merito, nel caso di specie, è dunque in linea con la costante giurisprudenza secondo la quale: “ La condizione di “vulnerabilità può… avere ad oggetto anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa ”.
Attraverso tale decisione, il giudice ha esteso i confini del concetto di vulnerabilità, affermando che la condizione di vulnerabilità può essere ricavata da una lesione al diritto alla salute, dagli effetti di un impoverimento radicale riguardante i beni di prima necessità e più in generale da ogni situazione che provochi una lesione dei diritti fondamentali inviolabili.
In aggiunta, nel provvedimento è evidenziato che ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, dovrà tenersi conto anche “dell’integrazione sociale sul suolo italiano”, che benché non rappresenti un valore esclusivo, concorre con gli altri requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
A tal proposito, dai fatti di causa, emerge che il ricorrente è pienamente integrato in Italia, dove vive stabilmente con la propria moglie ed ha un lavoro regolare e stabile, egli inoltre non ha legami familiari con nel proprio Paese d’origine, pertanto lo sradicamento dal territorio nel quale è inserito, gli causerebbe un danno grave e con esso una grave violazione dell’art. 8 CEDU posto a tutela la vita privata e familiare.

In conclusione, il giudice di merito, attraverso la sua decisione, ha posto in essere una valutazione sistematica e non frazionata dei diritti fondamentali, ed attraverso una interpretazione estensiva del concetto di vulnerabilità ha esteso la portata dei principi costituzionali e sovranazionali, ravvisando nel caso in esame, la sussistenza dei requisiti previsti per ottenere protezione umanitaria.

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Tribunale di Roma, ordinananza del 10 gennaio 2019