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Protezione umanitaria riconosciuta alla donna vittima di esperienze traumatiche durante il cammino attraverso i paesi di transito

Tribunale di Bologna, decreto del 25 giugno 2020

Il Tribunale di Bologna, dopo aver chiarito la portata non retroattiva del d.l. 113/2018 in applicazione del principio generale per il quale la legge dispone per l’avvenire, sancito dall’art.11 delle preleggi, nel ricorso presentato nell’interesse di una cittadina nigeriana proveniente dal Delta State, vittima di abusi sessuali, violenze e maltrattamenti subiti in Libia, ha specificato quanto segue.

Nel caso di specie, si può e si deve procedere all’esame della sussistenza dei gravi motivi umanitari che consentivano il rilascio del relativo permesso di soggiorno. La protezione umanitaria si considera quale forma di tutela a carattere residuale che chiude il sistema della protezione internazionale.
Come noto, i “seri motivi” di carattere umanitario oppure risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano non sono tipizzati o determinati da legislatore, cosicché gli stessi costituiscono un “catalogo aperto” (cfr. Cass. 26566/2013), “pur essendo tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza qualificabile come umanitaria, cioè concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (cfr. Cass., sez. un., 19393/2009, par. 3)”; con la precisazione che punto di partenza al fine di valutare la sussistenza dei presupposti di tale forma di protezione è la situazione oggettiva del Paese di origine del richiedente, ma correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, non potendo, tra l’altro, il solo contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza” integrare, da solo e astrattamente considerato, “i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione in questione (cfr. Cass. 4455/2018). Ai fini del riconoscimento di tale forma di protezione è pertanto necessaria la configurabilità di una condizione di vulnerabilità effettiva o comunque di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani, caratterizzanti il Paese di origine ma direttamente riferibili alle condizioni ed alla vicenda personale del richiedente (“perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto con il parametro normativo” di cui all’art. 5, comma 6, D.L.vo 286/98: cfr. citata Cass. 4455/2018).
Orbene, nel caso di specie, la ricorrente, pur essendosi allontanata dal suo Paese non più giovanissima, ha affrontato un percorso certamente difficile e traumatico, reso ancor più doloroso dal suo vissuto, dall’opposizione dei suoi familiari al matrimonio con il compagno, dall’aborto, dalle violenze e dai, pur se non gravi, problemi di salute.
Senza considerare, poi, che un fattore di particolare vulnerabilità è certamente costituito dal genere: il solo fatto di essere donna espone il migrante a specifici ulteriori aspetti di vulnerabilità fisica e psicologica.
La ricorrente, inoltre, pur avendo ancora familiari in Nigeria, è priva di fatto di qualsiasi appoggio familiare effettivo. E, ancora, l’umiliazione delle violenze sessuali subite in Libia rendono, se possibile, ancora più fragile la condizione della ricorrente; fragilità che, come chiarito dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 1104/2020) ed in ossequio a quanto disposto dall’art. 8 del d. lgs.vo 25/08, che impone al giudice l’esame della domanda di protezione anche alla luce di informazioni precise ed aggiornate sulla situazione generale non solo del paese di provenienza ma anche di quelli di eventuale transito, non può non prevalere in quel necessario giudizio comparativo richiesto dalla sentenza 4455/18 innanzi citata tra la condizione personale del richiedente asilo e le conseguenze di un suo eventuale rimpatrio. Irrilevante, infatti, è il luogo in cui le violenze sono state consumate anche se tale luogo sia un paese di transito e non quello di eventuale rimpatrio come nel caso di specie: ciò che rileva, sempre secondo quanto stabilito dalla sentenza 1104/2020, è la fragilità scaturita non solo dalla situazione vissuta nel proprio paese di origine (la cd. spinta migratoria), ma anche di quelle derivanti da esperienze gravemente traumatiche occorse durante il cammino attraverso i paesi di transito. In una condizione di particolare vulnerabilità, quale è risultata essere quella della ricorrente, il giudizio comparativo delineato dalla sentenza 4455/2018, come innanzi detto, può e deve, quindi, svolgersi in forma attenuata o, comunque, recessiva.
E all’esito di tale giudizio non si può non ravvisare nella fattispecie in esame – nella valutazione complessiva della situazione di vulnerabilità della ricorrente come innanzi descritta – quei seri motivi umanitari ostativi ad un immediato rimpatrio della stessa in un Paese, quello di provenienza, certamente difficile e problematico, a fronte del percorso intrapreso, diretto a condurre una vita normale e tranquilla, con il reperimento di un impiego a tempo determinato accanto al proprio compagno del pari richiedente asilo.
In conclusione, in parziale accoglimento del ricorso deve essere riconosciuto alla ricorrente il diritto al rilascio di permesso di soggiorno per seri motivi di carattere umanitario ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 5, comma 6, TU Immigrazione
“.

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Tribunale di Bologna, decreto del 25 giugno 2020