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Qualche commento ulteriore al decreto legge del 14 settembre 2004 n. 241

Si tratta del provvedimento governativo che per il momento, come tutti i decreti legge di carattere provvisorio, attende la conversione in legge. Con esso è stato disciplinato in maniera diversa il provvedimento di accompagnamento immediato alla frontiera collegato al provvedimento di espulsione dei cittadini extra comunitari in condizione di irregolarità.
Erano già stati sollevati alcuni dubbi sulla idoneità del decreto legge ad assolvere, in modo lecito e al contempo affidabile, alle esigenze di effettività dell’espulsione. In particolare, era stata criticata la devoluzione al giudice di pace della materia, poiché sorge la legittima preoccupazione che si decida in maniera sommaria, se non sbrigativa, sul rimpatrio e sulle eventuali conseguenze, spesso connesse al rischio di persecuzione nel paese di provenienza. Tutto questo, infatti, dovrebbe essere deciso entro 48 ore da un giudice che fino ad oggi in Italia si è occupato delle cosiddette “cause bagatellari”, ossia questioni di modesta entità che vanno decise più sotto il profilo di equità, cosiddetta giustizia sostanziale, che non sotto un profilo di diritto.
Ora, invece, vengono assegnate ad un giudice di pace delle questioni di particolare delicatezza e rilevanza, e si chiede, inoltre, di provvedere a definire queste questioni in sole 48 ore, con un trattamento economico a cottimo di € 20 per ogni caso esaminato.

Dal punto di vista dell’attuazione di questo decreto legge sono già sorte innumerevoli questioni che sia dal punto di vista giuridico, sia, e soprattutto, dal punto di vista pratico fanno aumentare i dubbi sulla legittimità di questa normativa.
Qualche giorno fa si è svolta presso il Tribunale di Venezia una riunione tra le autorità – Questura e Prefettura –, i giudici di pace e il Presidente del Tribunale per valutare la portata applicativa di questo decreto legge.
Il primo problema che è stato affrontato è stato quello della individuazione del giudice competente per territorio ad esaminare la legittimità dei provvedimenti di accompagnamento immediato alla frontiera e eventualmente anche dei provvedimenti di espulsione.
In quella sede si è stabilito che il giudice di pace competente è quello del luogo ove viene emesso il provvedimento di accompagnamento alla frontiera, poiché se fosse invece quello del diverso luogo di trattenimento si violerebbe il principio costituzionale per cui nessuno può essere sottratto al giudizio avanti al c.d. giudice naturale, essendo evidente che non potrebbe essere legittimo condizionare la competenza territoriale in base alla eventuale scelta del luogo in cui attuare il trattenimento.
Sorgono dei dubbi nel caso in cui il provvedimento di espulsione sia stato emesso da un’autorità di un luogo diverso e il provvedimento di accompagnamento, quindi di esecuzione vera e propria dell’espulsione, sia adottato da un questore di una città diversa. Visto che lo stesso giudice di pace secondo il decreto legge dovrebbe occuparsi anche di esaminare il ricorso contro l’espulsione, nel frattempo proposto dall’interessato, questo andrebbe a modificare le regole sulla competenza territoriale del giudice che dovrebbe decidere sul provvedimento di espulsione.

Obbligare il giudice competente a convalidare entro solo 48 ore il provvedimento di accompagnamento alla frontiera presenta tutta una serie di problemi pratici, oltre che inerenti direttamente il diritto di difesa.
Innanzitutto, se è vero che il giudice della convalida è quello del luogo in cui è stato disposto il provvedimento di accompagnamento alla frontiera, c’è un problema pratico perché la norma dispone che, nel frattempo, l’interessato debba essere trattenuto in un CPT. Se, per esempio, a Venezia non ci sono CPT, e il più vicino è quello di Bologna o di Modena, risulta difficile pensare che in solo 48 ore la stessa persona debba essere internata e trattenuta in un CPT, poi prelevata ed accompagnata all’udienza a qualche centinaio di chilometri di distanza, e poi eventualmente riaccompagnata nel CPT, salvo che non sia possibile eseguire direttamente l’accompagnamento immediato alla frontiera di un aeroporto, o di un porto o ad una frontiera terrestre.
Pare che, almeno per quanto riguarda Venezia – ma possiamo prevedere che soluzioni analoghe vengano adottate anche altrove – si sia deciso che il provvedimento di convalida venga adottato immediatamente e cioè che l’interessato non venga portato al CPT, ma venga invece trattenuto presso la Questura, in modo che, nel più breve tempo possibile, il giudice di pace possa provvedere all’esame della convalida del provvedimento ed eventualmente provvedere a decidere anche sul ricorso che eventualmente fosse stato proposto dall’interessato tramite il suo avvocato di fiducia.

Un altro problema che si pone è quello del diritto di difesa. Se il giudice deve decidere entro 48 ore, l’udienza viene fissata in un arco di tempo strettissimo e, quindi, non c’è il tempo per formalizzare degli avvisi o delle vere e proprie citazioni, neanche per l’eventuale difensore che dovesse essere nominato di propria fiducia dall’interessato. Ma, anche vi fosse il tempo per convocare validamente il difensore nominato di fiducia, poi il problema pratico è che, nella realtà, non sarà facile immaginare che ogni avvocato possa rendersi disponibile con un semplice preavviso di magari sole 24 ore, o magari anche meno, e quindi garantire un’effettiva difesa; una difesa va preparata e un avvocato scrupoloso sente la necessità di fare una serie di verifiche, di raccogliere i documenti, di esaminarli e in qualche caso anche di studiare.

Poiché la norma prevede che sia sempre lo stesso giudice di pace, competente per territorio sull’accompagnamento immediato alla frontiera, a decidere anche sull’eventuale ricorso che fosse stato nel frattempo proposto dall’interessato, non si capisce come il giudice nella stessa udienza in cui decide sulla convalida dell’accompagnamento immediato alla frontiera, possa decidere anche sul ricorso, se questo fosse stato proposto in tempo utile. Dobbiamo immaginare che, di fatto, anche il ricorso contro l’espulsione –intendiamo un ricorso che possa almeno tentare di avere un’utilità pratica e quindi di paralizzare l’espulsione stessa– debba essere compiuto e formalizzato entro sole 48 ore, o meglio entro le pochissime ore di preavviso che verranno date all’avvocato difensore di fiducia.
L’alternativa, naturalmente, e sarà la casistica più numerosa, è quella di un difensore d’ufficio che si renda disponibile alle stesse condizioni del giudice di pace, che in pratica stazionerà nei dintorni della questura, per essere sempre pronto a partecipare, con preavviso di poche ore o magari di pochi minuti, all’udienza e rappresentare un simulacro di difesa nei confronti dell’interessato pur non avendolo mai visto prima, potendo avere forse solo pochi istanti di colloquio subito prima dell’espulsione e senza aver la possibilità di esaminare documenti, se non i documenti trasmessi al giudice di pace unitamente al fascicolo, letteralmente “su due piedi”.
Proviamo ad immaginare ad esempio che una persona considerata, a torto o a ragione, un irregolare venga trattenuta dalla polizia, colpita da un provvedimento di espulsione e da un contestuale provvedimento di accompagnamento alla frontiera perché non è in grado in quel momento di esibire un permesso di soggiorno (o una richiesta di rinnovo, la classica “ricevuta”). Immaginiamo che questo signore nel giro di poche ore, o il giorno dopo, venga sentito dal giudice di pace, al quale rappresenterà, ad esempio, di avere in corso una procedura di rinnovo del permesso di soggiorno presso un’altra questura e di essere in possesso soltanto della relativa ricevuta di avvenuta presentazione della domanda, che magari si trova a casa sua. Ebbene, ha il giudice il tempo di verificare queste circostanze? Nel fascicolo che viene trasmesso al giudice di pace ben difficilmente potrà risultare qualcosa a questo riguardo, poiché si tratta di carte che eventualmente si trovano presso un’altra questura, ossia un ufficio completamente diverso. Si consideri il fatto che tutto deve compiersi entro le 48 ore altrimenti il provvedimento di trattenimento temporaneo perde validità e quindi l’interessato deve essere rimesso in libertà.
Proviamo a pensare ad un’altra ipotesi, il divieto di espulsione espressamente previsto dalla legge all’art.19, comma 2 lett. c) del T.U. sull’immigrazione. Se questo signore, che è stato per esempio fermato in un centro commerciale o in una stazione ferroviaria, riferisce di convivere con un parente entro il 4° grado, cittadino italiano – ipotesi in cui la legge prevede il divieto di espulsione anche se si tratta di persona priva di permesso di soggiorno – ebbene, come si potrebbero verificare in poche ore queste circostanze che devono essere anche documentate con certificati specifici?

Queste sono per il momento le notizie, per niente confortanti, che si possono dare sull’applicazione del decreto legge 241/2004. Ciò che salta agli occhi è che, anche al di là della volontà politica che ha determinato questa norma, la tecnica legislativa lascia alquanto a desiderare: si assegnano ad un giudice solo 48 ore per decidere sul caso relativo ad una persona che in teoria dovrebbe trovarsi trattenuta presso un centro di permanenza temporanea a centinaia di chilometri di distanza. Questo è francamente assurdo e mette anche le questure nella condizione di non poter applicare la norma così come è stata concepita. Le questure si trovano a dover gestire la situazione trovando locali che difficilmente sono adeguati allo svolgimento di un’attività giudiziaria e, in più, dovrebbero anche essere organizzate per fare una spola infinita tra la sede della questura e i centri di permanenza temporanea. Tutto questo, nella realtà, è inverosimile perché manca il personale, mancano le risorse economiche per far fronte a tutto ciò. Si può quantomeno temere che la norma venga di fatto applicata senza fare ricorso al trattenimento effettivo nei centri di permanenza temporanea e trasformandolo, di fatto, in un trattenimento presso la questura (cosa ben diversa dal fermo di polizia), la qual cosa non trova alcun fondamento dal punto di vista delle norme del nostro ordinamento.