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Quando Mamadou andò in Islanda

Michele Costantini, Wall Street International - Settembre 2019

Nave vichinga

Una vicenda incredibile ha scosso quest’estate la comunità di Nordik, piccolo villaggio di pescatori della costa ovest della Norvegia. Tutto è iniziato con il recupero di un gruppo di naufraghi alla deriva nel tratto di mare che separa la Norvegia dall’Islanda. Un fatto, di per sé non eccezionale, soprattutto d’estate quando aumenta il traffico dei velisti. Grande però è stata la sorpresa dei soccorritori quando si sono trovati di fronte ad un gruppo di sette uomini africani a bordo di una imbarcazione simile ad una antica nave vichinga.

Le sorprese però non erano finite: dei sette, l’unico superstite parlava curiosamente l’islandese e l’imbarcazione, con la testa di un drago scolpita sulla prua proprio come le navi esposte nel museo di Oslo, conteneva numerosi oggetti ed armi istoriate con lettere runiche. Il comandante della polizia portuale, maggiore Dag Olsen, ha fugato ogni dubbio: “Trattasi chiaramente di un tentativo fallito di raggiungere illegalmente l’Islanda da parte di un gruppo di profughi presumibilmente partiti dalle coste della Norvegia“. La notizia è però subito rimbalzata sui media nazionali ed internazionali creando curiosità ed interesse tra la gente, soprattutto tra gli scienziati e gli appassionati di storia antica. Recentemente è stato reso noto il testo integrale della testimonianza dell’unico superstite, testo che ho deciso di trascrivere qui di seguito lasciando ai lettori il giudizio su questa storia sconcertante.

Rapporto n° 368 della Capitaneria di porto di Hollstrun redatto in data 18 agosto 2019 dal capitano Einar Jacobsen/ref. 434- S38.

Nel corso delle ordinarie operazioni di controllo della costa a nord ovest di Hollstrun, a 58 miglia nord di Fjornfjord oggi abbiamo raccolto un gruppo di persone alla deriva su una rudimentale imbarcazione di legno. Si tratta di sette uomini di chiara origine africana, vestiti di pelli di pecora e con calzari di budello e cuoio. Di nessuno di essi è stato ancora possibile stabilire l’identità, le precarie condizioni fisiche di almeno sei dei naufraghi recuperati hanno reso necessario il ricovero immediato presso il pronto soccorso dell’ospedale di Hollstrun. L’imbarcazione sulla quale si trovavano i superstiti è stata agganciata e trascinata a riva ed è stata posta sotto sequestro da parte delle forze di polizia di frontiera. Sull’imbarcazione, totalmente sprovvista di motore, non sono state trovate apparecchiature elettroniche né documenti, ma pellicce di pecora e foca, bisacce in pelle contenenti sostanze alcoliche, quattro spade e sei asce con manico oltre a due grossi barili di aringhe semivuoti. Tutto il materiale ritrovato è stato messo a disposizione delle indagini.

Cap. E.Jacobsen, 18/8/2019 jks/rel. 0058

Verbale n° 82 della Polizia di frontiera, stazione di Hollstrun redatto da uff. compl. Arid Lars in data 24 Agosto 2019 presso l’Ospedale di Hollstrun.

È presente di fronte a me Mamadou Diarra, unico superstite del naufragio del 18 agosto al largo delle coste norvegesi. Mamadou Diarra parla islandese, Bambara’ (la sua lingua di origine) e francese. Collaborano alla stesura di questo verbale/testimonianza il maggiore Dag Olsen, il Prof.Erik Kristiansen, antropologo presso l’Università di Oslo, Samila Kurardottir, mediatrice culturale ed interprete.

Come si chiama? Qual è il suo paese di origine?

Mi chiamo Mamadou, sono nato a Bamako, sono maliano (il soggetto interrogato intercala la sua risposta mescolando bambara, la sua lingua originaria, con l’islandese). Io ringrazio la Norvegia e voi che mi avete salvato.

Come mai parla due lingue insieme? Dove ha imparato l’islandese?
Islandese? Cos’è islandese? Non capisco. Questa è la lingua che parlavano al villaggio degli uomini bianchi… che ho imparato da loro.

Prima di capire come è arrivato fino a qui, Signor Mamadou Diarra, lei ci può dire quando ha lasciato il suo paese? E perché?
Non ricordo… è passato troppo tempo. Io ero in Libia a lavorare. Molte persone dal Mali andavano in Libia, perché lì c’era lavoro.
Volevo stare lì qualche anno e poi tornare a Bamako ma poi alcuni poliziotti libici ci hanno arrestato e messo in una grande prigione. Un giorno il mio amico Domo, anche lui maliano, mi ha detto, se paghi puoi andare in Italia. Ho trovato i soldi ( …il testimone si commuove… ) la mia famiglia mi ha aiutato e così una notte ci hanno messo in tanti in una grande barca di gomma e siamo partiti. Ricordo la sensazione di gioia, di liberazione. Mi avevano detto che sarebbe stata una questione di ore e poi ci avrebbero salvati. Ma poi le cose hanno cominciato ad andare male.

Mi vuole dire cosa è successo?
È scoppiata una lite a causa di una incomprensione. Uno degli uomini, si chiamava Philip se non ricordo male, un nigeriano, ha cominciato a dire che qualcuno aveva toccato sua moglie e ne è nata una discussione accesa che subito si è trasformata in uno scontro fisico. Altri uomini presenti, ricordo anche il mio povero amico Dabou, sono intervenuti nel tentativo di sedare gli animi accesi dei contendenti e lo spostamento delle persone sulla barca ha fatto cadere in acqua parecchie persone, tra le quali tre donne e i loro bambini. È stato terribile, si sentivano le urla e i pianti ma non si riusciva a vedere nulla. Ben presto ci siamo resi conto che mancavano all’appello ben nove persone. Una vera tragedia.

Mi parli ora dell’incontro con la barca che vi ha salvati.
Come stavo dicendo era la fine del giorno, eravamo tutti stremati, era rimasta poca acqua che cercavamo disperatamente di razionare, le riserve di cibo erano finite.
La maggior parte di esse era finita in mare durante la lite notturna. Con i nostri telefoni cercavamo disperatamente di mandare degli SOS agli amici che già vivono in Italia e Francia ma purtroppo senza successo. Il cielo cominciava a diventare scuro. È stato allora che abbiamo notato l’imbarcazione di salvataggio, ho pensato, ecco, siamo salvi. La barca era tutta nera, stranamente senza luci, una sagoma scura. Si notava appena all’orizzonte. Ma si capiva che stava procedendo verso di noi. Ricordo che eravamo tutti molto emozionati. Abbiamo cominciato ad urlare agitando i telefoni accesi.

E poi cosa è successo. Riesce a descrivere la scena?
Ricordo il terribile rumore al momento dell’impatto, praticamente ci sono venuti addosso con l’evidente intenzione di affondare la nostra imbarcazione, che è di fatto come esplosa. Non abbiamo neppure avuto il tempo di sorprenderci per questa aggressione perché ci siamo ritrovati in acqua, al buio. Una scena terribile. Io sapevo che molti di noi non sapevano nuotare, ho cercato di afferrare le persone alla cieca, tutti urlavano e piangevano. Un inferno. La barca nera era come un muro di fronte a noi, si scorgevano delle ombre. Le nostre urla si mescolavano a voci sconosciute. È stato allora che mi sono sentito afferrare da dietro, agganciato al giubbotto da un uncino e subito scaraventato sopra ad un assito scivoloso e maleodorante in mezzo ad un mucchio di altri uomini. Ho cercato di sollevarmi ma sono stato colpito da una forte bastonata alla testa che mi ha fatto ricadere a terra svenuto. Questo è quello che ricordo di quella notte. Sembrava dovesse essere la fine delle nostre pene e invece è stato l’inizio di un incubo.

Quando si è svegliato cosa ha visto?
Il risveglio è stato brusco, una secchiata di acqua di mare in faccia. Ricordo che la prima cosa che ho fatto è stata guardarmi intorno alla ricerca dei miei compagni. Con orrore ho scoperto allora che eravamo rimasti solo in quattordici, tutti gli altri erano dispersi, probabilmente morti. Poi vidi quegli uomini… (l’interrogato si commuove e comincia a piangere…).

Stia tranquillo, ora non è più in pericolo. Riesce a dirmi chi erano quegli uomini? Provi a descriverli…
Erano uomini bianchi. Saranno stati una trentina. Alcuni erano a torso nudo, altri avevano il corpo ricoperto con pellicce sudice. Portavano capelli lunghi e barbe rossicce e folte. Ci guardavano con occhi di ghiaccio e ci urlavano cose incomprensibili. Erano tutti armati con lunghe spade di metallo lucente e coltelli agganciati al fianco in foderi di pelle. Noi eravamo legati con delle corde, mani e piedi saldamente ancorati ad una trave che si prolungava per tutta la lunghezza della nave. C’era una vela… sì… ecco… ricordo una vela di tela rossa. E la luce del sole, il mare aperto. E poi ancora quelle urla spaventose. Molti di noi piangevano. Il fatto di ritrovarci vivi non era un motivo sufficiente per gioire.
Non capivamo perché venivamo trattati in quel modo. Molti dei nostri compagni africani già in Italia ci avevano raccontato che le barche di soccorso erano piene di persone sorridenti, pronte ad aiutarci. Diaonè ad un certo punto aveva anche urlato qualcosa ma di tutta risposta si era beccato una frustata in faccia così violenta da provocargli un grosso taglio sulla fronte.
Non sapevamo chi fossero i nostri salvatori ma una cosa avevamo capito, dovevamo stare calmi ed ubbidire ai loro ordini.

Mi scusi, non ricorda qualche scritta, una bandiera, qualcosa che vi aiutasse ad identificare l’equipaggio della nave? C’erano altre imbarcazioni intorno all’orizzonte o aerei in volo nel cielo?
Assolutamente no. La vela rossa aveva però un disegno, una faccia umana.
E la prua della nave terminava con una testa di uccello. No, nessun’altra imbarcazione all’orizzonte, né aerei sopra le nostre teste. Quegli uomini stranamente non usavano telefoni, però continuavano ad urlare. Il cielo nel pomeriggio si è di colpo oscurato ed è arrivato un grosso temporale. C’erano molti uomini impegnati con i remi ed altri si occupavano dell’acqua che entrava copiosa a causa delle onde. La barca ad ogni colpo sembrava pronta a spezzarsi. Non avevamo alcuna idea di dove fossimo diretti. C’era un freddo tremendo ed avevamo fame.Ad un certo punto ho visto Diaonè crollare e ho cominciato a chiamarlo per nome ma lui non rispondeva. Uno dei rematori di fronte a me allora si è allora alzato, ha urlato qualcosa a quello che sembrava il loro capo e poi con una forza poderosa ha alzato di peso il mio povero amico e l’ha scaraventato in mare come un fantoccio. Ero terrorizzato e per un attimo ho temuto di dover fare la stessa fine.

Quanto è durato il viaggio?
Ottantotto giorni. Li ho contati tutti. Per ogni giorno che passava facevo un segno sulla trave con l’anello di ferro che mi teneva legato. È stato un viaggio tremendo, una tortura, non finiva mai. Non avevamo nessuna idea né della destinazione né di quanto sarebbe durato. Già dopo il secondo giorno che eravamo a bordo però ci avevano messo ai remi e questa era una buona cosa perché in quel modo ci riscaldavamo. Viaggiavamo spesso di notte, il freddo era davvero insopportabile. Di giorno, quando le condizioni del tempo lo permettevano e c’era il vento a favore veniva dispiegata la vela e si procedeva a grande velocità. Ma c’erano altri giorni in cui calava una nebbia fitta, in quei momenti si perdeva completamente ogni riferimento. Ci avevano dato delle pellicce e dei mantelli ma spesso rimanevamo bagnati a causa delle onde.
Alcuni di noi però non ce l’hanno fatta. Daud il somalo e Dabo, il mio caro amico Dabo sono morti di freddo. Erano magri e stremati da tutte quelle dure prove. Quegli uomini bianchi, in confronto a noi, sembravano avere una forza poderosa.

Ma ricevevate del cibo? Vi davano da bere?
Sì, anche se non molto. Ogni giorno c’era del pane raffermo e pesce secco. A volte carne affumicata che molti di noi rifiutavamo perché pensavamo fosse maiale. Da bere di solito c’era acqua, solo di notte veniva distribuita una bevanda alcolica forte come il fuoco che ci aiutava a scaldarci. Gli uomini bianchi per questo erano spesso ubriachi e mentre remavano cantavano. Per tutta la durata del viaggio non abbiamo incontrato altre imbarcazioni però abbiamo visto dei pesci giganteschi, lunghi parecchi metri. Creature spaventose. Qualcuno degli uomini bianchi a bordo ogni tanto provava a pescare e riusciva a catturare dei grossi pesci pallidi che venivano immediatamente tagliati a pezzi e mangiati crudi. Dopo circa sessanta giorni di navigazione senza vedere mai terra abbiamo raggiunto un’isola.

Mi racconti meglio dell’arrivo all’isola.
Ricordo un’isola verdissima. Eravamo tutti molto felici di rivedere un pezzo di terra dopo tutti quei giorni in mezzo al mare. Si trattava in realtà solo di due grosse rocce ricoperte di erba. Sulla roccia più grande c’era una costruzione in pietra, come una grossa casa. E si vedevano delle persone che facevano segni con le braccia. Per un attimo abbiamo immaginato di poter essere liberi. Invece non ci hanno permesso di scendere a terra. Ma abbiamo visto quattro uomini scendere dalla casa di pietra fino a riva trasportando dei piccoli barili di legno, avevano vesti lunghe ed erano scalzi.
Portavano al collo il crocifisso ed erano senza capelli come certi missionari bianchi che si vedono da noi in Africa. Rivolti dalla nostra parte continuavano a sbracciarsi e ad urlare in una lingua che pareva inglese. Gli uomini della nave rispondevano ripetendo la parola “Papars… Papars…” e poi ridevano. Kevin, il nigeriano, nell’udire parlare in inglese aveva tentato di farsi notare ma subito era stato messo a tacere con una frustata. Sembrava che gli uomini dell’isola fossero interessati a noi, continuavano a guardare dalla nostra parte.
Ad un certo punto mi sono voltato e ho visto Kevin in lacrime che pregava. Altri barili sono stati issati a bordo e poi siamo ripartiti e l’isola dopo poco è scomparsa avvolta nella nebbia più fitta. Da quel giorno per parecchio tempo abbiamo navigato nella nebbia più totale. La nostra nave pareva sospesa nel vuoto. A volte si udivano dei suoni lontani. Il comandante, che tutti chiamavano Bjolfur allora si spostava fino a prua e con un corno ricurvo produceva un suono basso e prolungato che faceva venire i brividi. Ancora oggi di notte certe volte mi sveglio e mi sembra di sentirlo…

Cosa è successo nei giorni successivi?
Dopo parecchi giorni di navigazione abbiamo visto di nuovo terra. La nostra imbarcazione questa volta è stata circondata da altre navi molto simili piene di uomini urlanti.
Una di queste ci ha affiancati e alcuni uomini sono saliti a bordo e in molti si sono abbracciati proprio come se appartenessero alla stessa famiglia. Tutti vestivano in modo simile, con vesti lunghe e mantelli. Qualcuno portava pantaloni di pelliccia. Tutti erano armati di spade ed asce affilate. Quando si sono accorti di noi alcuni si sono avvicinati e ci hanno messo le dita in bocca toccandoci i denti. Poi la navigazione è ripresa e abbiamo raggiunto il loro villaggio che si trovava tra alte montagne semi coperte di neve, dove il mare si restringeva fino a diventare simile ad un fiume. Il villaggio era costituito da alcune case basse ricoperte di terra ed erba non molto diverse da quelle che si vedono in certe zone di foresta in Africa.

Quando la nave ha toccato terra ho visto per la prima volta le loro donne, tutte molto alte, dalla pelle chiara e con i capelli biondi e c’erano anche tantissimi bambini. Non c’erano automobili però e questo mi è sembrato strano e, cosa ancora più strana, nessuno aveva il telefono. Ho pensato che forse aveva ragione mio padre quando mi diceva che l’Europa non è così moderna come sembra e che per tante cose l’Africa è molto più avanti. In quel momento mi sono sentito orgoglioso di essere africano e quegli uomini bianchi parevano proprio dei poveracci. Ma la più grande sorpresa è arrivata dopo. Legati con le mani dietro alla schiena siamo stati scortati verso un ampio recinto dove c’erano anche due piccole costruzioni in pietra e lì siamo stati rinchiusi. L’ interno delle case era molto buio ed umido nonostante in centro ci fosse un piccolo fuoco acceso. Quando ho cominciato ad abituarmi all’oscurità ho capito che non eravamo soli. Lì dentro infatti c’erano due uomini immobili seduti sopra ad una panchetta di legno: due uomini africani! “Fratelli!” ho esclamato fuori di me dalla meraviglia, senza neppure chiedermi chi fossero e se fossero in grado di comprendermi! Quale emozione invece sentire di nuovo la mia lingua: quei due uomini erano maliani come me e parlavano in bambara’. Purtroppo presto ho dovuto ricredermi, c’era qualcosa di strano in loro, non erano come me. Pur parlando la stessa lingua non riuscivamo a capirci.

In che senso?
Nel senso che pur riferendoci allo stesso paese d’origine loro non conoscevano tante cose. Uno dei due uomini, Fadou, per esempio, diceva di venire da Gao e io conosco bene Gao perché ci vive mio fratello. Anche la squadra di calcio di Gao è molto conosciuta in Mali e c’è uno stadio che è molto bello e moderno. Fadou mi diceva di non sapere cosa fosse il calcio e di aver sempre e solo lavorato con il padre nel commercio del sale proveniente dal deserto. E di non essere mai stato allo stadio. Insomma, poi aggiungeva altre cose strane tipo che a Gao ci sono solo cammelli e uomini, ed io gli ho dicevo del traffico di automobili e dei turisti ma lui diceva che non ne sapeva nulla e continuava a ripetere, solo uomini e cammelli e poca acqua. Ma dove è vissuto questo uomo mi sono chiesto ad un certo punto? Ho dubitato che fosse realmente di Gao, eppure era capace di descrivere molto bene la Moschea con le sue mura. Un mistero.

E l’altro uomo che ha incontrato? L’altro africano? Chi era? E perché si trovava lì?
Si chiamava Gendè, maliano anche lui, un Dogon, piccolo di statura ma pieno di energia. Io non sono mai stato nella terra dei Dogon però so che si tratta di gente pacifica con tradizioni differenti dalle nostre. Gendè mi ha detto che a Youga Nah, il suo villaggio, lui lavorava il legno. E che era stato rapito e venduto dagli arabi e anche lui aveva viaggiato a lungo prima di giungere lì. Non riusciva a dire da quanto tempo si trovasse in quel posto. Mi disse anche che un giorno uno degli uomini del villaggio, un certo Hlinur, l’aveva visto intagliare un pezzetto di legno e allora gli aveva proposto di scolpire una testa di animale sulla estremità anteriore della sua nave e Gendè era contento e si sentiva orgoglioso di poter fare qualcosa di bello che sarebbe stato sicuramente apprezzato. Allora aveva scolpito con grande passione una grande testa di Leone ma Hlinur, il proprietario della nave si era arrabbiato perché diceva che quella non era la testa di un Drago! E tutti i suoi amici hanno cominciato a prenderlo in giro e così Gendè, invece di una ricompensa si era beccato una bella punizione,un bel po‘ di frustate e poi è stato rinchiuso nella stalla per parecchi giorni.

Ma voi siete stati sempre schiavi di questi uomini o ad un certo momento avete goduto di più libertà?
Sì, con il tempo siamo stati lasciati liberi di muoverci all’interno del villaggio. Abbiamo conquistato la fiducia degli uomini bianchi. Hanno cominciato ad apprezzarci per le nostre specialità. Io, per esempio, in Africa avevo gli animali, soprattutto capre, quindi per me è stato facile occuparmi delle pecore, mungerle, conciare le pelli. Senè, invece, che veniva dal Senegal ha subito lavorato come pescatore. Daud sapeva lavorare il metallo e nel villaggio tra spade e armature il lavoro per lui non è mai mancato. Bakary invece appena ha notato che alcune donne tessevano a telaio si è offerto di aiutarle e dopo breve tempo sono apparsi dei mantelli con decorazioni africane e lui è stato molto rispettato per questo, per questa sua abilità nella tessitura e i suoi tessuti sono diventati molto richiesti. Insomma tutti abbiamo trovato da fare e lavorando il tempo passava più facilmente. L’unico che non ha mai fatto nulla e si è sempre rifiutato è stato Frances, l’altro nigeriano del nostro gruppo. Lui era un tipo ribelle. Diceva sempre che non bisognava lavorare per i bianchi. E poi lui era l’unico che era riuscito a nascondere il suo telefono e anche se non era più riuscito ad accenderlo per il solo fatto che lo avesse noi lo rispettavamo. Frances non aveva perso la speranza di trovare come caricarlo. Una volta, a questo scopo,si è addirittura allontanato dal villaggio e si è spinto lontano, oltre le montagne. L’ hanno recuperato dei cacciatori dopo parecchio tempo, era magrissimo e moribondo. Quando si è ripreso ci ha detto che quello dove ci trovavamo era un luogo maledetto.Per giorni aveva vagato tra vulcani e gigantesche montagne di ghiaccio nutrendosi di bacche e carogne di uccelli. Dopo quella fuga però Frances non era stato più lo stesso. Lo vedevo vagare per il villaggio, con il cappello in testa e le scarpe semidistrutte. I bambini si divertivano a prenderlo a sassate.

Gli uomini bianchi vi hanno mai discriminati in quanto africani?
Non capisco cosa vuole dire discriminati. Gli uomini bianchi sono stati spesso violenti con noi, quello sì. Soprattutto all’inizio, ma credo perché ubriachi. Loro erano spesso ubriachi. Quando non bevevano erano bravi. I bambini, per esempio, a parte con Frances, che consideravano strano, con noi erano gentili. Venivano spesso a toccare la nostra pelle o i capelli e sembravano divertiti. Nel villaggio c’erano molti bambini e molte donne e tutti partecipavano alla vita di ogni giorno. Quando arrivava una nave con il pesce, per esempio, anche i bambini aiutavano a scaricare. I bambini erano molto liberi anche se le loro madri non li perdevano mai di vista. Sia loro che le donne li ho visti fare il bagno nel mare freddo, nudi, senza vergogna. Non sembrava esserci per loro nessuna regola morale. Infatti quella gente non aveva una religione. Vivevano senza un Dio. Non avevano un luogo per pregare. Una sola volta ho visto un uomo invocare il cielo in ginocchio dopo che un tuono molto forte aveva fatto tremare la valle. Sì, quegli uomini erano coraggiosi ma avevano paura del cielo.

Quante persone c’erano nel villaggio?
Ricordo di averne contate circa un centinaio, più della metà erano donne, poi c’erano gli uomini e molti bambini. Gli uomini andavano e venivano, erano sempre in movimento con le navi. Uno solo di loro non si muoveva mai, si chiamava Petur, era l’uomo più vecchio, il custode della memoria. Abitava in una piccola casa di pietra ricoperta di terra. La sua casa era piena di cose, c’erano sculture di legno, ossa di animale ma anche sacchi pieni monete d’oro, spade affilate e crocifissi come quelli che si vedono nei luoghi di preghiera dei cristiani a Bamako.
Il capo del villaggio si chiamava Bjolfur. Bjolfur aveva quattro figli, tutti guerrieri, Runnar, Ottar, Bjolan e Olaf. Come dicevo gli uomini erano spesso assenti. Quando tornavano facevano grandi feste e si ubriacavano. Spesso le loro feste finivano in risse dove spaccavano tutto. Uomini e donne vivevano tutti insieme, non si capiva chi aveva moglie o figli e chi no. I bambini sembravano avere tanti padri e tante madri un po‘ come da noi in Africa. Anche le donne mi ricordavano l’Africa perché lavoravano molto ed erano sempre sorridenti. Poi però è arrivato il giorno in cui gli uomini sono tutti partiti e non sono più tornati. L’ho capito da come le donne hanno cominciato a guardarci in modo strano, diverso. Ma il mio primo pensiero, il nostro pensiero, è stato quello di prendere il controllo del villaggio e sottomettere le donne. Pensavamo non sarebbe stato difficile. A parte Herna che era molto alta o Freya che non solo era imponente ma anche robusta, tutte le altre apparivano facili da neutralizzare. L’unico uomo rimasto nel villaggio, il vecchio Petur, non avrebbe rappresentato un problema.
Abbiamo atteso qualche giorno e poi una sera abbiamo deciso di agire. Armati di corde e bastoni siamo penetrati a sorpresa nelle case ma qualcosa è andato storto. Osk, una giovane particolarmente sveglia ha percepito il pericolo e ha immediatamente dato l’allarme. I bambini hanno cominciato a piangere. Da un’altra casa, in un istante sono giunte Dragun e la sorella Freja – quella robusta – e quell’esercito di donne è parso moltiplicarsi in un istante, ingigantendosi come un’onda di fronte a noi. In un attimo siamo stati immobilizzati e legati. Amin, l’unico somalo del nostro gruppo, ha tentato la fuga ma è stato immediatamente catturato da due donne. E portato via. Di lui non si è saputo più nulla per alcuni giorni. Più avanti ho saputo che era stato abusato da quasi tutte le donne del villaggio. Quando è stato liberato pareva un cadavere, non stava in piedi. In quanto a noi da quel giorno è cominciato un nuovo periodo buio. Siamo tornati schiavi. E per molti giorni ci hanno tenuti prigionieri in una stalla buia dalla porta saldamente sbarrata. È stato molto difficile riconquistare la loro fiducia ma alla fine ci siamo riusciti, soprattutto grazie ai bambini che per tutto il tempo della nostra prigionia non hanno mai smesso di aiutarci facendoci visita ogni giorno e portandoci di nascosto piccoli doni, soprattutto cibo.
Noi ricambiavamo con delle piccole sculture di legno che Gendè creava utilizzando un punteruolo arrugginito e staccando pezzi di una trave del tetto. Ogni volta che consegnavamo una scultura ripetevamo il nome in bambara’, così SO’ (cavallo) diventava un modo di comunicare. I bambini si divertivano ma non solo, ripetevano e cercavano subito il corrispettivo nella loro lingua, quindi SO’ diventava HESTUR e anche noi con questo gioco un po’ alla volta siamo riusciti a farci capire. Ricordo un bambino molto simpatico e sveglio, si chiamava Bjartur.
Lui veniva spesso a trovarci e ci portava sempre delle cose buone che evidentemente prendeva a casa. Si trattava di cibo, carne secca, a volte latte di pecora. Lo aspettavamo come un salvatore. Gendè un giorno gli ha regalato un piccolo elefante di legno (SAMA) ma il piccolo Bjartur non sapeva cosa dire. Lui non aveva mai visto quel tipo di animale. Così era tornato a casa ripetendo ad alta voce “Sama… sama… sama“. Un altro giorno Gendè gli ha dato una riproduzione in legno di una automobile (MOBILI) e anche quella volta Bjartur non aveva risposto. Ma si capiva che quello strano “animale” gli era piaciuto. Il nostro gioco un giorno fu scoperto ma poiché aveva intenerito molto le donne del villaggio, fummo liberati. La pace purtroppo non durò a lungo.

Cosa è successo?
Una mattina sono apparse all’orizzonte molte navi e noi eravamo felici perché ci era stato detto che il ritorno degli uomini significava gioia e festeggiamenti. Mi sbagliavo. Osk, madre di Bjartur, che aveva il marito pescatore e quindi di navi ne sapeva, mi disse che non c’era nulla di cui gioire, anzi. Quelle all’orizzonte erano KNORR sconosciute, molto probabilmente nemiche. Ed era meglio mettersi in salvo. Entrarono nel villaggio urlanti, brandendo spade ed asce. Erano in tanti. Io con gli altri africani rimasi immobile dietro ad una parete di torba sperando di non essere scoperto ma fu una vana speranza. Ci trascinarono in mezzo al villaggio e ci picchiarono tutti con violenza. I bambini terrorizzati furono risparmiati ma le donne, tutte, eccetto Osk ed Herda, perché appartenenti al clan di Bjolfur e quelle incinta, furono violentate. Rimasi scioccato. Credevo di aver visto tutto il peggio in Libia, invece… Frances, nonostante gli avessi detto di non reagire, improvvisamente si alzò in piedi e affrontò uno dei guerrieri. Fu colpito alle spalle e alla testa, non fece neppure in tempo ad urlare. Il suo corpo rimase lì dove cadde per parecchi giorni, poi qualcuno, probabilmente una donna impietosita, lo seppellì. Non mi vergogno a dire che fino all’ultimo avrei voluto mettergli le mani nelle tasche e prendergli il telefono. Gli invasori parevano intenzionati a stabilirsi nel villaggio e noi fummo, per l’ennesima volta, schiavi. Due di noi, Enok e Seth, entrambi ghanesi, furono portati via. Li vedemmo per l’ultima volta mentre, legati, venivano fatti salire su una nave. Qualcuno ci disse che era stati venduti. Il clima nel villaggio era diventato molto pesante e triste nonostante gli uomini non perdessero occasione per festeggiare, mangiando e bevendo giorno e notte. Si trattava proprio di un’altra tribù anche se i vestiti e le abitudini erano simili. Il piccolo Bjartur girava in mezzo a quegli uomini vestiti di pelliccia e con le barbe lunghe e mostrava a tutti la sua automobile di legno ripetendo “MOBILI, MOBILI…” mi chiedevo che cosa ne sarebbe stato di lui. O di noi. Ormai riuscivo a capire la lingua e quindi a cogliere alcune delle frasi pronunciate dai nuovi arrivati. Il loro capo si chiamava Larus. E la sua intenzione era quella di conquistare tutta l’isola. Non immaginavo di essere su un isola. Quando lo scoprii mi sentii prigioniero e senza speranza.

In occasione del nostro primo incontro Lei mi ha detto che siete fuggiti. Come mai? Riesce a dirmi cosa è successo?
Voglio dire che né io né i miei compagni avevamo più pensato di scappare. Non sapevamo dove ci trovavamo, non avevamo modo di comunicare con nessuno veramente. All’inizio sì, era diverso. Poi ci siamo di nuovo adattati. Abbiamo avuto un periodo molto lungo di freddo, è caduta parecchia neve. Credevamo di non poter sopravvivere. Ci eravamo arresi. Ci avevano permesso di tornare ai nostri lavori. Ci stavamo adattando a quel posto. Ma ancora una volta sono intervenute le donne per salvarci.

In che senso?
Mah, è successo che quando i giorni hanno cominciato ad allungarsi tre donne, Iona, Inga e Freya hanno partorito. I loro bambini avevano la pelle scura e questa cosa ha fatto incazzare Larus e i suoi. Sono andati a prendere i bambini perché volevano eliminarli. Era intervenuto Amin, e aveva affrontato molto coraggiosamente quegli uomini invocando l’aiuto di Allah. E poi c’erano tutte le donne del villaggio. Osk aveva detto che Bjolfur, se fosse stato lì, avrebbe accettato quei bambini. Bjolfur, era evidentemente un guerriero di valore. I suoi nemici lo odiavano ma lo rispettavano. Per questo Larus aveva fatto dietro front. E una nuova carneficina fu risparmiata. Questo evento però non è bastato a calmare gli animi. Noi africani abbiamo dovuto cominciare a guardarci le spalle. Certo non potevamo più permetterci di fermarci a parlare con le donne come un tempo senza che qualcuno tra gli uomini non cominciasse e protestare. È stato lì che ha preso di nuovo forma il desiderio di lasciare tutto, di fuggire. E Osk, anche questa volta, ha capito in anticipo e ha voluto aiutarci. Raccontandomi di una maga. Si chiamava Rannveig, era della della tribù dei Sami e viveva in una grotta non lontano dal villaggio, nella valle delle dieci cascate. Solo lei – mi aveva detto Osk – avrebbe potuto aiutarci a fuggire. Un giorno, con la complicità di Osk, nascosto in un carro, sono riuscito ad uscire dal villaggio e a raggiungere la maga. Poche volte mi sono sentito a casa come quando ho incontrato quella donna. Prima di tutto perché era scura di pelle e anche i suoi occhi erano neri come i miei. L’età era indefinibile, però era proprio diversa dalle altre donne di qui, molto più piccola e magra. Mi aveva accolto abbracciandomi e dicendomi “vieni, piccolino mio“. Il posto dove abitava era molto buio e spoglio. Ricordo di aver visto i resti di un fuoco, delle pelli accatastate, un tamburo.
Quella donna mi fece ricordare una maga di Gao dove mio padre mi portava da bambino tutte le volte che ero malato. Mi sentivo stranamente a casa in quella grotta. In un modo molto simile a quando si andava dalla maga africana anche con Rannveig non erano necessarie molte parole. Lei sembrava sapere già tutto. Mi aveva fatto sedere di fronte a lei e con un bastone di osso bianco aveva tracciato dei segni sulla sabbia nera, annuendo tutta compiaciuta. Poi guardandomi con i suoi occhi scuri mi aveva detto che eravamo stati molto coraggiosi ma ora gli antenati dicevano di tornare. Lei ci avrebbe aiutati. E mi aveva indicato una roccia a forma di testa di corvo lungo il lato destro del fiordo. Lì avrei trovato una imbarcazione pronta per partire e tutto il necessario per la traversata. Tentai di obbiettare impaurito dalla prospettiva di un viaggio verso l’ignoto, ma lei, immobile, non smettendo un attimo di guardarmi mi aveva detto: “Non hai nulla da temere, io sarò con te. Tu sei il predestinato“.
Non capii veramente il senso di quella risposta ma sentii che non avevo scelta, quello era il mio destino. Mi congedai dalla maga Rannveig e lei nell’abbracciarmi mi disse ancora: “La luce verde. Piccolino, ricordati della luce verde“. Tornai al villaggio indeciso se essere felice o angosciato e informai i miei compagni che invece furono subito entusiasti e cominciarono ad organizzare i preparativi per la partenza. “Africa vince sempre“, aveva urlato Bakary. “Allah è grande” avevo detto io anche se un presentimento terribile cominciava a farsi spazio dentro di me. Partimmo due giorni dopo. Era una notte senza stelle. Sulla riva vennero in molte donne a salutarci e con mia grande sorpresa vidi tra loro Amin che all’ultimo aveva deciso di rimanere, di stare con i suoi figli. Fu un saluto straziante.

Quanto è durata la traversata? E poi cosa successe?
Difficile dirlo. Ricordo che per tre o quattro giorni il tempo si è mantenuto e abbiamo potuto remare nella giusta direzione seguendo il sole e le stelle ma poi è calata una nebbia fitta e ci siamo trovati completamente disorientati, smarriti. Mi sembrava di rivivere il viaggio di andata. E nonostante tutto abbiamo continuato a remare senza sosta. Alla fine eravamo stremati. Avvolti da una luce bluastra, irreale, siamo rimasti distesi nello scafo cercando di riscaldarci con le pellicce. Il freddo era terribile. Maledii la strega. Nonostante le sue rassicurazioni di lei non c’era segno ed io mi sentivo tradito. Le riserve di cibo erano quasi finite, saremmo morti tutti ne ero certo. Caddi indietro semisvenuto. Quando rinvenni udii un canto e vidi i miei compagni intorno a me. Avevano iniziato a cantare un canto della mia terra. C’era qualcosa di strano però, vidi Bakary, Gendè, Tourè e gli altri in realtà il gruppo era più numeroso. Mi accorsi allora che a bordo c’erano anche i compagni scomparsi, tutti quelli che erano morti durante la traversata in quella notte maledetta. Sì… sì… c’erano tutti. Senè, Dabou, Suley, Sekinat, Kadijia, Isatu… erano tutti vivi e c’erano anche i loro bambini. Un canto possente si alzava verso il cielo. A quel punto non c’erano più dubbi, la morte era vicina. Fu allora che ci fu uno squarcio nel cielo e la nebbia in alcuni punti iniziò a diradarsi. Un vento improvviso in pochi minuti liberò ampi tratti di cielo e lassù nel nero punteggiato di stelle vidi qualcosa che non avevo mai visto: fasci di luce verde luminescente si muovevano come se danzassero. Rimanemmo tutti come increduli a guardare. Anche il canto si fermò. In compenso un vento impetuoso sollevò la barca verso l’alto come se un onda gigantesca l’avesse colpita da sotto. Cercai disperatamente di aggrapparmi a qualcosa ma venni catapultato verso la chiglia dove picchiai con violenza la testa svenendo all’istante. Quando mi svegliai la prima cosa che vidi fu il volto Larus, il capo degli invasori e pensai ecco, questo è peggio di morire, ci hanno catturati e ci hanno riportati al villaggio. Ma Larus era vestito stranamente in modo diverso, aveva anche un cappello bianco con la visiera, e nel rivolgermi la parola mi disse: “Est ce que tu parles français? Comment tu t’appelles?” Stavo per rispondere: “Je m’appelle Mamadou, je suis m...” quando alle sue spalle comparve una donna identica ad Osk, anche lei con una strana divisa e continuava a guardarmi parlando contemporaneamente al telefono. Ecco, fu lì che capii che era successo qualcosa di eccezionale, mi guardai intorno e vidi l’interno della nave che ci aveva soccorso, era piena di persone. Al mio fianco c’erano i miei compagni ma erano immobili, mentre l’uomo con la faccia di Larus mi sorrideva amichevolmente e mi ripeteva “Mamadou… Mamadou…

Ritornare al futuro è possibile? Le considerazioni di un antropologo

L’incredibile vicenda dei profughi africani recuperati dalla guardia costiera norvegese può essere compresa solo se contestualizzata, facendo riferimento cioè alle pratiche sciamaniche presenti da sempre nelle società tribali. Esperienze quali il superamento dei limiti fisici e psichici attraverso l’uso di sostanza psicotropiche o veri e propri viaggi nel tempo sono cosa tutt’altro che rara in contesti magico-religiosi tramandati da tradizioni secolari.

Il caso di Mamadou spicca comunque nella sua eccezionalità per il contesto originale in cui si è svolto, la ricchezza di dettagli e l’attendibilità dei fatti. Nessuno avrebbe immaginato che un gruppo di uomini africani dei nostri tempi sarebbe mai potuto entrare in contatto con i rappresentanti di una cultura storica europea da tempo ritenuta scomparsa.

Ogni uomo in migrazione porta con se l’essenza della sua terra di origine” scriveva l’antropologo francese Philip Mauss. Il rilievi scientifici ed i riscontri archeologici con la datazione al carbonio 14 degli oggetti ritrovati, insieme alla testimonianza diretta dell’unico sopravvissuto non lasciano dubbi, siamo di fronte a qualcosa di estremamente importante, una vera sfida per la concezione razionale e meccanicistica dell’uomo occidentale. Che riaccende tra gli studiosi anche il dibattito sul significato simbolico e sociologico degli eventi storici recenti, in particolare il fenomeno dei flussi migratori tra il sud ed il nord del mondo.
(Runnar Sommersson, Antropologo e Professore di Storia Antica Islandese presso l’Università di Reykjavik).