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Quando l’umanitario è complice

La Croce Rossa manda una testimonianza. Che non si può fare a meno di commentare

La redazione di Melting Pot ha di recente ricevuto una lettera in cui viene proposta per la pubblicazione una “testimonianza autentica di una operatrice della croce Rossa che è stata in prima linea a vivere la migrazione”.
Nella stessa lettera viene spiegato che la Croce Rossa è attiva sull’isola di Lampedusa all’interno di un progetto che si chiama “Praesidium III – Solidariety in action”.
Il progetto in questione sarebbe “inteso a rafforzare la capacità di risposta dell’Italia a fronte degli imprevedibili flussi migratori provenienti dai paesi africani (…) e che vengono temporaneamente accolti nel Centro locale”. Ciò avviene perché il ministero dell’interno ha chiesto ad agenzie umanitarie come l’Oim, l’Acnur e la Cri “di monitorare e sostenere il potenziamento delle capacità ricettive a Lampedusa”.
Viene poi citata la Commissione De Mistura e il suo giudizio positivo sulle avviate pratiche di collaborazione di questa triade di ‘assistenza’ ai migranti.
Detto questo si allega la testimonianza di una donna che “racconta le sue grandi emozioni di un problema vero” e si chiede quindi alla redazione di pubblicarla.

In realtà non è la prima volta che una simile testimonianza perviene allo stesso indirizzo della redazione di Melting Pot accompagnata dalla medesima richiesta. La prima volta si era scelto di ignorarla, ma adesso è forse arrivato il momento di rendere pubblica l’intera questione.
Premettiamo che abbiamo scelto di pubblicare questa ‘testimonianza’ in allegato perché chi legge possa farsi liberamente un’idea di quanto vi è scritto.

Si tratta del racconto di un’infermiera volontaria della Croce Rossa italiana che ha prestato servizio a Lampedusa e ha scritto su questa esperienza una sorta di report dal titolo “Sguardi…incontri…partenze”.

Di fronte a queste sei pagine riempite di punti esclamativi, puntini di sospensione ed espressioni ridondanti, sorgono innanzitutto dei dubbi.
Il primo è che si tratti di un’ operazione mediatica della Croce Rossa Italiana e che, qualora esista davvero la signora firmataria delle pagine in questione, essa si sia limitata semplicemente a prestare il proprio nome per la diffusione di questo racconto romanzato.
La seconda ipotesi è che questa Signora non solo esista davvero ma abbia anche scritto di suo pugno questa testimonianza. in tal caso bisognerebbe seriamente interrogarsi sul livello di informazione e di formazione fornita agli operatori della Croce Rossa dalla struttura per cui lavorano, e consigliare alla Signora di analizzare più profondamente le esperienze che ha vissuto al di là delle retoriche e delle commozioni.

Ma andiamo con ordine. Nel primo caso, se cioè si trattasse di un’operazione ‘dall’alto’ della Croce Rossa, l’intera faccenda andrebbe liquidata semplicemente dicendo che è vergognosa.
Si tratta forse di coscienza sporca? Di ricerca di legittimazione? Di bisogno di confondere le idee della gente per nascondere le reali connivenze della suddetta struttura con le pratiche di gestione delle migrazioni e del suo sconsiderato guadagno ottenuto quotidianamente sulla pelle dei migranti?
Ricordiamo in proposito che la Croce Rossa Italiana è sempre stata, fin dalla loro istituzione, uno dei maggiori gestori dei Centri di Permanenza temporanea italiani, il cui orrore strutturale è emerso in infinite testimonianze, report, inchieste, e il cui abominio giuridico è sotto gli occhi di chiunque voglia vederlo.
Parliamo di luoghi di concentramento e smistamento dei migranti, galere etniche funzionali al sistema economico che richiede la clandestinizzazione di milioni di persone, filtri che marchiano a fuoco la condizione di irregolarità di ciascun migrante per poterlo sfruttare nelle società alle condizioni richieste dal mercato e dalla politica.
All’interno dei Centri di Permanenza Tempotranea si verificano ogni giorno rivolte e tentativi di fuga sedate con le peggiori pratiche repressive e, non di rado, le persone detenute decidono di togliersi la vita pur di non trascorrere al loro interno un minuto di più o di non subire le deportazioni di cui a volte questi posti sono il preludio.
Le associazioni che accettano di gestire i Cpt lucrandoci sopra diventano inevitabilmente complici di questo sistema di cose. I loro operatori potranno restare sullo sfondo, far finta di non vedere e non sentire, oppure partecipare attivamente, ad esempio a pratiche di deportazione (come è successo proprio a Lampedusa nel 2004 e nel 2005 con la Misericordia. 1 ).
In ogni caso, la loro opera umanitaria servirà a legittimare pratiche di razzismo di stato mascherate sotto i nomi del soccorso e dell’accoglienza.

Nel 2004, la Croce Rossa Italiana ha guadagnato le seguenti cifre per gestire i Cpt qui elencati:

Euro 4.212.136,50, all’anno, esclusa la convenzione pasti, per il Cpt di Bologna.

Euro 5.822.880,00, esclusa la convenzione pasti, per il Cpt di Ponte Galeria, Roma.

Euro 7.246.932,00 per il Cpt di Corelli, Milano.

Euro 3.910.200,00, per il Cpt di Torino.

Ricordiamo che associazioni come la Caritas, dallo scopo altrettanto umanitario si sono sempre rifiutate, invece, di gestire la detenzione amministrativa. Nel numero 4 del 2004 della “Rivista del volontariato” si trova un’inchiesta che si interroga proprio riguardo a queste differenti scelte.
Ne riportiamo un breve passo cominciando proprio con le parole del direttore della Caritas:

“Noi abbiamo sempre mostrato contrarietà, anche quando era in atto l’elaborazione della legge Turco Napolitano nel 1998”, afferma il direttore della Caritas Italiana, don Vittorio Nozza. “E la stessa contrarietà l’abbiamo ribadita nel momento in cui il nuovo disegno di legge è andato a regolare questa situazione”. Infatti, nei centri di permanenza temporanea, don Vittorio Nozza non riesce a vederci proprio nulla di utile. “Facciamo molta fatica a vedere la bontà di questo tipo di luoghi di accoglienza. Sappiamo che c’è bisogno di avere sul territorio luoghi di immediata e temporanea permanenza, ma non nei termini in cui sono in atto”. E la critica si fonda su una duplice ragione: “Siamo contrari sia perché c’è il rischio – e non soltanto il rischio – che questo tipo di accoglienza sia la premessa a facili espulsioni, sia perché la gestione manifesta ogni volta un sacco di limiti proprio per il carattere di tipo contenitivo che non permette di conoscere le storie e di capirle per bene, cioè di verificarle e di arrivare poi alle decisioni”.

Poche righe dopo arrivano invece le affermazioni del dottor Giovanni Mazzotti docente alla facoltà di Medicina dell’Università di Bologna e commissario del comitato provinciale della Croce Rossa:

(…)”I bilanci su questi centri non si possono fare da un punto di vista strettamente economico”, esordisce. “E semmai ci fosse anche un minimo guadagno questo deve essere reinvestito nel centro per dare più servizi agli ospiti. Ci mancherebbe solo che un ente morale come la Croce Rossa si mettesse a speculare su disgrazie di questo genere“. Sulle ragioni che hanno spinto la Croce Rossa ad assumere la gestione di così tanti centri di permanenza sparsi per l’Italia, il dottor Mazzotti precisa: “Il principio della Croce Rossa è non esprimere alcun parere sulle situazioni in cui opera. Si tratta del principio di neutralità, per cui la Croce Rossa non avanza critiche, pur di poter portare soccorso a chi ha bisogno di aiuto”. E quando gli viene obiettato che soccorrere non vuol dire gestire, il commissario generale porta il caso della città di Bologna: “A Bologna ci è stato chiesto di gestire il cpta, anche se non ci è stato imposto. E noi ci siamo chiesti se dovessimo entrare o meno, se fosse corretto o meno. Così io e altri siamo andati a visitare altri centri presenti in Italia e abbiamo visto delle realtà e delle condizioni di gestione talmente difficili da un punto di vista umano, che alla fine la nostra risposta è stata: se c’è bisogno che qualcuno assista quelle persone noi come Croce Rossa non possiamo tirarci indietro. Insomma, non abbiamo chiesto noi di entrare, ci è stato chiesto e noi abbiamo dato la nostra disponibilità, che è diverso dal dire che siamo noi a voler entrare”. In sintesi, il senso è che siccome i centri esistono, allora è meglio che li gestisca la Croce Rossa, i cui operatori e volontari hanno una formazione più adatta a fronteggiare realtà di questo tipo rispetto a un qualsiasi agente di polizia.
Eppure la Croce Rossa è stata criticata dai Medici senza Frontiere non solo – o non tanto – per le questioni di principio, cioè per la sua disponibilità a gestire direttamente i centri.

Sono proprio principi di neutralità come quello esplicitato dalla Croce Rossa che rendono possibili pratiche di normalizzazione del concentramento ad opera dell’umanitario.
Come se il problema dei Cpt fosse avere qualche interprete in più o dei fiorellini alle finestre.
Come se, tirarne fuori di tanto in tanto qualche minorenne o qualche rifugiato ex Convenzione di Ginevra, risolvesse il problema della condizione dei migranti in Europa per come è continuamente ridefinita dai governi e dalle economie europee a seconda delle loro convenienze.

Riprendendo le parole di Bauman, quando commenta il testo che Agier ha dedicato al suo studio sui campi per rifugiati , appare lecito chiedersi “se l’operatore umanitario non sia un ‘agente dell’esclusione a minor costo’ e – cosa ancora più importante – un dispositivo ideato per scaricare e placare le ansie del resto del mondo, per assolvere i colpevoli e sedare gli scrupoli, oltre che per disinnescare il senso di urgenza e il timore della contingenza”.
Pensiamo, per fare subito un esempio concreto e restare in materia di migrazioni, anche alla copertura ‘umanitaria’ offerta dall’Iom (in italiano Oim, Organizzazione Internazionale Migrazioni,) nella gestione e nel controllo dei movimenti migratori nel mondo. Questo ente intergovernativo, anch’esso coinvolto nell’operazione Praesidium a Lampedusa, mascherando le espulsioni dietro la dicitura di ‘rimpatri volontari’, e dichiarando di lavorare a servizio di una ‘migrazione ordinata’, svolge in realtà mansioni correlate alle richieste degli Stati favorendo molto più le istanze governative che la tutela dei diritti dei migranti. Al contempo, però, la mediatizzazione del suo operato rassicura l’opinione pubblica sul fatto che queste espulsioni avvengano “in respect of each migrant’s story and itinerary ”.
In questo modo, continua ancora Bauman, “mettere i rifugiati nelle mani degli ‘operatori umanitari’ (e chiudere gli occhi davanti alle guardie armate che stanno sullo sfondo) sembra il modo ideale di conciliare l’inconciliabile: il desiderio irresistibile di disfarsi dei rifiuti umani nocivi e, al tempo stesso, di gratificare il proprio cocente desiderio di rettitudine morale2. ”.

Il fatto che la ‘normalizzazione’ dei centri di detenzione per migranti stia avvenendo grazie anche all’espansione del modello ‘umanitario’ all’interno di questo tipo di confinamento, segnala poi un aspetto di continuità con i campi del passato e soprattutto con la loro origine coloniale, quando il pretesto ufficiale della loro creazione era il mettere in salvo dai combattimenti la popolazione non belligerante.
Anche rispetto ai campi totalitari, però, se ciò che ritorna è non certo il dato estremo di quel ‘far morire’ che ha portato allo sterminio di milioni di persone al loro interno, si può comunque rintracciare un comune filo conduttore nel discorso in qualche modo ‘umanitario’ che si è costruito intorno agli internati.
Il fatto che un orizzonte esclusivamente umanitario si apra per le persone che non hanno altre prospettive da cui partire per rivendicare dei diritti è, infatti, una realtà che lega, pur con le dovute differenze, la maggior parte degli individui soggetti al tipo di confinamento amministrativo di cui stiamo parlando e, in generale, tutte le donne e tutti gli uomini che vengono in qualche modo confinati al di fuori, o ai margini, o negli interstizi di quello che è il diritto ufficiale.
Scrive Brossat, affrontando il nodo cruciale che collega l’umanitarismo al totalitarismo, che “l’umanitario non parla tanto di umanità e non agisce tanto a nome dell’umanità se non nella misura in cui, precisamente, esercita i suoi talenti riparatori su corpi radicalmente e irrimediabilmente disumanizzati3

In questo senso, molte associazioni per così dire umanitarie hanno accumulato negli anni pesanti responsabilità nei confronti dei soggetti che hanno ‘preso in carico’. In questo senso, da Lampedusa a Gradisca d’Isonzo (Cpt legati ora da una simile gestione ad opera di cooperative sociali, di cosiddette ‘cooperative rosse’), non se ne può più, in Italia (ma non solo), di rilevare pratiche e retoriche di Normalizzazione del concentramento.

E Associazioni come la Croce Rossa Italiana, piuttosto che mandare in giro testimonianze che parlano dei ‘poveri clandestini’ – sarebbe forse meglio allora mantenere fino in fondo il comodo ‘principio di neutralità’ e tacere – dovrebbero fare un esame di coscienza e assumersi le proprie responsabilità.

E se ci trovassimo invece di fronte ad un’iniziativa personale della signora infermiera volontaria della Croce Rossa che di suo pugno ha scritto queste sei pagine? cosa dirle se non di documentarsi maggiormente invece di commuoversi?

Signora, quei ‘clandestini’, come lei li chiama ripetutamente, non arrivano a Lampedusa per scelta e non se ne vanno dall’isola perché vengono portati a fare le ferie.
La gente arriva per mare sfidando la morte perché le leggi prodotte dai governi europei non lasciano possibilità di ingresso regolare (altrimenti arriverebbe in ben altro modo e con tutte le migliaia di euro spese per il viaggio ancora in tasca e pronte a fruttare per progettarsi un piccolo futuro).
Le persone che Lei ha visto ammassate sulla banchina del porto, quelle che hanno lasciato i parenti a casa e hanno visto morire i loro compagni di viaggio, Lei le incontra perché serve che le immagini degli sbarchi continuino ad integrare un immaginario di invasione che susciti allarmismo e paura tali da giustificare nell’opinione pubblica le attuali politiche migratorie.
La gente di cui parla, quelle persone di cui ha incontrato gli sguardi, quel bambino di 50 giorni che viaggiava da solo, sono costrette a rischiare la vita da un sistema che anche Lei, Signora, contribuisce in qualche modo a fare funzionare.
Le partenze di cui racconta sono vere e proprie deportazioni, il centro di primo soccorso in cui Lei presta servizio è una galera che detiene la gente innocente per il colore o la nazionalità che ha.
E anche se Lei è stata gentile con loro, ha solo contribuito a nascondere la verità di un sistema spietato.
Come si saranno sentite tutte quelle persone ripensando ai Suoi sorrisi, quando avranno cominciato a passare da un Cpt all’altro, da uno sfruttatore all’altro?
E, francamente, il fatto che questi incontri L’abbiano cambiata, come dice Lei, e Le abbiano ‘lasciato tanto’, vale veramente ben poco. Vale nulla.

  1. A tal proposito rinviamo al video “vi chiediamo di esser pazienti” della Rete antirazzista siciliana, disponibile sul sito www.inventati.org/zetalab alla sezione video
  2. Bauman, Z., Vite di scarto (2004), Laterza, Roma-Bari 2007, p. 96
  3. Brossat, A. L’éprouve du désastre- Le siecle XX et les camps, Albin Michel, Paris 1996, p. 105.