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Quando la gente muore dal dolore

Lucila Rodríguez-Alarcón, El País - 18 aprile 2017

Photo credit: Antonio Trives

traduzione di Roberta Zenere

In Grecia la gente sta morendo di dolore. Non me lo sto inventando, me l’ha raccontanto un mio amico, il giornalista Antonio Trives, che ha vissuto laggiù per tre mesi. Antonio è andato in Grecia a documentare la situazione dei rifugiati e dei migranti per conto della nostra fondazione, porCausa. In questi mesi ha collaborato con volontari indipendenti e raccolto le storie delle persone assistite. Ci sono centinaia di migliaia di rifugiati e migranti bloccati in uno spazio senza legge né speranza, un non-luogo istituito all’interno del territorio greco. La gente inizia ad essere disperata. Sono arrivati in Grecia pensando di potersi rifare una vita, lì o in uno degli altri paesi dell’Unione Europea. Hanno speso tutti i loro risparmi e in Grecia hanno rilevato loro le impronte digitali, così ora non possono andare in nessun altro paese dell’Unione e non hanno neanche il denaro sufficiente per tornare in Siria, dove in molti preferirebbero tornare per morire vicino ai loro cari piuttosto che morire dal dolore, letteralmente, dove si trovano adesso.

In Grecia non li lasciano lavorare. Molti vivono nei campi profughi. Quei campi profughi pagati con fondi dell’Unione Europea o con quelle risorse che molte persone di buona volontà forniscono alle ONG o alle agenzie dell’ONU che, in teoria, lavorano nei campi. Nei campi non c’è nulla da fare. Lo spiega egregiamente il documentario di Julieta Cherep, La niña bonita: qui quello che non ci manca è il tempo. Non aver niente da fare è deprimente. Negli studi sulla disoccupazione di lunga durata, il ‘non avere nulla da fare’ è uno dei temi più ricorrenti e una delle cause principali di depressione. E non si tratta di non voler far niente, ma del fatto che non gli è permesso fare niente. Nessun rifugiato, rifugiata o migrante è venuto in Europa per vivere di carità. Davvero possiamo arrivare a pensare che tutta quella gente, che si è esposta a rischi inimmaginabili e che ha affrontato la morte più di una volta, l’ha fatto per finire rinchiusa in un campo a vivere della beneficenza altrui?

Molti campi sono orribili, architettonicamente parlando. La mia amica architetto, Lucia Gutièrrez, mi ha spiegato come, in molti casi, si stia utilizzando un’architettura disumanizzante che molto ha in comune con le carceri o con i sistemi di stoccaggio delle merci. Un’architettura perversa. Trives è stato in un campo interamente costruito con containers di acciaio. Come si può creare una comunità in un villaggio costruito con containers di acciaio? La gente fa miracoli con ciò che trova, mostrando una forza e una speranza titaniche. Un pezzo di coperta per allargare lo spazio, una pentola rotta per mettervi della brace e accendere un piccolo fuoco, un fusto d’acciaio corroso come cucina.

In Grecia rifugiati e migranti muoiono di dolore. Si uccidono dal dolore. Si, avete letto bene. Si uccidono. Si stanno suicidando. L’altro giorno nel campo di Chios, in Grecia, uno di loro si è dato fuoco. Ci sono anche quelli che si uccidono con una droga chiamata Shisha, conosciuta anche come “l’ammazza-poveri”. E’ molto economica e uccide nel giro di sei mesi. Qui è una morte che accomuna i rifugiati a quei greci disperati che vivono una situazione di precarietà tale che non possiamo neanche lontanamente immaginare. La globalizzazione del dolore e della disperazione, davanti a questo sì, siamo tutti uguali.

La cosa grave di tutto ciò che sto raccontando qui è che c’è una soluzione, perchè non si tratta di un problema piovuto dal cielo. Si tratta del risultato di una serie di politiche migratorie irrazionali, reazionarie e prive di senso. Stiamo investendo miliardi di euro all’anno per gestire la questione dei rifugiati e dei migranti. Miliardi, sul serio. Sono i dati ufficiali dell’Unione Europea, analizzati dal prestigioso think tank O.D.I. (Overseas Development Institute), dove si parla di un investimento di 17.000 milioni in tre anni, tanto per iniziare. Riuscite ad immaginare cosa si può fare con 17.000 milioni di euro? Bene, quello che stiamo facendo con questi soldi è uccidere persone.

Le uccidiamo in differita, questo sì, nessuna goccia di sangue sulle nostre mani. Le uccidono i libici, per esempio, nei campi gestiti con questi fondi, e questi sono dati ufficiali dell’Ambasciata Tedesca in Niger. Le uccidiamo di dolore. Le uccidiamo attraverso una solidarietà male interpretata, che invia coperte e tanti soldi ma lascia molta gente nei campi profughi, senza nulla da fare. Le uccidiamo quando dai nostri governi non esigiamo spiegazioni sulla gestione del nostro denaro e quando non esigiamo, da quelle ONG in cui abbiamo riposto le nostre speranze, di unirsi un un unico grido di protesta, non appelli individuali, ma una sola protesta che reclami un altro modello migratorio, che sia umano e rispettoso dei diritti dell’uomo.