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di Lorenza Pleuteri

“Qui è peggio che stare in galera”, così si vive nel Cie di Bologna

Reportage di Repubblica.it del 28 febbraio 2012

Gloria ha gli occhi pieni di lacrime trattenute, la voce che si spezza. E la paura, nello sguardo. “Ho il terrore che mi rimandino in Nigeria. Non potrei curarmi. Mi lascerebbero morire, in fretta. Ma anche in questo posto non resisto: ho l’Aids e un fibroma, sono obesa e anemica, la tiroide non funziona bene”. Fadila, invece, non riesce a tenersi. Piange, senza freni. Rischiava che la rispedissero nella terra dove non ha più nulla e più nessuno, in quella che era l’ex Jugoslavia. Tornerà nell’accampamento di Roma dove vivono i genitori, con la speranza di poter vedere i figli che le sono stati tolti ed essere dichiarata apolide.

“Il giudice – racconta Fadila – ha deciso di non prorogare il mio trattenimento. Ho fatto sei mesi di fila, dentro. Potevo arrivare a un anno e mezzo. Non ho i documenti, non li ho mai avuti né li potrò avere. Ma sono in Italia da quando ho 10 anni”.

Video:
Tra i dannati del Cie di Bologna di Rosario di Raimondo e Lorenza Pleuteri

Lacrime disperate e lacrime di gioia. Sbarre e telecamere. Cancelli chiusi a chiave. Turche d’acciaio. Cellulari con gli obiettivi accecati, “per ragioni di sicurezza”. Finestre schermate con fogli di giornale, perché non ci sono tende o persiane, la luce comincerebbe a filtrare all’alba e toglierebbe il sonno e quel poco di intimità che resta. Psicofarmaci che vanno via come il pane. E rabbia compressa
e repressa, dichiarata. “Avremmo voglia di spaccare tutto – sono parole di molti – perché tutto ci hanno tolto. La libertà, la dignità, i sogni. Non abbiamo più nulla da perdere”.

Via Mattei 60, periferia non solo geografica della città, Centro di identificazione ed espulsione. E’ l’ex caserma dell’aeronautica in cui vengono rinchiusi gli stranieri clandestini o irregolari, per un periodo che può arrivare fino a 18 mesi e finire con l’espulsione coatta, la liberazione o eterni ritorni. Ha 85 posti letto, parallelepipedi di cemento con sopra materassi di gommapiuma, lenzuola di carta usa e getta, coperte da mercatone. Conta 50 presenti nei blocchi della sezione maschile e 18 donne al reparto femminile, compresa Fadila, in partenza coi suoi quattro stracci.

Il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ha tolto il veto messo dal suo predecessore, il leghista Roberto Maroni. I giornalisti, dopo una lunga trafila burocratica e con permessi zeppi di limitazioni, possono entrare, domandare, fotografare. Passa una delegazione di visitatori, capitanata dalla parlamentare Pd Sandra Zampa e da Roberto Morgantini, volontario ed ex responsabile dell’ufficio stranieri Cgil. Ciascuno ha un problema da denunciare, un aiuto da chiedere, storie che graffiano il cuore. “Io sono favorevolissima all’ingresso di osservatori – ripete Anna Lombardo, direttrice della struttura, gestita dalla Misericordia – perché non ho nulla da nascondere o da censurare. Anzi. Mi piacerebbe che, prima di criticare e contestare, si vedesse come lavoriamo. Altro che kapò. I giudizi negativi cambierebbero”.

Gli “ospiti”, come vengono definiti, a dispetto di gabbie e chiavistelli, sono una babele di vissuti, lingue, esigenze. Hanno percorsi e bisogni diversi. Finiscono nelle stesse camerate, zero privacy, la convivenza forzata che può stremare. “L’inferno dei disperati”, riassume Zampa, preoccupata per i tagli di budget che incideranno anche sui Cie.

Le giovani nigeriane vittime della tratta accanto a una parrucchiera, una corona del rosario attorcigliata attorno al polso, e a una badante, Mary, presa a Brescia, otto mesi di “trattenimento”. Tossici in cura con il metadone a scalare e balordi cui da fuori, non è un segreto, gli amici lanciano dosi di droga. Spacciatori a fianco di ragazzi colpevoli di niente e profughi richiedenti asilo. Persone arrivate dal carcere ed altre rastrellate per strada.
Per ogni “ospite” la Misericordia incassa 69,50 euro al giorno, per l’alloggio, il vitto portato dall’esterno e bocciato dai presenti, assistenza medica e infermieristica, sostegno psicologico e sociale, mediazione culturale, un kit di primo ingresso. Dalla cifra resta fuori la quota-parte di utenze e manutenzione, a carico della Prefettura. E non entrano nel computo gli stipendi dei poliziotti di guardia e dei militari in mimetica e camionetta, manco fosse Guantanamo.

“Chi è libero non può capire che cosa significhi essere tenuti prigionieri e senza aver commesso reati – si sfoga Acnandi, 21 anni, tunisino -. Non la chiamano galera. Ma via Mattei è peggio della Dozza (il carcere di Bologna, ndr), lo dico io che ci ho fatto dieci mesi. Butti via la vita. Mangi, stai in branda, guardi la tv, dormi. C’è la scuola di italiano, una volta la settimana. Ci sono la biblioteca e un campo da calcetto. Null’altro”. Lo sportello legale è stato chiuso, i laboratorio di pittura finanziati dal Comune non esistono più.
“In carcere conosci la data di uscita. Al Cie non sai per quanto tempo resterai né dove ti manderanno dopo, in un’attesa che distrugge, logora, fa diventare cattivi. Rischi di impazzire”.

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