Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 6 giugno 2006

Rabbia e abbandono tra gli schiavi di Cassibile

Un incendio distrugge parte dell'accampamento dei lavoratori immigrati stagionali nel siracusano.

Massimo Giannetti

Cassibile (Siracusa) – Ha rischiato di essere il finale tragico di una stagione da cani. Ma l’incendio che domenica pomeriggio ha semidistrutto l’accampamento degli schiavi per fortuna non ha provocato vittime. Le cause non sono state ancora accertate: c’è chi parla di incendio doloso e chi sostiene invece che sia stato accidentale. I pompieri sono convinti che sia partito fuori dal campo mentre i carabinieri sostengono il contrario. L’unica cosa certa è che il fuoco è arrivato nel momento in cui Cassibile (frazione di Siracusa), o almeno una parte di essa, ha raggiunto il massimo dell’insofferenza nei confronti di quei morti di fame che si aggirano nel paese «rendendolo invivibile». «E’ meglio pensare che si sia trattato di una fatalità che di altro – dice padre Carlo D’Antoni trattenendo a stento la rabbia mentre aiuta gli immigrati a risistemare le tende nel terreno che ancora puzza di bruciato -. Io non ho prove per accusare nessuno. So soltanto che a Cassibile tutto va contro questi poveracci, sfruttati dai padroni nei campi di lavoro e costretti a vivere come bestie in questo accampamento. Per le istituzioni non esistono. Ieri, mentre qui c’era il panico con il vento che ingigantiva le fiamme, l’amministrazione comunale fingeva di non saperne niente. Si è fatta vedere soltanto alle 22, cinque ore dopo l’inizio dell’incendio e dopo decine di telefonate e richieste di soccorso».

Il comune di Siracusa e la protezione civile per la verità non si sono impietosite più di tanto: hanno portano appena qualche coperta per i 60 immigrati rimasti senza più indumenti e ai quali le fiamme hanno divorato anche i pochi risparmi che avevano nascosto sotto gli alberi trasformati in capanne. Le tende per passare la notte le ha invece fornite l’associazione francese Medici senza Frontiere, che nel ghetto di Cassibile – una vallata di macchia e uliveti incolti alle porte del paese – il mese scorso ha impiantato un ambulatorio e altri servizi che hanno reso le giornate di 300 stagionali un po’ meno disumane di come le trascorrono nelle campagne dove raccolgono patate dall’alba al tramonto.

Arano la terra con le mani. Più ne scavano e più guadagnano punteggi, più cassette riempiono più possibilità hanno di lavorare il giorno dopo. E’ la legge dei negrieri, dei cinque o sei grandi imprenditori del siracusano che ogni anno di questi tempi fanno fortuna con le braccia degli immigrati, meglio se clandestini. A Cassibile e dintorni li conoscono tutti ma non compaiono mai. Il lavoro sporco lo fanno fare ai caporali, tre quattro persone, anche loro straniere, che tutte le mattine, tra le 4 e le 5 si appostano nella piazza principale del paese e selezionano i braccianti da spremere nei campi. Scrutano prima le loro condizioni fisiche, le loro origini e poi strizzano l’occhio ai «fortunati» del giorno, quindi li caricano sui furgoni. Hanno un budget di 50 euro per ogni persona che reclutano, ma un terzo se lo trattengono per l’intermediazione. E questo fa arrabbiare non poco gli operai. «Il problema più grosso per me non è vivere sotto questa capanna – dice Asan, 25 anni, marocchino – ma il comportamento dei caporali, che ci rubano 15 euro al giorno. Non è giusto: noi ci spezziamo la schiena dalla mattina alla sera e loro si prendono i soldi del nostro lavoro».

Sui campi sono controllati a vista e guai a dare segni di stanchezza: «Dobbiamo lavorare sempre con due mani e le gambe tese perché se le pieghiamo ci dicono che perdiamo tempo», denuncia Osam, 35 anni che viene dal Sudan. «Passiamo mediamente sette otto ore con la schiena curvata e la testa sulla terra, con una pausa di appena mezz’ora per il pranzo – aggiunge Saidad, anche lui profugo sudanese – Se appoggiamo una mano o il gomito su un ginocchio per riposarci o per fumare una sigaretta il giorno dopo non lavoriamo. Il caporale ci riconosce e non ci chiama più». I cinquantenni sono tagliati fuori in partenza. Troppo vecchi per sollevare tutte quelle casse di patate da 25 chili l’una. Ogni bracciante a fine giornata deve averne riempite almeno 100. «A volte anche 120 – precisa un altro forzato, sui 40 anni, libico – ma ci pagano sempre lo stesso prezzo: 35 euro». «Ci fanno pagare anche il biglietto del viaggio – aggiunge Essaid, 32 anni, algerino – dai 3 ai 5 euro a seconda della distanza del terreno da raggiungere. La polizia sa benissimo che i padroni non rispettano la legge, ma lascia correre. L’altra mattina hanno fermato il furgone che ci portava al lavoro, il caporale non aveva neanche la patente, ma l’hanno fatto proseguire senza dirgli niente».
Gli stranieri accanto alle capanne si sfogano ma dai loro sguardi traspare l’umiliazione di chi è costretto ad accettare qualsiasi ingiustizia pur di mandare qualche soldo alle proprie famiglie. Sono in Italia chi da più di due anni chi da uno chi da nove mesi. Molti non hanno il permesso di soggiorno, alcuni hanno permessi umanitari, ma non è il documento a rendere la loro condizione più civile.
Certo, non averlo li rende oggettivamente più deboli e ricattabili. «Lavorano il doppio degli italiani e guadagnano molto di meno – dice un commerciante di Cassibile che ogni mattina all’alba assiste dal suo negozio alla tratta delle braccia -. Fino a qualche anno fa qui le patate venivano a raccoglierle i messinesi, ai quali i proprietari terrieri oltre alla paga regolare offrivano anche vitto e alloggio. Poi sono arrivati gli extracomunitari e per gli imprenditori è come se fosse caduta la manna dal cielo. Non pagano né contributi ai lavoratori né tasse allo stato».

La raccolta delle patate dura un paio di mesi. Quest’anno è iniziata in ritardo e ora sta per finire. Ma a Cassibile l’arrivo degli stagionali è ormai una consuetudine, tra aprile e giugno. Ogni anno però si ripete la stessa storia. Il paese – famoso nei libri per la firma della resa italiana agli angloamericani nella seconda guerra mondiale – si divide fra chi si fa in quattro per dare una mano ai disperati e chi al contrario chiede le maniere forti per mandarli via. «Oggi siamo pacifici, ma domani…» era la scritta minacciosa sui cartelli imbracciati il fine settimana scorso da alcuni giovani scesi in piazza contro gli stranieri che fanno pipì per le strade e si lavano nelle fontane del paese. Alla marcia non erano in tanti, circa 200, ma sono bastati alla stampa locale per soffiare sul fuoco e scatenare retate tra gli stranieri da parte della polizia. «Ci si scandalizza se gli immigrati si lavano nelle fontanelle ma non per la mafia che li sfrutta – dice ancora D’Antoni – per fortuna c’è anche un’altra Cassibile, quella del volontariato che si rifiuta di considerare gli immigrati un problema di ordine pubblico e che anche domenica si è precipitata nell’accampamento che bruciava coprendo l’assenza delle istituzioni».
«Anche per evitare conflitti con la popolazione alla prefettura avevamo chiesto con largo anticipo di mettere a disposizione delle strutture per accogliere gli stagionali – racconta Guillaime Moline, coordinatore di Msf – ma non abbiamo avuto alcuna risposta. Così, non avendo alternative, non è rimasto altro che occupare questo campo e metterci delle tende, dei bagni idraulici e delle docce. E’ il minimo che si poteva fare per venire incontro a queste persone, ma la loro condizione come si vede resta drammatica sia sotto il profilo sanitario sia umano». Una condizione «inaccettabile, peggiore di un campo profughi del Darfur», la definisce il parlamentare europeo Prc Giusto Catania chiedendo l’intervento di Romano Prodi e del commissario Ue Franco Frattini.