Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Rapporto sul V° viaggio in Bosnia

A Kladuša al confine tra il comune di Cazin e la Croazia

“Weather is no good?
Our life is no good”
(dialogo con un ‘ospite’ del campo di Kladusha)

Cinque viaggi in tre mesi, cinque brevi soggiorni in un territorio che ci è diventato familiare, con i suoi orizzonti di colline verdi, ora catturate dai colori dell’autunno, presagio dell’inverno qui molto duro. Fra non molto saranno piene di neve.

Ci siamo soffermati, ormai, tante volte lungo il bellissimo fiume Una, nelle cittadine sparse di case e casette, talora fatiscenti o con i segni della guerra, talora civettuole come a voler dimenticare un recente atroce passato e a nascondere un duro presente.

Ci sono diventati familiari anche i provvisori abitanti di questo territorio – i profughi -, alcuni dei quali abbiamo incontrato più volte. Siamo ancor più duramente consapevoli della loro profonda differenza. Se noi, cittadini europei in regola, normali e normati, possiamo tranquillamente passare il confine politico, non possiamo varcare il confine tra una vita complessivamente protetta e sicura e queste vite disperse, abbandonate, appese alle decisioni arbitrarie dei vari poteri e sottopoteri, legali e illegali, spesso indistinguibili, che gestiscono il lungo cammino delle rotte balcaniche, dall’Afghanistan all’Unione Europea. Neanche i volontari, neanche quelli che spendono anni della propria vita nei campi profughi, possono superare questa differenza.

É un confine esistenziale e politico che potrebbe essere superato soltanto da un’azione politica, collettiva e diffusa, dei profughi insieme ai privilegiati europei, che certo per ora non s’intravvede. Ci sono tante persone impegnate, tante buone e anche consapevoli volontà. Ma sono disperse, non in grado – almeno finora – di unirsi nella prospettiva di un cambiamento di una condizione di vita assurda, di cui i profughi che arrivano in Europa sono soltanto l’indizio.

Per questo, abbiamo cercato di immaginare una forma di manifestazione politica che, se condivisa, potrebbe attirare una più vasta attenzione e servire come momento di coordinamento delle molte persone impegnate con i rifugiati, almeno per quel che riguarda, in questo momento, Serbia e Bosnia: una marcia transconfinaria, da Trieste e/o dal Friuli orientale verso la Bosnia, che potrebbe coinvolgere anche cittadini di altri paesi. Se ne sta discutendo a Trieste, anche con l’apporto di compagni sloveni.

Se nei nostri primi viaggi l’attenzione era concentrata soprattutto su Bihac, dove c’è tuttora il maggior numero di profughi, ora si è spostata prevalentemente su Kladuša, questa cittadina di poco più di 40.000 abitanti, letteralmente schiacciata contro il confine croato, attraversato nei fine settimana dai molti bosniaci che vanno a lavorare in Croazia, Slovenia, Austria, per cui si formano file interminabili di auto.
Ragioneremo dopo sui motivi di questo spostamento del nostro impegno.

Rispetto ai nostri viaggi precedenti, nel campo di Trnovi, a Kladuša ci sono meno persone, soprattutto meno famiglie con bambini, che sono stati spostati all’hotel Sedra vicino a Cazin, a una trentina di chilometri da Kladuša: ove stazionano circa quattrocento persone. Sono rimaste le famiglie più decise a riprendere quanto prima il ‘game’. Ci dicono che dovrebbero esserci al campo ancora 20 donne e 20 bambini.

Ritroviamo alcune persone che già conoscevamo, come la donna che pulisce continuamente la tenda in cui abita con la famiglia…. L’insegnante siriano sempre piuttosto agitato…

Incontriamo poi Matthieu Nicolas, berbero algerino, la cui schiena ferocemente striata dalla polizia croata è divenuta immagine ben nota in rete.

Ci colpisce molto il caso di Israr, il ragazzo ventenne che nel game ha perso le scarpe e, per ora, l’uso dei piedi piagati e giace disteso tutto il giorno o su una carrozzella che qualcuno ha portato. MSF lo porta ogni giorno in ospedale per la medicazione.

Dal nostro viaggio del 17/19 agosto troviamo alcuni cambiamenti: tre docce in container invece che in tenda; l’apprestamento in un altro container di una piccola clinica di MSF non ancora funzionante, ma che dovrebbe essere pronta per l’inverno.
L’infermeria, oggi, è semplicemente una rientranza nel muro dell’ex macello, dove un’infermiera spagnola di No name kitchen interviene come può.

L’inverno è alle porte, ma non si sa nulla su eventuali interventi dell’UNHCR- IOM. Si sentiva parlare di un trasferimento nell’ex capannone dell’Agrokomerz, ma non si vedono lavori in corso. La coordinatrice di No name kitchen ci dice che cercheranno di provvedere loro, nei limiti del possibile. I problemi saranno moltissimi, fra cui quello dell’acqua che gelerà nei tubi. Ci vorrebbero quanto meno delle vere solide tende, del tipo Protezione civile, e stufe elettriche serie: cose per ora inimmaginabili. Forse IOM conta di portarli tutti al Sedra in cui si stanno facendo lavori…

Accennavamo sopra all’accentuazione del nostro impegno su Kladuša, senza peraltro trascurare Bihac, dove continuiamo ad andare per conoscere l’evolversi della situazione e cogliere eventuali possibilità d’intervento.

Nel giugno scorso a Bihac, interveniva soltanto la Croce Rossa locale con i suoi pochi mezzi e con giovani volontari, cui noi portavamo le somme di denaro raccolte tramite la nostra rete di donatori.

Poi è arrivato l’IOM, la cui presenza a Bihac, però, si avverte soprattutto per l’aumento delle forme di controllo, anche di polizia privata. Bisogna dire che i servizi igienici, che erano al di sotto del limite tollerabile, sono ‘migliorati’ con dei container per docce e gabinetti, mentre il lavoro di assistenza viene svolto ancora dalla Croce Rossa. Pensavamo che, nella nuova situazione, la Croce Rossa avesse mezzi sufficienti. Dopo tutto, non si tratta di numeri giganteschi. Ma il segretario – nell’incontro che abbiamo avuto per chiedere il permesso, ora necessario, di visitare Borici, il grande edificio fatiscente che ospita attualmente circa 800 persone -, memore delle nostre passate donazioni, ha chiesto a noi privati se possiamo portare sacchi a pelo e vestiti pesanti!

Se l’Ue ha dato recentemente 6 o 7 milioni per migliorare le strutture d’accoglienza, finora non si colgono cambiamenti significativi.

E’ vero che è stato affittato l’hotel Sedra, nella valle dell’Una vicino a Cazin, a una ventina di chilometri da Bihac, che sembra costi non poco, in cui vivono circa 400 persone, soprattutto famiglie con minori. Ma non è sufficiente, come vedremo.

Nel Dom Borici, si nota qualche modestissimo cambiamento, un certo numero di brande, un maggior numero di tende, qualche telo sui finestroni vuoti, ma non ci sono segni sensibili di un miglioramento effettivo. Del resto, l’edificio è quello che è, strutturalmente fatiscente: dovrebbe soltanto essere abbattuto, non può essere reso abitabile. Ci hanno detto che è in corso la copertura del tetto, che noi non abbiamo potuto vedere.

Ci pare aumentato il numero di rifugiati fuori dal Dom. Secondo un’informazione, ovviamente incontrollabile, raccolta in loco, il ministro bosniaco della sicurezza avrebbe detto che nell’ultimo mese ci sarebbero stati quasi duemila arrivi. Questa notizia, dataci da persona informata, contrasta tuttavia, con quanto scritto sul Piccolo di Trieste del 26/09/018 per cui lo stesso ministro avrebbe dichiarato che il numero degli arrivi sarebbe “in drastico calo” . Alcuni rifugiati hanno ripreso a vivere anche nell’altro edificio fatiscente, vicino al fiume, che era stato sgomberato.
Ci dicono che non pochi vivono in appartamenti, illegalmente, perché il Comune lo vieta.

A Kladuša, in città, c’è anche il ‘Restoran Badden’, un ristorante privato che fornisce pasti gratuiti ai rifugiati, con sovvenzioni dell’IOM (secondo quanto ci è stato riferito). Davanti al ristorante, abbiamo trovato molti giovani che, dialogando con noi, ci hanno mostrato la ‘firma’ del ‘game’ sul proprio corpo, sia quella incisa dai poliziotti croati che dal duro cammino nella ‘jungle’.

Siamo andati anche all’hotel Sedra, l’unica vera novità dal giugno scorso. Non siamo potuti entrare, non avendo il permesso. Ma la sosta davanti all’edificio è stata ugualmente interessante. Abbiamo incontrato una donna curda dell’Iraq, già conosciuta a Bihac, che ha tentato cinque volte il ‘game’, con la famiglia. Appariva molto triste e scontenta per le condizioni di vita in questo albergo, isolato sulla strada Kladusha-Cazin-Bihac e sulle rive dell’Una, lontano dal confine, il cui passaggio è tutta la speranza di queste persone. In questo edificio non c’è acqua potabile. Le docce sono esterne.

Abbiamo anche incontrato una giovane famiglia afgana – un paese in cui la vita è invivibile! – con tre bambini, di cui uno, d’età inferiore ai due anni, nato ed operato due volte al cuore in Bulgaria. Il bimbo, pallidissimo, vive con una valvola al cuore.
Su un bordo di prato, sotto qualche albero, sedeva una fila di persone, fra cui tre donne, due molto giovani: erano curdi iraniani, provenienti dalla Serbia, senza documenti. Tenuti fuori dall’albergo, dormivano all’aperto, senza niente se non i vestiti che avevano addosso. Supponiamo che aspettassero quella forma di riconoscimento che danno le autorità bosniache, una carta che certifica la presenza sul territorio e che permette l’accesso alle strutture (si fa per dire). Ma intanto erano completamente abbandonati…

Non ci interessa elencare casi ‘pietosi’. Descriviamo quello che abbiamo visto, sapendo che sono solo esempi di una condizione di sopravvivenza al limite.
Vogliamo denunciare l’incuria di Istituzioni come l’UNHCR e l’IOM e dell’Unione Europea, che (non dimentichiamolo) ha un ruolo importante, con il suo Alto Commissario, in quello Stato molto particolare – o forse sarebbe meglio dire Protettorato? – che è la Bosnia Erzegovina. Tanto più che i numeri della rotta balcanica e del confine bosniaco/croato indicano una situazione facilmente risolvibile, solo se ci fosse una volontà politica.

Certamente, dietro c’è anche la situazione dei rifugiati in Grecia – cito solo il campo di Skaramagas (3.000 persone, circondate da filo spinato israeliano (!), per non parlare di Moria e di altri ancora -, ma anche lì si tratta di situazioni che l’UE, volendo, sarebbe in grado di gestire.

Il fatto è che la volontà politica va in direzione contraria: usare queste migrazioni per avviare politiche di governo che, in alcuni paesi soprattutto, troppo facilmente ricordano esperimenti degli anni venti e trenta del secolo scorso.

Il nostro contributo

Il nostro contributo come volontari indipendenti si basa sulla raccolta fondi svolta attraverso una rete pubblica di donatori.
Grazie al contributo di molte persone, abbiamo raggiunto, questa volta, la somma di 2.897 euro
In questo nostro quinto viaggio abbiamo consegnato all’associazione No Name Kitchen materiale sanitario per un totale di euro 430,95
Acquisti essenziali per un ordine di euro 1.031,79
Calzini e scarpe per un totale di euro 550
Abbiamo inoltre consegnato a No Name Kitchen la somma di euro 910 per l’acquisto di legna essenziale ad alimentare le stufe da campo.

Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".