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«Razzismi contemporanei. Le prospettive della sociologia»

Un libro di Annalisa Frisina (Carocci, 2020)

Corteo in ricordo di Jerry Masslo

Pubblichiamo un breve estratto dal libro “Razzismi contemporanei” sulla violenza razziale concesso gentilmente dall’editore e dall’autrice.

Introduzione di Mackda Ghebremariam Tesfau è stata scritta il 9 giugno 2020, a pochi giorni dall’uccisione di George Floyd (n.d.R.).

Mentre il mondo è scosso dalle fiamme di Minneapolis, e la risposta all’ingiustizia subita dagli afroamericani diviene un grido di liberazione collettivo, sentiamo il bisogno di ricordare e ricordarci che la violenza razzista è sistemica e globale. Questo significa che non riguarda gli Stati Uniti più di quanto non riguardi l’Italia, bensì solo con sfumature differenti. Il paragrafo sulla violenza razziale estratto dal testo di Annalisa parla di questo.

Non è stato scritto l’indomani dell’assassinio di George Floyd, l’ennesimo di una lista che ricordiamo con rabbia. Il paragrafo è frutto di un lavoro che precede la morte di George Floyd, e si situa in un altro luogo: l’Italia di ieri e di oggi. Condividerlo è un modo per ribadire che la violenza sui corpi neri non è una prerogativa statunitense ma interessa noi, ora, qui.

Come dunque cominciare a nominare il nostro razzismo, il nostro problema razziale, per rendere veramente giustizia a questo movimento globale che dice enough is enough, adesso basta?!

Il compito di individuare affinità e divergenze tra le manifestazioni del razzismo sistemico in Italia, Europa e Usa è difficile ma non può essere evitato per due ordini di ragioni complementari, ovvero quello di evitare di cadere vittime dell’egemonia culturale USA e contemporaneamente quello di vedere il poliziotto assassino nell’occhio dell’altro mentre ignoriamo la nave che affonda nel nostro.

Per lungo tempo il tema razziale è stato occultato, offuscato attraverso un linguaggio che parla di migrazioni e sicurezza, di policy e confini, di degrado, disagio e devianza, come sociologi quali Marcello Maneri e Salvatore Palidda hanno ampiamente documentato. Tale mistificazione porta anche coloro altrimenti sensibili al tema ad immischiarsi in un dibattito irrimediabilmente inquinato da categorie fuorvianti. L’effetto di questa arbitraria identificazione è la produzione di vite nere costantemente fuori posto, in un transito mai concluso, vite da governare e disciplinare anche attraverso la morte, a dispetto della lezione biopolitica foucaultiana. Il regime necropolitico (Mbembe, 2016) dei confini Europei, di cui Melting Pot da sempre si occupa, non è frutto di goffe manovre emergenziali, ma figlio di una lunga storia coloniale e neocoloniale, che inventa la nerezza come condizione definitivamente subalterna, e dunque subumana, sia materialmente che simbolicamente.

La morte di George Floyd ci impone di pensare ad Abba, di pensare a Sandrine Bakayoko, di pensare a Idy Diene, a Emmanuel Chidi Namdi, Jerry Masslo, Samb Modou, Diop Mor, Soumaila Sacko e tutt* coloro che sono rimasti innominati, nei letti di acqua salata e asfalto su cui poggiano le nostre città. Come Pateh Sabally, di cui parla Annalisa, annegato nell’indifferenza di quel razzismo in salsa italica che non sappiamo vedere, ma che filmiamo con arroganza. Questa salsa è fatta dei pomodori raccolti nel meridione, raccontati da Zalab ne Il sangue Verde. È mischiata con una legge, la Bossi Fini, che materializza l’intersezione tra “razza”, nazionalità e classe, poggiata com’è sull’assioma contratto di lavoro, permesso di soggiorno, e cucinata al basso fuoco di una rimozione coloniale che, come sottolinea lo storico Gabriele Proglio, assomiglia più ad una memoria selettiva. Che Amba Aradam! La nostra salsa deve essere poi lasciata riposare al buio di una mancata riforma della cittadinanza, che costringe all’invisibilità un milione di Italiani senza cittadinanza. Infine servita condita da un genocidio silenzioso, regolato a suon di esternalizzazione dei confini e criminalizzazione della solidarietà, e accompagnata sempre da un bel “non sono razzista ma (…)”.

Nell’emozione che come afrodiscendente provo per la rivoluzione che sembra fare capolino al di là dell’Atlantico, sento anche dolore per le vite dimenticate al di qua dell’oceano, alle quali è stato negato il diritto al lutto e il diritto alla rabbia. A riprova di ciò la condanna per le due fioriere rovesciate dalla comunità afrofiorentina, durante la marcia furente seguita all’omicidio di Idy Diene, assassinio a cui un’autorità omertosa ha immediatamente negato il movente razziale, così facendo umiliando il corpo e la memoria di Idy, e con lui di tutte le vite spezzate dal razzismo.

Le pagine che seguono illuminano una strada difficile da percorrere ancorché obbligata, ovvero quella di una riflessività che parte da noi, qui, oggi. Mancare di compiere questo passo, ricordare George senza mettere al centro la nostra esperienza, significa fare da specchio a lotte che non sappiamo essere le nostre. Comprendere la fondamentale globalità del sistema razziale, opponendoci ad ogni sua declinazione particolare significa invece raccogliere questo lutto collettivo e farne un’arma di liberazione di massa. Idy, George, le altre e gli altri non meritano nulla di meno.

La nostra storia inizia qui con l’omicidio di Jerry Masslo, studente, attivista e bracciante, fuggito dal regime dell’apartheid sudafricano per scoprire che in Italia la legge razziale aveva solo un altro nome. Nel denunciare la condizione di sfruttamento sotto caporalato e le violenze che insieme a molti altri neri subiva, durante un’intervista svoltasi per il programma “Nonsolonero” pochi giorni prima della suo assassinio, Jerry diceva: “La polizia non ci protegge (…)”.

Ringraziamo per la gentile concessione l’editore e l’autrice.

Scheda del libro

Il libro ricostruisce la sociologia del razzismo dei pionieri – valorizzando i contributi di W. E. B. Du Bois e Anna Julia Cooper – per poi arrivare al dibattito contemporaneo e riflettere sui processi di razzializzazione, sull’importanza della cultura come luogo di lotta, sugli approcci femministi materialisti e intersezionali, sulle prospettive post o decoloniali e sulla costruzione della “bianchezza”.

Particolare attenzione è dedicata alla riproduzione e alla contestazione delle gerarchie razziali. Ad esempio, il volume mostra come l’educazione assimilazionista sia opprimente e anche come l’istruzione possa diventare un mezzo di emancipazione sociale e culturale.

Inoltre, viene messa in luce l’importanza della dimensione spaziale del razzismo, in particolare analizzando il caso del movimento svedese antirazzista di giustizia urbana. Infine, viene discussa la relazione intima tra capitalismo e razzismo. Il testo si rivolge a chiunque intenda fare ricerca sociale (in particolare qualitativa/visuale) sui razzismi e anche alla società civile interessata a conoscerli.

Mackda Ghebremariam Tesfau

Dottoressa di ricerca in Scienze Sociali. Ho conseguito il dottorato presso l’Università di Padova. Sono docente a contratto presso Iuav Venezia, Stanford Florence e Fondazione UniverMantova.
Faccio parte del direttivo di Refugees Welcome, associazione impegnata nell’accoglienza di rifugiate e rifugiate in famiglia, parte del comitato di esperte e collaboratrice dell’associazione Razzismo Brutta Storia e resident curator presso Centrale Fies.