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Reggio Emilia – La festa delle donne migranti

Verso l'8 marzo: le donne di Caffè Babele si raccontano

Il lavoro di cura
La crisi del welfare pubblico è un dato di fatto tanto quanto l’invecchiamento della popolazione italiana. L’insufficienza del settore pubblico nell’assistenza agli anziani ha trovato una risposta spontanea nel fenomeno delle badanti.
Siccome lo Stato non sostiene la maggior parte delle famiglie che hanno bisogno di aiuto, gli italiani si sono arrangiati privatamente assumendo le collaboratrici straniere.
I costi gravano interamente sulle famiglie italiane, mentre le collaboratrici familiari che lavorano in nero non godono di alcun diritto e anche per quelle che hanno un regolare contratto di lavoro le condizioni lavorative vanno molto spesso oltre le norme stabilite. Molte colloboratrici familiari vivono nella casa in cui lavorano e, anche se l’integrazione con la famiglia è buona, il legame affettivo che si viene a creare induce la colf a protrarre l’orario di lavoro se le viene richiesto.

“Essere badante significa in molti casi che tu ti devi trovare 24 ore al giorno nella casa della persona che curi” -racconta Natasha, donna moldava di 38 anni- “non puoi uscire di casa, perché se la persona ha bisogno di te devi sempre esserle vicina.”
La sfera di competenza come badante è molteplice: “Si tratta di curare la persona, dare le medicine, lavarla e vestirla, cucinare per lei e fare le faccende domestiche. E certamente dare sostegno psicologico.” -Afferma Natalia, donna ucraina di 40 anni.

Chi sono le badanti
Le badanti sono per lo più donne straniere provenienti principalmente dall’Est Europa, la gran parte ha un titolo di studio e competenze professionali medio-alte. Guadagnano mediamente 800/900 euro al mese.

Spesso hanno figli e marito nel paese di orgine che hanno lasciato per venire in Italia alla ricerca di un lavoro che permetta loro di poter mantenere economicamente la famiglia. “I soldi vengono mandati a casa. 100 Euro al mese li tengo per me, il resto è per la mia famiglia” -afferma Oksana, donna ucraina di 40 anni laureata in medicina- conferma Tatjana, un’altra donna ucraina di 45 anni laureata in ingegneria: “Noi siamo venute a causa dei bambini e della famiglia. Questi sacrifici vengono fatti perché non ci sono altre prospettive realistiche”.
Molte di loro pensano di tornare al paese di origine. “Voglio tornare a vivere con la mia famiglia, penso di mandare un pò di soldi a casa e poi tornare perchè il mio rapporto con i figli e il marito sta diventando molto difficile” -racconta Maria, donna moldava di 43 anni.
Spesso queste donne non sono in regola con il soggiorno. “Io mi sono regolarizzata con il decreto flussi 2006, sono stata clandestina per 3 anni. La persona con cui lavoravo era disponibile a farmi un contratto di lavoro ma abbiamo dovuto aspettare il decreto flussi. E poi ho dovuto fare il viaggio di ritorno per ritirare il visto, ho avuto paura di ricevere un’espulsione. La famiglia mi ha aspettato, ma molte mie amiche non hanno avuto la stessa fortuna, la famiglia non era disposta ad aspettare così tanto tempo” -dice Natasha- “Io invece non sono riuscita a regolarizzarmi, vivo nella paura e con l’angoscia di non poter vedere i miei figli”- racconta Tatjana.

L’agire collettivo delle donne migranti di Caffè babele
Natasha, Maria, Natalia, Oksana, Marika e Tatjana sono alcune delle donne che partecipano a Caffè Babele.
“La festa della donna la faremo a Caffè Babele. Siamo donne, mamme e molte di noi anche nonne che abbiamo lasciato la nostra famiglia per trovare un lavoro qui in Italia e poter mantenere i nostri figli a casa. Molte volte accettiamo condizioni di lavoro dure pur di poter garantire un futuro ai nostri figli. Ma abbiamo la nostra dignità. Ogni domenica, per molte di noi l’unico giorno libero alla settimana, ci incontriamo insieme a circa un centinaio di altre badanti provenienti dall’Est Europa e facciamo il Caffé Babele durante il quale discutiamo, mangiamo, festeggiamo e balliamo. Proiettiamo dei film, facciamo lo scambio dei libri in lingua e della musica. E certamente parliamo del lavoro e delle nostre condizioni, discutiamo di questioni legali e di diritti di cittadinanza”, dice Maria.
Una rete di un sapere collettivo migrante che si è sviluppata da questa esperienza che dura ormai da tre anni.
“Per la festa della donna abbiamo organizzato un pranzo, condivideremo il cibo e parleremo dei nostri diritti, dei nostri sogni, come donne, come immigrate e come lavoratrici impiegate nella cura delle persone non più autossuficienti”, racconta Natalia. “L’8 marzo, invece, dalle nostre case interverremo in diretta alla festa che si svolgerà ai giardini dell’Arena di Padova per dare un saluto ed essere vicine alle donne che come noi dall’estero sono arrivate in Italia con il sogno di una vita migliore per loro e per le loro famiglie”, conclude Marika.